LA RIVOLUZIONE DEL TEMPO. A CREMONA L’ARTE SFIDA IL CALENDARIO CON “E SE FOSSE NATALE TUTTO L’ANNO?”

di Redazione TZ.

Cremona – C’è una domanda che aleggia nell’aria, provocatoria e necessaria, pronta a scardinare le nostre certezze cronologiche, antropologiche, scientifiche, persino le abitudini. Non è un semplice titolo, ma un guanto di sfida lanciato contro la frenesia che ci divora: E SE FOSSE NATALE TUTTO L’ANNO?

Questa collettiva a numero chiuso, che aprirà i battenti domenica 7 dicembre negli eleganti spazi di Gabetti Arte, in Piazza Stradivari, non è la solita esposizione natalizia fatta di convenzioni, ma un manifesto ontologico.

Sotto la curatela esperta della Prof.ssa Daniela Belloni e del giornalista e critico d’arte Pasquale Di Matteo, l’arte diventa lo strumento per fermare le lancette dell’orologio.

Dimenticate le luci a intermittenza che si spengono all’Epifania. Dimenticate gli scatoloni da chiudere e riporre in cantina, in attesa del Natale successivo.

Qui si parla di una luminosità immanente, quella Natura Naturans spinoziana che non smette mai di generare, di ardere, di essere viva. È l’invito a riscoprire quella che Hannah Arendt chiamava “natalità”: la miracolosa capacità umana di iniziare qualcosa di nuovo, ogni singolo giorno.

L’obiettivo è ambizioso: trasformare l’eccezionalità della festa nella regola dei rapporti umani, costruendo un’architettura sociale dove l’altro non è un estraneo, ma una risorsa.

IL VERNISSAGE E L’ATTESA DELL’INEDITO

L’inaugurazione si preannuncia come un evento sensoriale completo. Oltre al dialogo visivo con le opere, l’atmosfera sarà elettrica, carica di quell’aspettativa che precede le grandi rivelazioni.

C’è un segreto, infatti, custodito gelosamente dagli organizzatori. Esattamente alle ore 17:00 di domenica 7 dicembre, il brusìo della sala verrà interrotto da una sorpresa musicale inedita. Nessun dettaglio è trapelato: si sa solo che sarà un momento di pura magia, un regalo immateriale che si svelerà solo ai presenti, rendendo l’attimo irripetibile.

I FILOSOFI DEL COLORE: UN VIAGGIO TRA MATERIA E SPIRITO

Gli artisti selezionati per questa “utopia concreta” non sono semplici esecutori, ma sociologi dell’anima. Ognuno di loro offre una tessera di questo mosaico di rinascita.

Si parte dalla grammatica della luce di MARIA GRAZIA CIMARDI, che trasforma le mani in mappe geografiche dell’esistenza: nelle sue tele, una presa infantile o una pelle segnata dal tempo non sono dettagli anatomici, ma racconti, memorie.

La materia si fa invece grido con ALBERTO COSTA, dove il colore non copre la tela ma la scolpisce, creando rilievi emotivi in cui la neve protegge ricordi e i fiori esplodono in una vitalità disperata.

È un percorso che ci porta poi nel silenzio cosmico di CHIARA GALLIANO, capace di racchiudere l’universo nel dettaglio di una foglia o in sfere fragili che galleggiano su un’eternità misteriosa, ricordandoci la nostra piccolezza di fronte all’infinito.

E se il buio sembra vincere, ecco intervenire BRUNO GRECO: i suoi paesaggi sono esplosioni di luce che lacerano la notte, metafore potenti di chi sceglie di vivere e lottare nonostante le ferite.

La vulnerabilità diventa forza scultorea nelle opere di ANNA MAINARDI, dove ceramica e metallo si fondono in totem ieratici, figure senza volto che, attraverso le loro fratture, ci costringono a guardare nell’abisso che ci abita.

La luce, letteralmente, sgorga dalle ferite/incisioni nell’arte di SERENA PESCARMONA: i suoi non sono dipinti, ma incisioni su legno e vetro che, grazie a una tecnica brevettata, sanguinano luminosità, svelando che sotto ogni cicatrice brilla una verità taciuta.

C’è poi chi, come ROBERTO RAMIREZ ANCHIQUE, tesse la sacralità nel povero: iuta e oro dialogano nelle sue opere come la preghiera dialoga con la sofferenza, in un labirinto visivo che cerca costantemente il centro dell’essere.

L’acqua e l’emozione si confondono nelle tele di CHIARA MARIA ROSSETTI, dove i paesaggi marini sono stati liquidi della coscienza, orizzonti viola e magenta che vibrano tra la presenza e l’addio, scrostando la superficie del reale.

La verità nuda e cruda è il terreno di MARIA ANTONIETTA ROSSI: la sua iuta è pelle viva, un sudario che accoglie il rosso viscerale e il bianco silenzioso, trasformando ogni strappo materico in una geografia dell’intimo che non nasconde nulla.

SIMONA SARAO ci invita, invece, a scorticare i muri dell’apparenza: la sua arte è un blu amniotico che accoglie e perdona, in bilico tra la brutalità del mattone e la dolcezza del sogno, dove ogni frattura è una ferita che diventa feritoia di luce.

In un mondo in conflitto, MARIA VACCARI dipinge la sopravvivenza dell’amore: le sue tele sono soglie tra le macerie e la speranza, dove un abbraccio o un volto tenero diventano l’ultimo baluardo contro la disumanizzazione.

Infine, la metafisica sottile di ATTILIO ZANANGELI ci porta in una dimensione di sottrazione: figure esili e alberi d’oro si stagliano in paesaggi di silenzio, dove la fragilità umana viene elevata a condizione sacra, preziosa proprio per le sue crepe.

UN TOCCO DI TENEREZZA LETTERARIA

A completare questo percorso di umanità ritrovata, l’evento ospiterà la presentazione del libro di DANIELA BUSSOLINO. Nota come pittrice, l’artista svela qui la sua anima letteraria con “Una Storia d’Amore a Quattro Zampette”, un tributo commovente all’empatia e all’amore incondizionato, capace di insegnarci la semplicità del bene.

UN INVITO A ESSERE PRESENTI

La mostra sarà visitabile fino al 21 dicembre 2025.

Ma l’appuntamento da non perdere è quello di domenica 7 dicembre. Non venite solo per guardare, ma venite anche per ascoltare quella sorpresa delle 17:00, per immergervi in un tempo diverso e per accettare la scommessa che sì, forse è possibile far sì che la luce non si spenga mai.

Giocare al lotto della speranza, come suggeriscono i curatori, è l’unico modo per avere una possibilità di vincere un mondo nuovo, visto che il nostro traballa, tra follie di guerre atomiche e crisi finanziarie all’orizzonte.

SCHEDA TECNICA DELL’EVENTO

TITOLO: E SE FOSSE NATALE TUTTO L’ANNO?

CURATORI: Prof.ssa Daniela Belloni, Dott. Pasquale Di Matteo

DOVE: Gabetti Arte, Piazza Stradivari, Cremona

VERNISSAGE: Domenica 7 dicembre 2025 (Sorpresa musicale alle ore 17:00)

DURATA: Dal 7 al 21 dicembre 2025

CLICCA SULL’IMMAGINE SOPRA PER SCOPRIRE DI PIÙ.

Puoi conoscere meglio tutti gli artisti in mostra cliccando QUI.

IL GIAPPONE STA PER RISCRIVERE L’ORDINE MONDIALE

Non è solo economia. È la fine della simbiosi finanziaria che ha retto l’Occidente per 40 anni.

Oggi, mentre l’attenzione collettiva è ipnotizzata dalla Fed e dalle promesse dell’intelligenza artificiale, l’infrastruttura del capitalismo mondiale sta scricchiolando in un luogo che abbiamo dato per scontato per decenni: Tokyo.

C’è un’anomalia in corso. Una di quelle che, se hai l’occhio allenato per la macro-storia, ti fa correre un brivido lungo la schiena.
Per la prima volta nella storia recente, i titoli di stato giapponesi e lo Yen stanno crollando simultaneamente.

Solitamente, questi due asset avanzano in antitesi, perciò, se uno scende, l’altro sale. Oggi, invece, cadono entrambi nel vuoto.

E non si tratta di un “aggiustamento di mercato”, ma di un urlo di dolore sistemico. È la spia rossa sul quadrante dell’economia globale che segnala una fuga di capitali e una sfiducia totale, che porteranno conseguenze sui vostri bilanci molto prima di quanto pensiate.

L’ADDIO ALLO “ZIO RICCO” D’ORIENTE

Per quasi quarant’anni, il Giappone è stato lo “zio ricco” e silenzioso dell’America.

Tokyo, gigante dell’export con surplus di cassa mostruosi, aveva bisogno di parcheggiare denaro; Washington, con la sua fame insaziabile di acquistare, aveva bisogno di prestiti a basso costo.

Il Giappone comprava debito USA, teneva basso lo Yen per favorire le sue Toyota e Sony, e l’America finanziava il suo stile di vita. Tutti vincevano. Fino ad ora.

Quello che stiamo osservando – e i dati iniziano a sussurrarlo – è che il Giappone sta vendendo.
Non sta ribilanciando. Sta liquidando miliardi di dollari di Treasury americani.

E sta vendendo perché lo zio ricco è andato in pensione e ha scoperto che la pensione non basta.

Il Giappone oggi ha bisogno di quei soldi in patria. Deve finanziare una difesa militare in espansione, sostenere una valuta che sta implodendo e pagare gli stimoli fiscali di una politica interna sempre più disperata e aggressiva (la cosiddetta Abenomics 2.0 spinta dalla nuova leadership).

IL CARRY TRADE: LA FINE DEL BANCOMAT GLOBALE

Avete mai sentito parlare del Carry Trade?
È stato il bancomat gratuito del mondo finanziario. Prendere in prestito Yen a tasso zero, convertirli in Dollari e comprare asset che rendono il 4% o il 5%. Soldi gratis. Liquidità infinita.
Un giochino che funziona solo se lo Yen è stabile e… “morto”.

Ma lo Yen si è svegliato. È volatile. È nervoso.
Se i tassi in Giappone salgono – e hanno appena sfondato il muro dell’1,7%, livelli pre-2008 – quel bancomat si chiude. E quando il bancomat chiude, la liquidità evapora istantaneamente dai mercati globali. Quello che abbiamo visto l’anno scorso, con crolli repentini dell’S&P 500, era un’anticipazione.

IL DEBITO COME ARMA NON CONVENZIONALE

Per la prima volta, i funzionari di Tokyo non parlano più delle loro riserve di Treasury USA come di un “investimento prudente” e hanno iniziato a usare termini diversi, come “leva negoziale” e “carta strategica”.

Questo è il vero cambio di paradigma. Il Giappone, messo all’angolo da una crisi demografica e fiscale, sta trasformando il debito americano da scudo finanziario a spada geopolitica. In un mondo dove chi urla di più ottiene attenzione, il Giappone sta sussurrando che potrebbe smettere di finanziare il debito pubblico americano. E questo sussurro fa più rumore di una portaerei, più paura dei missili atomici.

Se il compratore numero uno (il Giappone) si ritira, e il compratore numero due (la Cina) è un rivale strategico che sta già vendendo, – e l’Europa ha gravi problemi, impantanata nella guerra in Ucraina, – chi comprerà il debito USA?

Nessuno, se non a tassi di interesse molto più alti. Cosa che per gli USA, nazione con il più alto debito al mondo, significa tasse aumentate, tagli e crisi economica.
E tassi più alti significano anche che i mutui, i prestiti aziendali e il costo del capitale per le vostre aziende esploderanno.

Insomma, l’era del denaro facile è finita. Non perché lo ha deciso la Fed, ma perché lo ha deciso il mercato obbligazionario.

LA FRAGILITÀ DELL’ILLUSIONE TECNOLOGICA

Venerdì scorso, mentre molti erano distratti dal ponte, il CBOE si è bloccato.
Un intero mercato paralizzato. La causa? Un singolo data center andato offline.
Mentre ci esaltiamo per l’Intelligenza Artificiale e i suoi miracoli, dimentichiamo che poggiamo su infrastrutture fragili. E indovinate cosa serve per costruire quei data center robusti di cui l’IA ha fame? Rame. Argento. Palladio. Energia.

Ecco perché le materie prime stanno salendo mentre le valute tremano. Non è speculazione, ma fisica.
L’inflazione non è morta; si sta solo trasferendo dai servizi ai beni reali necessari per mantenere in piedi la baracca tecnologica su cui abbiamo scommesso il futuro.

STRATEGIE PER LEADER CONSAPEVOLI

Quindi, cosa deve fare un leader oggi?
Smettere di guardare le previsioni della Fed sui tagli dei tassi. Sono irrilevanti se il mercato obbligazionario decide diversamente. La Fed è “incastrata”: se non taglia i tassi delude il mercato azionario (che vive di aspettative), se li taglia con l’inflazione latente nelle materie prime, rischia l’incendio.

Dovete costruire posizioni Anti-Fragili.

  1. Monitorate il rendimento del decennale USA, perché è lui il vero elemento che determina il valore di ogni altro asset. Se sale violentemente, scappate.
  2. Osservate lo Yen. Non come valuta esotica, ma come canarino che vi avverte.
  3. Non ignorate le materie prime. Perché, in un mondo di debiti di carta che perdono credibilità, gli asset fisici industriali (non solo l’oro) diventano l’unica verità.

Il Giappone ci sta insegnando che la stabilità è apparente, spesso solo volatilità compressa. E quando quella molla scatta, non avvisa.

Non siate i passeggeri che guardano il panorama mentre l’autista sta andando a sbattere.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

I VERTICI NATO MINACCIANO LA RUSSIA, DIVENTANDO LA NOSTRA VERA MINACCIA ESISTENZIALE

Dopo le parole irresponsabili dell’Ammiraglio Cavo Dragone, – frasi in contrasto con l’Art. 244 del nostro Codice Penale, – Putin risponde alle minacce subite, ma per la propaganda che ci ha raccontato di pale e microchip, diventa lui quello che minaccia.

Siamo spettatori di una schizofrenia geopolitica senza precedenti, un teatro dell’assurdo dove la realtà sul campo e la narrazione mediatica non solo divergono, ma abitano due universi paralleli.

Mentre i veri decisori internazionali tentano, con fatica, di aprire canali di comunicazione tra la Florida e il Cremlino, l’Europa sbraita, intrappolata in un provincialismo fallimentare.

La settimana appena trascorsa doveva essere cruciale. E lo è stata, ma non come vi hanno raccontato.

IL SILENZIO DOPO LE CINQUE ORE: IL FALLIMENTO DI WITKOFF E IL REALISMO NEGATO

Steve Witkoff e il team di Trump si sono seduti con Vladimir Putin. Cinque ore di colloquio. Un’eternità in diplomazia. Il risultato? “Nessuna intesa”, “Nessun accordo”.

I media nostrani, con una superficialità disarmante, lo hanno liquidato come un fallimento o, peggio, come la prova dell’intransigenza russa.

Chiunque sia sano di mente, però, sapeva che non ci sarebbe stato un cessate il fuoco immediato, perché la Russia sta vincendo sul campo e l’Occidente continua a presentarsi al tavolo con le pretese di un bambino capriccioso.

Mosca chiede il riconoscimento di quanto sta prendendo con la forza: niente NATO e riconoscimento dei territori. Kiev e Washington rispondono con “Nessuna concessione”.

È un dialogo tra sordi, inoltre le “cinque ore” dimostrano che Washington sta trattando sopra la testa dell’Europa, di quell’Europa che paga il conto anche se conta come il nulla elevato a potenza zero.

IL PARADOSSO DELL’AGGRESSORE DIFENSIVO: LA DERIVA DELLA NATO

Prendiamo le parole dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone.

Parole gravissime che meriterebbero l’attenzione della Magistratura, in nome del Codice Penale italiano, che punisce chi mette a rischio la sicurezza nazionale.

Un uomo di mare, un tecnico, che improvvisamente si avventura in una semantica orwelliana. Parlare di “attacco preventivo” come di una misura difensiva non è solo un ossimoro, ma è la distruzione delle stesse fondamenta dell’Alleanza Atlantica, nata per proteggere e non per colpire per primi.

Affermare che “forse dovremmo essere più aggressivi del nostro avversario” tradisce una frustrazione operativa che diventa un azzardo che mette a rischio la nostra sicurezza.

Dragone si interroga sul quadro giuridico, sui vincoli etici che le democrazie impongono. Ma quei vincoli non sono debolezze; al contrario, sono proprio ciò che ci rende democratici.

Se per combattere il mostro diventiamo il mostro, cancellando etica e giurisdizione, cosa stiamo difendendo esattamente?

La missione Baltic Sentry pattuglia acque calme, ma l’ammiraglio ne deduce che la deterrenza funziona.

Ma la deterrenza vera è silenziosa. Quando un vertice militare sente il bisogno di teorizzare pubblicamente l’attacco preventivo, non sta facendo strategia, ma pessima comunicazione di crisi.

Oltretutto, anche solo ipotizzare un’aggressione a una superpotenza nucleare dimostra incompetenza e inaffidabilità.

E la risposta di Mosca, prevedibile come la notte dopo il giorno, non si è fatta attendere: un assist perfetto per la propaganda russa che ora può dipingere l’Occidente come una minaccia esistenziale.

LA FABBRICA DELLA PAURA: COME TRASFORMARE “NON VI ATTACCHEREMO” IN “INVASIONE IMMINENTE”

Putin dichiara: «Non andremo in guerra con l’Europa, l’ho detto cento volte. Ma se l’Europa vuole farlo, siamo pronti».

Cosa titolano i giornali il giorno dopo? “Putin minaccia l’Europa”, “Pronti alla guerra”.

È una manipolazione della Comunicazione in stile 1984 di Orwell.

Si prende la clausola condizionale (“se l’Europa vuole”) e la si trasforma in intenzione attiva, in una distorsione che serve a giustificare le follie belliciste di cui parlavamo poc’anzi, come le dichiarazioni dell’ammiraglio Cavo Dragone sull'”attacco preventivo”.

Se convinci l’opinione pubblica che il mostro sta per sfondare la porta, allora l’attacco preventivo non sembra più una follia illegale, ma una necessità di sopravvivenza. È ingegneria sociale applicata alla guerra.

LA LEVA DI CROSETTO: CURARE UN PAESE SANO CON MEDICINE TOSSICHE

Spostiamoci sul fronte interno, dove il Ministro della Difesa Guido Crosetto sembra voler rincorrere le ombre francesi e tedesche proponendo una riserva ausiliaria, anticamera di una leva volontaria. Diecimila uomini oggi, trentacinquemila domani.

Per fare cosa?

Lo storico Lucio Caracciolo, ha smontato il giocattolo.

Non c’è minaccia alle porte. I carri armati russi non stanno valicando il Brennero, ma faticano a tenere un villaggio nel Donbass, come ci confermano gli stessi media informativi italiani.

La proposta di Crosetto non risponde a un’esigenza militare reale, ma a una “retorica dell’emergenza”. È un tentativo maldestro di militarizzare la coscienza civile, di instillare quella paura cheè il collante più economico per tenere insieme un elettorato smarrito.

Tutto per soddisfare le lobby delle armi. E quando hai interessi in Leonardo, può succedere di farsi prendere la mano.

Ma attenzione: la leva, anche se volontaria, è materia politica radioattiva. Se Giorgia Meloni dovesse avallare questa linea, si troverebbe a gestire un cortocircuito tra la realtà percepita dagli italiani (che vogliono lavoro, sanità, stabilità e la fine della guerra a larga maggioranza) e la realtà immaginata dai suoi ministri (trincee, riservisti e guerra a oltranza).

E, nel segreto dell’urna, gli italiani sanno cambiare opinione rapidamente, soprattutto chi ha espresso voti di protesta in precedenza.

L’ESCALATION MARITTIMA: IL GIOCO PERICOLOSO NEL MAR NERO

Mentre ci distraiamo con la retorica, nel Mar Nero sta accadendo qualcosa di gravissimo, colpevolmente sottaciuto. L’Ucraina ha iniziato a colpire navi mercantili, petroliere e non, usando la scusa della “flotta ombra”.

Hanno colpito una nave che trasportava olio di girasole diretta in Georgia. Non petrolio per finanziare la guerra. Hanno attaccato il cibo.

Kiev dice «Non siamo stati noi, sono stati i russi a bombardarsi da soli». Una narrazione che fa breccia solo in chi ha creduto alle sciocchezze su pale e microchip, simile a quella del Nord Stream o del missile in Polonia.

Intanto, Erdogan è furioso. La Turchia vede minacciata la sicurezza nel suo “cortile di casa”.

Da Mosca avvertono che se l’Ucraina continua a colpire le navi, rivaluteranno la libertà di navigazione.

Tradotto dal diplomatichese: Odessa potrebbe essere chiusa per sempre. Trump, che aveva elogiato Odessa, ora si trova davanti a un dilemma creato dall’irresponsabilità di chi ha armato la mano di Kiev per colpire obiettivi civili in acque internazionali.

IL MALESSERE DI BRUXELLES E LA FRUSTRAZIONE DEL BELGIO

Spostiamoci a Bruxelles, dove la dissonanza cognitiva regna sovrana, dove si continua a spingere per il prestito da 140 miliardi garantito dagli asset russi congelati. Ma il Belgio, custode di questi asset, ha rotto il fronte del silenzio.

Il Ministro degli Esteri belga, infatti, ha definito la proposta della Commissione come “la peggiore opzione”, esprimendo frustrazione per non essere stato ascoltato.

L’Unione Europea, guidata dalla Von der Leyen, sta agendo attivamente contro gli interessi nazionali dei suoi stessi membri pur di alimentare la macchina bellica. È un paradosso istituzionale, un’unione nata per la pace che sacrifica la stabilità economica dei suoi membri sull’altare di una guerra per procura.

IL DESTINO DEI GENERALI: QUANDO LA VERITÀ È UN REATO D’OPINIONE

Ricordate l’ammiraglio tedesco Schönbach? Fu costretto alle dimissioni a gennaio 2022 per aver detto che la Russia voleva rispetto e che la Crimea era persa per sempre.

La sua era un’analisi realista, magari cinica, ma basata sui rapporti di forza.

Ebbene, fu “punito” per aver detto una verità inaccettabile per la narrazione dominante, che lo definì filo-putiniano.

Oggi, Cavo Dragone dice l’opposto: evoca scenari apocalittici, attacchi preventivi, aggressività. Mette a repentaglio non soltanto la sicurezza nazionale dell’Italia, ma dell’intera Europa. Ciononostante, rimane al suo posto, nonostante la gravità inaudita – nonché illegale, per il nostro Diritto, – delle sue parole.

Viviamo in un’epoca in cui il vertice militare non è più valutato sulla competenza, come si evince, ma sulla sua aderenza allo storytelling politico. Schönbach raffreddava gli animi e fu cacciato; Dragone gioca per la propaganda occidentale, perciò viene confermato.

Ma le parole pesano come pietre. In un mondo iperconnesso, suggerire un attacco preventivo non è un’ipotesi accademica: è benzina sul fuoco e c’è da attendersi risposte sullo stesso tono.

TECNOLOGIA, NON CARNE DA CANNONE

La deterrenza è necessaria, sia chiaro. Ma nel 2025 la si ottiene con la supremazia tecnologica, con l’intelligence satellitare, con la cyber-security, non reintroducendo la naja o mandando riservisti allo sbaraglio.

Siamo di fronte a un bivio. Da una parte c’è la propaganda della paura, utile a giustificare spese folli e a coprire l’irrilevanza diplomatica dell’Europa; dall’altra c’è il realismo politico: la guerra finirà con un negoziato tra Washington e Mosca, sopra le nostre teste.

Sarebbe saggio, per la classe dirigente italiana ed europea, abbassare i toni, smetterla di evocare fantasmi e concentrarsi su come ricostruire un ruolo credibile, invece di prepararsi a guerre che non possiamo permetterci né finanziariamente né militarmente, guerre che non dobbiamo combattere e – fortunatamente – non siamo chiamati a combattere, se non nelle sciocchezze partorite da chi ci ha raccontato di pale, muli e microchip e continua a prenderci tutti per i fondelli.

Il resto è solo rumore di fondo.

E gli italiani, statene certi, iniziano a essere stanchi di tutto questo teatrino di scemenze. Perché quando le scemenze mettono a rischio le case e le vite di noi tutti, diventano qualcosa di più serio. Qualcosa contro cui vale la pena svegliarsi.

Prima che sia troppo tardi.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA BCE BOCCIA L’EUROPA SUI FONDI RUSSI

C’è un momento preciso in cui la politica, con le sue narrazioni epiche e le sue promesse di vittoria eterna, si schianta contro il muro di cemento armato della realtà. E, oltre a ciò che accade al fronte, l’Europa si è schiantata anche contro la BCE.

Mentre Ursula von der Leyen e la Commissione Europea cercavano disperatamente di tenere in piedi la macchina bellica e statale ucraina con un gioco di prestigio finanziario da 140 miliardi di euro, la Banca Centrale Europea ha detto che era un azzardo privo di logica giuridica.

Non si tratta di un intoppo tecnico, ma del crollo di un’impalcatura ideologica.

L’ALCHIMIA FINANZIARIA E IL “NO” DI FRANCOFORTE

Il piano era temerario, da chi è con l’acqua alla gola ed è disposto anche a vendere qualche figlio pur di salvarsi.

L’idea di Bruxelles era semplice: prendere gli asset russi congelati presso Euroclear, il gigante dei servizi finanziari con sede in Belgio, e usarli come collaterale, come garanzia per indebitarsi e girare 140 miliardi a Kiev.

Ma chi copre il rischio? Chi paga se domani la Russia vince una causa internazionale e pretende indietro i suoi soldi con gli interessi?

È la domanda che noi di Tamago ci siamo posti in più articolo fin dall’annuncio di quella che sarebbe stata la fine economica dell’Europa unita e un disastro finanziario per gli europei.

La Commissione voleva che fosse la BCE a fare da “prestatore di ultima istanza”. In pratica, chiedevano alla Banca Centrale di stampare moneta per coprire i rischi geopolitici dei governi.

La risposta della BCE data dal Financial Times, che cita fonti interne alla BCE, è lapidaria: viola il mandato.

È illegale. Proprio come sostenevamo noi di Tamago, mentre qualche giornalista italiano ci dava dei putiniani.

I trattati europei vietano il finanziamento monetario diretto agli Stati, perciò la BCE non può essere il bancomat delle follie militari della Commissione; è il garante della stabilità dei prezzi, non il paracadute di politici irresponsabili.

Accettare una simile proposta avrebbe minato la credibilità dell’Euro e della stessa Unione, esponendo l’istituto a rischi sistemici e reputazionali devastanti. Chi avrebbe più investito un euro in Europa, sapendo che, in caso di scontro, i suoi soldi venivano scippati?

Francoforte ha capito che diventare la “bad bank” della guerra in Ucraina avrebbe significato il suicidio istituzionale.

IL TERRORE DEL BELGIO E LO TSUNAMI LEGALE

Dietro il tecnicismo si nasconde il terrore puro del governo belga.

Euroclear detiene la maggior parte di questi asset russi. Se l’Europa li usa e un tribunale decreta che l’esproprio è illegittimo – uno scenario altamente probabile nel diritto internazionale -, il Belgio si troverebbe a dover restituire miliardi che non ha.

Sarebbe la bancarotta. Uno tsunami finanziario. Oppure gli europei dovrebbero tirar fuori i 140 miliardi, più gli interessi e le spese legali. Oltre a vedere gli investimenti in Europa azzerati per la paura di cui accennavamo poc’anzi.

Bruxelles sperava che la BCE si accollasse questo rischio, fungendo da rete di sicurezza. Il rifiuto di Lagarde e dei suoi tecnici lascia i folli leader bellicisti armati solo delle loro idee da fuori di testa e senza soldi.

Perché, senza una copertura legale e finanziaria solida, toccare quei fondi è come maneggiare uranio arricchito a mani nude e condannare gli europei a morte certa.

DISSONANZA COGNITIVA: DALL’ATTACCO IBRIDO A QUELLO PREVENTIVO

Mentre la finanza chiude i rubinetti, la retorica militare entra in una spirale di surrealismo.

Le recenti dichiarazioni dell’ammiraglio Dragone su un possibile “attacco preventivo” della NATO svelano una confusione strategica allarmante perché le parole sono le pietre angolari della realtà sociale.

Da mesi ci bombardano con l’idea che siamo già sotto attacco ibrido russo. Ma se siamo già sotto attacco, come può la nostra risposta essere “preventiva”?

La prevenzione, per definizione, anticipa l’evento. Ma l’evento, come lo stesso Dragone ammette nella sua uscita inopportuna, non c’è. È una finzione della propaganda.

Inoltre, sarebbe opportuno che la Magistratura italiana si attivasse, in virtù dell’Art 244 del Codice Penale, che recita “Chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene è punito con l’ergastolo.”

Ammesso che il governo Meloni non abbia dato il benestare a questo signore di esporre a gravi ritorsioni l’Italia con le sue parole irresponsabili. E visto che Tajani crede che la Russia confini con l’Afghanistan, qualche dubbio sovviene.

Siamo di fronte a un paradosso logico che tradisce debolezza. O gli attacchi ibridi denunciati finora erano propaganda per spaventarci, o l’idea dell’attacco preventivo è un disperato tentativo di escalation verbale per nascondere l’impotenza sul campo.

In entrambi i casi, stiamo giocando alla guerra con una leggerezza che fa tremare i polsi, mentre l’economia di guerra che dovrebbe sostenerci viene bocciata dai nostri stessi banchieri centrali.

L’UCRAINA: UN PAZIENTE IN COMA TENUTO IN VITA DAI BONIFICI

La verità che nessuno a Bruxelles vuole dire ad alta voce è che l’Ucraina è tecnicamente fallita.

I 140 miliardi non servono per la “ricostruzione” o per vincere. Servono per pagare gli stipendi dei soldati, dei medici, dei funzionari pubblici. Servono a tenere accese le luci a Kiev per altri dodici mesi.

È un pozzo senza fondo.

E qui entra in gioco l’ipocrisia morale dell’Europa. Leader come Kaja Kallas o Emmanuel Macron continuano a parlare di progressi nella lotta alla corruzione ucraina, mentre chiedono ai cittadini europei di versare miliardi in un sistema che, storicamente e strutturalmente, fa sparire i fondi e le armi come un buco nero.

Stiamo finanziando la sopravvivenza artificiale di un apparato statale al collasso, rifiutando di ammettere che la strategia è fallita. L’Europa ha svuotato i suoi arsenali, ha compromesso la sua competitività economica con le sanzioni e ora cerca di violare le sue stesse regole bancarie per non ammettere l’errore.

LA NECESSITÀ DEL REALISMO

La BCE ha fatto un favore all’Europa e agli europei. Dicendo “no”, ha costretto la politica a guardarsi allo specchio.

Non si può fare la guerra con i soldi del Monopoli o con garanzie illegali per non ammettere di aver perso e di non avere i soldi per imporre i propri dettami.

Se il piano A era sconfiggere la Russia sul campo e il piano B era strangolarla economicamente, entrambi sono falliti miseramente.

Il piano C, finanziarsi con i soldi russi violando le regole della BCE, è appena stato cestinato perché era una follia da chi è disperato. È come il tizio indebitato fino al collo che chieda disperatamente di stampare denaro alla stamperia sotto casa, sperando che nessuno si accorga della truffa.

Cosa resta allora? Resta la realtà!

Una guerra di logoramento che l’Ucraina sta perdendo, un’Europa che non può più permettersi di pagare e una classe dirigente che, pur di non sedersi al tavolo dei negoziati da sconfitti, è disposta a rischiare la stabilità della moneta unica e il futuro dei cittadini che sono chiamati a governare.

Questo tentativo disperato è stato definito “grande bluff”. Ora bisogna vedere chi avrà il coraggio di posare le carte per primo e dire ai cittadini come stanno realmente le cose.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL MERCATO DELLA PAURA E IL SILENZIO DEI CANNONI CHE FA TREMARE I BILANCI

Bruxelles e Parigi non tremano per l’inverno alle porte, né per l’avanzata russa a Pokrovsk.

C’è un fantasma ben più spaventoso che si aggira per le cancellerie dei “volenterosi”, da Macron alla Kallas, fino ai corridoi presidiati da Zelensky, ed è lo spettro del negoziato.

La pace, teoricamente l’obiettivo ultimo di ogni democrazia e di ogni politico sano di mente, è diventata, invece, la minaccia esistenziale per una classe politica che ha scommesso il proprio capitale, e il nostro denaro, sulla vittoria dell’Ucraina o, in alternativa, sulla perpetuazione del conflitto.

L’ACCANIMENTO TERAPEUTICO DI UNA GUERRA LUNGA

C’è un’accelerazione frenetica, quasi isterica, in queste ore.

Zelensky vola da Macron, Umerov incontra le delegazioni americane, i ministri europei si riuniscono d’urgenza. Perché questa fretta dopo quattro anni di quasi totale immobilismo?

Perché sanno che il tempo sta scadendo. L’Amministrazione Trump non perde tempo e non ha voglia di perdere altri soldi in Ucraina, perché deve concentrarsi altrove.

E qui casca l’asino, o meglio, crolla il castello di carte.

La leadership ucraina, rappresentata da figure interscambiabili come Umerov – che nella sua essenza funzionale non è altro che uno Yermak con un taglio di capelli diverso, un altro ingranaggio in un sistema dove la corruzione è endemica e strutturale – sa che la fine delle ostilità significa la fine dell’immunità.

Significa dover rendere conto alla gente del proprio operato. Significa che l’attenzione si sposterà dalle trincee ai conti bancari offshore.

E quando gli ucraini scopriranno che mezzo milione di loro giovani sono morti perché qualcuno potesse comprarsi i sanitari d’oro, il pericolo numero uno per Zelensky & friends non sarà Putin, ma qualsiasi ucraino per strada.

Ecco perché parlano di “progressi sostanziali” dopo gli incontri con gli americani: è il linguaggio in codice di chi ha ricevuto un ultimatum. O la borsa o la vita. O il piano di pace, o il baratro.

I DIVIDENDI DEL SANGUE: UN 2024 DA RECORD

Ma non è solo politica. È, come sempre, economia.

Mentre ci raccontano che la Russia è una minaccia esistenziale che richiede sacrifici immani ai cittadini europei, i bilanci delle aziende della difesa brindano a champagne.

Il 2024 non è stato un anno di guerra per loro. È stato un anno di raccolta. Probabilmente, il 2025 sarà ancora meglio.

Le vendite dei cento maggiori produttori di armi hanno sfiorato i 680 miliardi di dollari. Un aumento del 5,9%. (Rapporto Sipri, Stockholm International Peace Research Institute)

Rifletteteci.

Questi non sono numeri astratti. È un trasferimento di ricchezza colossale dalle tasche del contribuente medio, che vede erodersi il proprio potere d’acquisto e i servizi pubblici, ai portafogli degli azionisti di Rheinmetall, Thales e Leonardo e di tutte le industrie belliche.

Qualcuno non vuole uccidere la gallina dalle uova d’oro e se ciò significa sacrificare altre migliaia di ucraini, a loro non importa.

La guerra è diventata un modello di business.

Fermare tutto adesso?!

Per l’industria bellica sarebbe una catastrofe finanziaria. Hanno bisogno di svuotare i magazzini per riempirli di nuovo, hanno bisogno che la Lituania chiuda l’aeroporto per dei palloni meteorologici bielorussi trasformati, dalla propaganda, in “minacce ibride”.

Hanno bisogno di mantenere alta la tensione perché la tensione fattura, gonfia i conti correnti.

La pace, purtroppo, non paga dividendi trimestrali.

L’IRRILEVANZA STRUTTURALE DELL’EUROPA

In questo scacchiere, l’Europa gioca il ruolo del bambino che urla per attirare l’attenzione mentre gli adulti parlano nella stanza accanto e non si curano di loro.

Il ministro degli esteri francese tuona che non ci può essere pace senza gli europei, ma sono parole al vento.

La verità, cruda e sociologicamente innegabile, è che a nessuno importa cosa pensi l’Europa se non a von der Leyen, a Macron, a Merz e qualche altro colpevole dell’Europa di oggi. Non importa ai russi. Non agli americani. E, ironicamente, nemmeno al Sud del mondo, che ci deride.

L’Europa dei “volenterosi” si è auto-condannata all’irrilevanza nel momento in cui ha abdicato alla sua funzione diplomatica per diventare un mero subappaltatore logistico degli Stati Uniti. Compriamo gas, petrolio e armi dagli USA a prezzi folli e abbiamo chiuso ogni relazione a Est.

Abbiamo sabotato ogni tentativo di mediazione passato, non abbiamo offerto nulla se non escalation retorica e propagandistica, e sanzioni che, dati alla mano, hanno fortificato l’economia di guerra russa e devastato la nostra competitività industriale.

E chi fa la spesa e paga le bollette sa bene a cosa mi riferisca.

Oggi, pretendere di sedersi al tavolo della pace è un esercizio di vanità patetica, è come il magazziniere che pretenda di sedere nel consiglio direttivo dell’azienda per cui lavora.

Come possiamo essere mediatori se siamo, di fatto, co-belligeranti finanziari e politici e dimostriamo ignoranza storica parlando di pace giusta che non è mai esistita?

IL RE È NUDO, MA ARMATO FINO AI DENTI

La situazione sul campo è lo specchio di questa schizofrenia.

I russi avanzano, lentamente, inesorabilmente, ottimizzati per una guerra di logoramento che l’Ucraina non può sostenere demograficamente. Pokrovsk resiste, ma è una resistenza pagata a un prezzo umano esorbitante.

E mentre a Mosca si segnalano ritardi nei pagamenti ai soldati – segno che anche l’orso ha le sue zecche – la macchina non si ferma. Perché la Russia ha il coltello dalla parte del manico. Se non ottiene ciò che vuole con la diplomazia (neutralità ucraina, riconoscimento territoriale), lo prenderà con la forza.

E se la guerra di logoramento non basterà o non fosse più sostenibile, il passo successivo sarebbe l’utilizzo di armi ben più devastanti, senza che l’Occidente possa farci nulla, perché vorrebbe dire spingere la specie umana all’estinzione.

I nostri leader lo sanno.

Macron lo sa. La Kallas lo sa.

Perciò sono terrorizzati. Non dalla sconfitta dell’Ucraina in sé, della quale non importa niente a nessuno, altrimenti si sarebbe firmato un accordo nel 2022 e migliaia di ucraini sarebbero ancora vivi, ma sono terrorizzati dal crollo del paradigma che ha tenuto in piedi le loro carriere negli ultimi tre anni.

Se la guerra finisce, dovranno spiegare ai loro elettori perché hanno speso miliardi per “cessi d’oro” e armamenti mentre gli ospedali chiudevano e si diceva che non c’erano soldi.

Dovranno spiegare perché hanno sacrificato l’economia europea sull’altare di interessi geopolitici altrui.

La realtà è che stiamo assistendo al tentativo disperato di sabotare la pace per prolungare l’illusione e le loro carriere.

Ma la matematica non mente, e la sociologia nemmeno: quando il costo del mantenimento della menzogna supera i benefici del potere, il sistema crolla.

E forse, tra le righe di quei “colloqui difficili, ma produttivi”, quel crollo è già iniziato.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’EUROPA DORME E CI SPINGE ALL’APOCALISSE “PREVENTIVA”. IL DELIRIO STRATEGICO DI UN OCCIDENTE CHE HA SCELTO IL SUICIDIO

Siamo seduti sulla banchina della storia, a osservare un treno merci carico di esplosivo che corre verso un muro di cemento, con i macchinisti che, anziché tirare il freno, stanno discutendo animatamente su come aumentare la velocità perché sono convinti di poterlo sfondare.

Non c’è altra metafora possibile per descrivere il momento di assoluta follia geopolitica che stiamo attraversando.

La rana non è più semplicemente nell’acqua che si riscalda, ma è più che bollita, la pelle si stacca, eppure continua a gracidare convinta di essere in una spa di lusso.

Le parole dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone al Financial Times non sono un semplice aggiornamento tattico e non sono nemmeno un’uscita infelice, ma sono la pietra tombale sulla dottrina difensiva che ha retto l’Occidente per settant’anni.

Quando il capo del Comitato Militare della NATO afferma che l’Alleanza sta valutando “attacchi preventivi” contro la Russia come forma di “azione difensiva”, siamo di fronte a una mutazione genetica delle basi del Diritto internazionale e siamo entrati nella follia pura.

È un artificio retorico degno di Orwell: l’aggressione diventa difesa, la speculazione diventa certezza, la guerra diventa l’unico strumento di pace. La follia diventa la nuova normalità.

LA TRAPPOLA SEMANTICA E L’ADDESTRAMENTO DELLE MASSE

È la tecnica della “finestra di Overton” applicata alla sopravvivenza della specie.

Ricordate il 2022? Ci avevano giurato che avremmo inviato solo elmetti e aiuti umanitari, tanto la Russia era al tappeto per le nostre sanzioni dirompenti e i suoi soldati combattevano solo armati di pale ottocentesche.

Poi sono arrivati i fucili. Poi i carri armati, ma “mai i caccia” dicevano.

Poi sono arrivati gli F16a, ma “mai missili a lungo raggio”.

Poi sono arrivati i missili, ma “solo sul territorio occupato”.

Oggi, con una naturalezza che gela il sangue, discutiamo di colpire Mosca preventivamente perché forse potrebbero attaccarci. La stessa nazione che combatte solo armata di pale e al tappeto per le nostre sanzioni dirompenti.

È un’escalation costruita sulla menzogna.

Ci dicono che dobbiamo essere “più aggressivi del nostro avversario” per rispondere a minacce ibride. Ma di cosa stiamo parlando?

Di due attacchi hacker e quattro droni assemblati con lo scotch?

Davvero siamo disposti a scatenare l’inferno termonucleare per questo?

La sproporzione tra la causa, – peraltro presunta e ingigantita, senza uno straccio di prova, – e la reazione proposta – la guerra nucleare totale – è il sintomo di una patologia decisionale che ha infettato i vertici di Bruxelles e dei comandi NATO.

Siamo in mano a persone da TSO.

IL FALLIMENTO LOGICO DELLA “SENTINELLA BALTICA”

L’ammiraglio cita l’operazione Baltic Sentry come un trionfo della deterrenza: “Abbiamo pattugliato, non è successo nulla, quindi funziona”. Ma è un insulto all’intelligenza, una fallacia di logica.

È come se io vendessi un sasso “anti-tigre” a un cittadino di Milano: “Vedi? Hai il sasso in tasca e non ci sono tigri in Duomo, quindi il sasso funziona”.

Ma ci sarà ancora qualcuno ai vertici occidentali con un briciolo – almeno solo un briciolo – di intelligenza?!

La realtà, molto più banale e meno utile alla propaganda militare, è che forse la Russia non aveva alcuna intenzione di attaccare in quel frangente. Ma ai militari, se dai in mano solo un martello, tutto il mondo sembrerà un chiodo.

Non stiamo parlando di filosofi, ma, con tutto il rispetto, di gente addestrata a uccidere. Non dimentichiamolo.

Il problema è che qui il “chiodo” è una potenza nucleare, e batterci sopra potrebbe far crollare l’intero edificio della civiltà occidentale. Motivo per cui urge l’arrivo di qualche filosofo che ci salvi dalla follia di chi,c come si evince, con la Geopolitica c’entra come i cavoli a merenda.

L’EUROPA: L’ULTIMO GIAPPONESE NELLA GIUNGLA

Ma l’aspetto più grottesco, quello che manifesta più di altro l’abisso intellettuale della nostra classe dirigente, è la posizione dell’Unione Europea.

Mentre a Washington, nel circuito del realismo trumpiano, si inizia a parlare di negoziati veri – che implicano inevitabilmente concessioni territoriali e lo stop all’allargamento della NATO – l’Europa si comporta come l’ultimo soldato giapponese nella giungla, combattendo una guerra che è già finita nei fatti.

Il Parlamento Europeo approva risoluzioni surreali che chiedono la vittoria totale e la confisca di 140 miliardi di asset russi.

È nichilismo puro. È ostruzionismo alla pace. Ed è la fine del futuro dei nostri figli, che saranno costretti a ripagare la Russia per decenni per gli illeciti dei nostri leader.

Ma al di là della violazione delle norme di Diritto internazionale, come ha lucidamente notato il premier belga De Wever, confiscare quegli asset allontanerà ogni accordo diplomatico ed è un suicidio finanziario, perché destabilizzerà l’euro e farà schizzare i rendimenti dei nostri titoli di stato.

Stiamo letteralmente pagando per scavare la nostra fossa, mentre gli Stati Uniti, con cinico pragmatismo, preparano la via d’uscita.

L’IPOCRISIA DEI “VALORI” E IL DOPPIO STANDARD

E dove sono questi sacri “valori occidentali” quando attivisti italiani vengono aggrediti brutalmente dai coloni in Cisgiordania?

Israele non ha infranto il Diritto internazionale? Non ha aggredito paesi sovrani? Netanyahu non è un criminale di guerra per la più alta corte internazionale, nonché ricercato in mezzo mondo?

Lì, il nostro governo e l’UE balbettano di sanzioni inefficaci, si limitano a “condannare” con voce flebile e complice.

Non si parla di attacchi preventivi contro chi viola il diritto internazionale in Medio Oriente, perché, come si evince, la violenza è tollerata. Contro la Russia, invece, la violenza è desiderata preventivamente.

Questa schizofrenia morale non sfugge al resto del mondo e sta distruggendo quel poco di credibilità residua che l’Occidente possedeva.

IL PREZZO DELLA PELLE ALTRUI

Siamo di fronte a una classe dirigente che gioca a Risiko con la pelle degli altri.

Parlano di “leva obbligatoria”, di “riarmo”, di “offensiva”, ma lo fanno dal sicuro dei loro uffici climatizzati a Strasburgo o Bruxelles e state pur certi che i loro figli e nipoti non vedranno mai né la leva né un teatro di guerra.

La verità è che l’Europa ha abdicato al suo ruolo storico di potenza diplomatica per diventare un vassallo “più realista del re”, spingendo per una guerra che nemmeno il Pentagono vuole più combattere in questi termini.

Disinnescare questa bomba richiede un atto di coraggio intellettuale che al momento non vedo perché non vedo politici con un minimo di spessore culturale per ammettere che la strategia è fallita.

Ammettere che la sicurezza non si costruisce minacciando l’apocalisse, ma riconoscendo gli interessi di sicurezza altrui e tornando al tavolo della diplomazia.

Se non fermiamo questo treno ora, l’attacco preventivo di cui parlano sarà ricordato dagli storici futuri (se ce ne saranno) come l’ultimo, tragico errore di una civiltà che ha scelto di morire per non ammettere di aver sbagliato.

Perché, un attimo dopo quell’attacco preventivo, il mondo occidentale verrebbe spazzato via dal più devastante degli attacchi nucleari e miliardi di persone sarebbero carbonizzate nel giro di pochi minuti.

Ma questo, evidentemente, è troppo difficile da capire per chi riesce a partorire sciocchezze illogiche di pale, microchip, attacchi preventivi, beatamente ancorato in una dimensione parallela.

Biden salutava amici immaginari ed evidenziava problemi mentali, ma, a giudicare certe prese di posizione, sembra non fosse quello messo peggio.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

ERAVAMO 40 CONTRO 1 MA ABBIAMO PERSO LO STESSO

IL TRIONFO DELLA REALTÀ SUL METAVERSO BELLICISTA DI UN OCCIDENTE CHE VINCEVA SU TWITTER MENTRE CROLLAVA AL FRONTE

La nebbia, dicono a Kiev, moltiplica i russi.

È un’immagine potente, quasi letteraria, se non fosse tragicomica.

Le fonti ucraine attribuiscono alla foschia meteorologica la capacità magica di far proliferare le truppe di Mosca alle porte di Pokrovsk, come se fossimo in un romanzo gotico e non nel tritacarne del Donbass.

Ma la vera nebbia non è quella che avvolge le trincee. No. La nebbia più fitta, quella impenetrabile e tossica, è quella che avvolge le cancellerie europee e gli studi televisivi occidentali, zeppi di “giornalisti” che raccontano panzane da quattro anni.

Stiamo assistendo a uno dei più grandi esperimenti di dissonanza cognitiva di massa del XXI secolo.

Mentre il fronte ucraino si sgretola con il rumore sordo di un edificio le cui fondamenta sono state erose dall’acqua, la narrazione mainstream costruisce un universo parallelo, un metaverso geopolitico dove la sconfitta viene venduta come stallo e il collasso come “resistenza strategica”.

IL PARADOSSO DI SCHRÖDINGER: LA RUSSIA IMPOTENTE E ONNIPOTENTE

Analizzando il dibattito pubblico, e nello specifico lo scontro dialettico tra Marco Travaglio e Beppe Severgnini di qualche sera fa a Otto e Mezzo, trasmissione condotta da Lilli Gruber, emerge con cristallina evidenza la schizofrenia dell’Occidente.

Severgnini, incarnazione dell’establishment euro-atlantico, si aggrappa a un sillogismo privo di fondamenta: la Russia ha fallito perché non è a Lisbona. È la stessa retorica del “40 democrazie contro 1, non c’è storia, vinciamo noi”.

Beh, son passati tre anni da quell’affermazione e i fatti l’hanno polverizzata.

Qui sta il “Paradosso di Schrödinger”, in cui a fare la parte del gatto ci sono tanti giornalisti: Mosca viene dipinta contemporaneamente come un Paese al collasso finanziario, impantanato nel fango ucraino, incapace di prendere di avanzare, ma, allo stesso tempo, è una minaccia esistenziale, una bestia inarrestabile pronta a divorare la Polonia, i Baltici per poi correre fino all’Atlantico.

Delle due una. E proprio qui crolla il castello di sabbia della propaganda occidentale.

Non si può chiedere ai cittadini europei di svenarsi per un riarmo epocale contro un nemico che, secondo la stessa narrazione, è al collasso. È un insulto all’intelligenza collettiva.

Se la Russia è debole, perché l’Occidente ha questa fretta isterica di congelare il conflitto e perché l’Ucraina implora il cessate il fuoco?

Se è forte, perché abbiamo sabotato i negoziati di Istanbul nel 2022, quando l’Ucraina era ancora intera e centinaia di migliaia di giovani ucraini erano ancora vivi e/o non invalidi?

LA GEOGRAFIA OLTRE LA PROPAGANDA

Scendiamo dal piedistallo della retorica di Beppe Severgnini & friends e guardiamo le mappe.

Pokrovsk sta cadendo. Non è un villaggio da poco, ma lo snodo logistico vitale per l’intero fronte orientale.

Persa quella, si apre l’autostrada verso il Dnepr. E mentre l’esercito di Kiev arretra, abbandonato spesso senza ordini di ritirata, la risposta asimmetrica diventa disperata.

Gli attacchi ai gasdotti, non più solo russi ma ora anche kazaki (il consorzio CPC), o i droni contro le petroliere nel Mar Nero, non sono segni di forza, ma, al contrario, gli spasmi disperati di chi, non potendo vincere sul campo, cerca di internazionalizzare il caos, colpendo infrastrutture civili protette dal Diritto internazionale e irritando persino i partner neutrali.

Un po’ come l’attentato al NordStream, per cui la Magistratura tedesca ha spiccato mandati d’arresto per un commando di ucraini.

E cosa fa l’Europa mentre la diga crolla? Continua a inventare fantasmi e a raccontare balle.

I MiG-31 russi che attivano la contraerea polacca per poi “tornare indietro”, o i droni che violano lo spazio aereo moldavo senza che la Moldavia se ne accorga finché Kiev non glielo dice, sono armi di distrazione di massa.

Invenzioni che servono a tenere alta la tensione emotiva dell’opinione pubblica, a giustificare l’invio di armi che non cambieranno l’esito della guerra, ma ne prolungheranno solo l’agonia.

È la politica del simulacro: fingere un’azione per nascondere l’impotenza.

La dimostrazione palese del fatto che il vero nemico degli ucraini è l’Europa che li costringe a morire in guerra per salvare la faccia di leader incompetenti che non ne hanno azzeccata mezza in quasi quattro anni.

IL PIANO DI PACE COME ATTO DI GUERRA SURREALE

L’apice di questo teatro dell’assurdo è la bozza del “piano di pace” europeo.

Un documento che sembra scritto su Marte.

Chiedere un cessate il fuoco immediato sulle linee attuali (per permettere a Kiev di riarmarsi), mantenere le porte della NATO aperte, non riconoscere i territori persi e pretendere che la Russia paghi i danni, significa non aver mai aperto un libro di storia.

Significa certificare un’incompetenza e un’ignoranza da TSO.

Il “Principio di Realtà”, evocato brutalmente, ma correttamente da Travaglio, è spietato, ma è incontrovertibile perché certificato dalla Storia. Almeno per chi l’ha studiata e compresa.

Chi vince detta le condizioni. Chi perde subisce. Pensare che lo sconfitto (Zelensky) possa presentarsi al tavolo con degli ultimatum per il vincitore (Putin) è un’allucinazione diplomatica di chi è insano di mente.

La Russia ha il coltello dalla parte del manico, perciò non ha alcun interesse a fermarsi ora, non quando il frutto sta cadendo dall’albero per pura gravità.

L’idea che Mosca accetti un congelamento che serve solo all’Occidente per riorganizzarsi è ridicola, è un pensiero che nemmeno un bambino delle elementari riuscirebbe a partorire.

Putin negozierà, sì, ma alle sue condizioni perché la guerra l’ha vinta. Punto.

E le sue condizioni sono: neutralità dell’Ucraina, smilitarizzazione e riconoscimento dello status quo territoriale. Certamente, si tratta di condizioni meno vantaggiose per l’Ucraina, rispetto a quelle del 2022. E nel 2026 saranno ancora più stringenti, perché, ogni giorno che passa, la Russia avanza e il prezzo sale.

Nel 2022 il prezzo era la neutralità. Oggi sono quattro regioni. Domani, sarebbe l’intera Ucraina.

E no, pensare di bombardare il territorio russo non è una genialata, ma sarebbe la mossa di un cretino, per giunta criminale. Perché un attimo dopo, decine di basi militari NATO e di capitali europee verrebbero spazzate vie da missili ipersonici con testate atomiche, insieme a centinaia di milioni di cittadini vittime della stupidità dei loro stessi leader.

Lo so, è una situazione brutta, sporca e crudele, ma è la stessa che ha reso grandi gli imperi dell’era mercantilista e gli stessi Stati Uniti d’America. Vi ricorda qualcosa l’Iraq di Saddam? Il Giappone nel 1945? La Germania nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale? Cuba nel 1962?

La Storia insegna che a decidere è sempre e solo la legge del più forte. E questa è Storia, non opinione.

L’ECONOMIA DEL SANGUE E IL FALLIMENTO DELLE ÉLITE

C’è un dato, citato da fonti interne ucraine e non da russi, riportato con orrore da voci indipendenti, che dovrebbe togliere il sonno: 500.000 ucraini morti. Mezzo milione. A cui vanno aggiunti i feriti. Parliamo di una generazione cancellata.

La responsabilità morale di questa ecatombe ricade interamente su una classe dirigente occidentale – da von der Leyen ai vertici NATO, passando per le cancellerie nazionali – che ha venduto a Kiev un sogno impossibile.

Hanno trattato l’Ucraina non come un alleato da salvare, ma come un asset sacrificabile per logorare la Russia, con il risultato che oggi la Russia è militarmente più avanzata di quattro anni fa, economicamente riorientata verso la Cina e geopoliticamente compatta e più forte nei BRICS.

L’Europa, invece, è deindustrializzata, impoverita, divisa e strategicamente irrilevante.

Siamo di fronte a un fallimento sistemico delle élite liberali, incapaci di leggere il mondo fuori dalla lente deformata della propria ideologia.

Severgnini che si stupisce del “cinismo” della realtà è l’emblema di un mondo che muore per la sua incapacità di vivere e di leggere le situazioni reali della vita.

Travaglio, pur con i suoi toni caustici, si limita a fare ciò che il giornalismo dovrebbe fare: guardare i fatti, non i desideri. Raccontare ciò che accade, non inventare panzane di pale, microchip, muli, Putin in fin di vita o altre sciocchezze.

La guerra è finita e l’Occidente è stato sconfitto.

Lo sanno a Washington, lo sanno a Mosca, lo sanno a Kiev.

Gli unici che fingono di non saperlo sono quelli che hanno costruito le loro carriere sulla menzogna della “vittoria totale, fino all’ultimo ucraino.”

Ma la nebbia, quella vera, si è diradata e ci ha mostrato che di ucraini non ne restano più tanti.

E ci rende visibile anche le macerie di un Paese sconfitto e soffocato dalla corruzione interna e dalla bancarotta. E ci rende visibile anche un’altra bancarotta: quella morale dell’Occidente.

IL GRANDE INGANNO, DALLA CORRUZIONE DI KIEV ALLA TRAPPOLA DEI TRE REGNI

Il fronte si sgretola, giorno dopo giorno.

Mentre le attenzioni del mondo sono calamitate dai flash delle conferenze stampa e dalle strette di mano nei palazzi del potere, la realtà a Pokrovsk è fatta di fango, sangue e ritirate che sanno di disfatta.

Ma c’è un’altra linea del fronte che sta cedendo, quella morale e politica a Kiev. Volodymyr Zelensky è un uomo solo. Sempre più solo.

E la sua non è la solitudine dell’eroe romantico, ma quella del manager fallimentare abbandonato dai soci di maggioranza, dopo che lo scandalo della corruzione ha decapitato i vertici della difesa e dell’energia, toccando figure intoccabili come Yermak.

Perché, quando il mito della vittoria si infrange contro la realtà della guerra di logoramento, inizia la caccia alle streghe interna.

Perciò i fedelissimi cadono e il Re è nudo, ma l’Europa continua a cucirgli addosso vestiti invisibili, fingendo che le tangenti sui generatori e sulle munizioni siano solo un “danno collaterale” della democrazia nascente.

Non lo sono, anche se tanti si arrampicano sugli specchi dicendo “saltano fuori queste cose perché l’Ucraina è una democrazia”.

Sono il cancro che divora la resistenza mentre i nostri soldi, i soldi dei contribuenti europei, finiscono in un buco nero di inefficienza e avidità. Così come le nostre armi finiscono nelle mani di organizzazioni non meglio definite per scopi ancora più bui e misteriosi.

L’ELEFANTE NELLA STANZA HA GLI OCCHI A MANDORLA

Eppure, sarebbe miope, quasi infantile, limitare l’analisi al teatro ucraino. La vera partita si gioca a migliaia di chilometri di distanza. La Cina non è solo uno spettatore silente, ma il banco che tiene in piedi il casinò.

Senza l’ossigeno economico di Pechino, la macchina bellica russa si sarebbe inceppata da tempo.

E anche non aver calcolato la presenza della Cina è un enorme errore di valutazione dei leader europei.

Tuttavia, Xi Jinping non fa beneficenza. Il suo è un calcolo economico e geopolitico, infatti recita la parte di Liu Bei, lasciando che i due giganti, Washington e Mosca, si logorino a vicenda nella guerra combattuta per procura in Ucraina, per emergere poi come il vero vincitore, o quantomeno come l’ago della bilancia indispensabile.

Gli Stati Uniti sono paralizzati da un dilemma shakespeariano: affrontare l’asse sino-russo come un monolite o tentare di sedurre Mosca per isolare Pechino?

È il dibattito che sta dilaniando il Dipartimento di Stato, diviso tra i “vecchi” esperti di Russia, ancorati alla Guerra Fredda, e i nuovi strateghi dell’Indo-Pacifico. E mentre Washington esita, Mosca incassa.

LA PSICOSI EUROPEA E IL MERCATO DELLA PAURA

In questo vuoto strategico, l’Europa è scivolata nel panico. O meglio, nel “marketing del panico”.

Polonia, Germania e Paesi baltici stanno costruendo una narrazione di assedio per giustificare l’ingiustificabile: il ritorno all’economia di guerra e alla leva obbligatoria che, senza paura e senza un nemico alle porte, gli europei non accetterebbero.

I droni di polistirolo rattoppati con lo scotch che “minacciano” i confini polacchi, le misteriose petroliere in fiamme, i sabotaggi maldestri attribuiti a spie da film di Alberto Sordi, pagate in cripto-valute: siamo di fronte a una costruzione sociale della minaccia che fa sorridere chi non ha soltanto spazio tra le orecchie, ma che funziona con tanti, evidentemente.

Varsavia incassa 44 miliardi di euro dall’UE per fortificare i confini, Berlino sogna di ricreare la Wehrmacht in chiave moderna.

Ma per farlo, devono terrorizzare una popolazione pacificata da ottant’anni di benessere. Devono convincere il giovane di Berlino o di Milano che imbracciare un fucile è necessario, è da cittadino modello. Come lo era iniettarsi un vaccino.

Solo che, quando Camilla Canepa è morta, i grandi guru di virologia sono spariti tutti. E quando sono arrivati gli invalidi, il potere non ha trattato quelle persone da eroi, da cittadini modello, ma ha impugnato le sentenze di risarcimento, trincerandosi dietro scuse che la Commissione Covid sta smontando, nel silenzio generale dei media che hanno scelto di fare propaganda anziché informazione.

Perciò, meglio pensarci tre volte, prima di credere alle chimere di eserciti, armi e minacce.

Infatti, tanti non credono più ai politici e alle loro promesse da truffatori in metropolitana.

Allora, che fanno i potenti?

Gridano al lupo ogni giorno. Trasformano ogni incidente in un atto di guerra ibrida, in una evidente manipolazione di massa che serve a coprire il fallimento diplomatico figlio della loro incompetenza.

IL PIANO WITKOFF E IL TRAMONTO DELLA DIPLOMAZIA VALORIALE

In questo scenario apocalittico è esplosa la figura di Steve Witkoff ai colloqui in Florida, per cui è caduta l’ultima maschera. Non si parla di valori, di democrazia o di integrità territoriale. Si parla di affari.

Il piano che si sta delineando è brutale, è fatto di risorse in cambio di tregua. Scambi commerciali come trattati di pace.

Ma c’è un problema di fondo, un problema di fiducia. Mosca non si fida di Washington. Pechino guarda con sospetto a qualsiasi accordo commerciale USA-Russia che possa escluderla.

E Kiev continua a chiedere l’impossibile, cioè la NATO e i confini del 1991, mentre l’Europa la incoraggia ciecamente, come un allenatore che spinge sul ring un pugile ormai suonato, tra il padre cinico che manda al patibolo il figlio al suo posto.

La richiesta russa è sempre quella del 2022, chiara e, dal loro punto di vista, logica: il ritiro ucraino dal Donbas non controllato come precondizione per il cessate il fuoco.

È una resa? Certamente. Ma l’alternativa è che se lo prendano con la forza, metro dopo metro, mentre l’Occidente discute se i droni fossero russi o ucraini.

Perché, da che mondo è mondo, le condizioni dei trattati le dettano i vincitori. E la Russia ha vinto, tanto che a implorare il cessate il fuoco è Kiev, non certo Mosca.

L’ULTIMO ATTO

Siamo di fronte a un bivio storico. La guerra in Ucraina sta diventando un “side show”, uno spettacolo secondario rispetto alla vera tensione che si accumula nel Pacifico, attorno a Taiwan e alle isole Ryukyu.

Il Giappone si riarma, la Cina minaccia, e l’Ucraina rischia di essere la pedina sacrificata per guadagnare tempo, uomini e denaro per rivolere attenzioni più a Est.

Zelensky rimarrà solo nel suo bunker, circondato dai fantasmi della corruzione e dalle promesse infrante dell’Occidente.

E noi europei ci ritroveremo più poveri, più militarizzati e moralmente sconfitti, per aver finanziato una guerra per procura che non potevamo vincere, mentre i tre unici veri imperi ridisegnano le mappe del mondo sopra le nostre teste.

La pace, se arriverà, non avrà il sapore della giustizia, proprio come i libri di storia ricordano a chiunque abbia il coraggio di studiarli.

Avrà il sapore metallico di un accordo commerciale, siglato sulle ceneri di una nazione che abbiamo illuso e mandato al patibolo per la follia di Biden e l’incompetenza di un manipolo di pazzi alla guida delle istituzioni e delle cancellerie europee.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

PERCHÉ LA CORTE DEI CONTI HA FERMATO IL PONTE SULLO STRETTO

C’è un confine sottile, quasi invisibile, ma letale, dove la narrazione politica si infrange contro il Diritto amministrativo.

Purtroppo, nelle democrazie funziona così. In Corea del Nord, decidono pochissimi fedelissimi di un uomo solo, ma da noi no.

È lì, su quel confine, in quel punto preciso, è rimasto imbrigliato il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina.

La Corte dei Conti, con la freddezza che le compete, ha depositato le motivazioni del “no” pronunciato lo scorso 29 ottobre. E quello che emerge non è solo un intoppo burocratico, ma è la bocciatura di un metodo.

Il Ministero e il Governo, con un riflesso condizionato degno di Pavlov, hanno già lanciato la controffensiva mediatica. “Siamo al lavoro”, dicono. “Supereremo i rilievi”.

Una danza verbale che conosciamo bene, tesa a rassicurare i mercati e l’elettorato. Tuttavia, leggendo le carte, la realtà appare ben diversa.

L’ILLUSIONE DELL’INTERESSE SUPREMO E IL NODO AMBIENTALE

Il motivo della bocciatura è in quattro pilastri fondamentali, quattro crepe strutturali nel progetto di fattibilità giuridica ancor prima che ingegneristica.

La prima è forse la più affascinante dal punto di vista sociologico: il tentativo di utilizzare la procedura “Iropi”, acronimo tecnico che sta per “motivazioni imperative di rilevante interesse pubblico”.

In parole povere, è la carta “esci gratis di prigione” che si gioca quando un’opera viola i vincoli ambientali, ma è talmente vitale da non poterne fare a meno.

Ebbene, i giudici contabili hanno rilevato un dettaglio inquietante, quanto imbarazzante: questa “imperatività” non è stata validata da organi tecnici terzi, ma solo autocertificata. Perciò manca la documentazione “adeguata e circostanziate” non solo sull’impatto ambientale, ma persino sulle ragioni di tutela della salute e della sicurezza pubblica.

In pratica, si è cercato di bypassare il parere formale della Commissione Europea con un atto di fede, piuttosto che con un dossier scientifico. Un azzardo bocciato dalla Corte.

IL PARADOSSO DEGLI APPALTI E LA MEMORIA CORTA SUI COSTI

Spostiamo lo sguardo sul piano economico, seguendo i soldi.

Qui la situazione si fa grottesca. La direttiva Habitat impone di valutare alternative meno impattanti.

Bruxelles aveva chiesto chiarimenti. La risposta del Ministero dell’Ambiente è stata inviare i pareri VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) del 2024 e 2025. Cioè, il governo ha risposto a una domanda con la domanda stessa.

Ma è sulla normativa degli appalti che il castello scricchiola sinistramente.

La Corte ha puntato il dito su un fatto macroscopico: si sta cercando di rianimare un contratto morto e sepolto, basato su costi del 2006, senza una procedura formale di aggiornamento prezzi.

In quasi vent’anni il mondo è cambiato tre volte, l’inflazione ha galoppato, le materie prime sono esplose.

Pensare di non ricalibrare il tutto è follia finanziaria persino per un problema a un esame di licenzia media.

C’è di più. Il modello di finanziamento è mutato radicalmente.

Nel 2003 si parlava di project financing, ovvero coinvolgimento di capitali privati. Oggi siamo di fronte a una copertura integrale con risorse pubbliche.

Il rischio d’impresa è stato totalmente socializzato, spostato sulle spalle dei contribuenti italiani, trasformando l’operazione in un debito pubblico differito, che pagheranno le future generazioni. Il che non è di per sé sbagliato, perché si tratta di un progetto di cui godranno soprattutto le nuove generazioni, perciò è previsto che, per queste opere, lo Stato rinvii il pagamento agli adulti del futuro, ma viene meno il progetto iniziale.

CAOS AMMINISTRATIVO: QUANDO LA MANO DESTRA IGNORA LA SINISTRA

Il terzo punto critico sollevato dai magistrati contabili riguarda l’assenza del parere dell’Autorità di regolazione dei trasporti sul sistema tariffario.

Sembra un dettaglio tecnico, ma è la chiave di volta del Piano Economico Finanziario. Se non sai quanto costerà il pedaggio e chi lo regolerà, come puoi calcolare la sostenibilità della gestione affidata alla società Stretto di Messina?

L’istruttoria appare, agli occhi dei giudici, come un puzzle incompleto.

Atti mancanti. Versioni multiple degli stessi documenti che si contraddicono o si sovrappongono. Un disordine che tradisce fretta, approssimazione, forse ansia da prestazione politica.

Addirittura, il decreto interministeriale del 1° agosto, che avrebbe dovuto dare il “la” alla delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile (CIPESS), non aveva ancora completato il controllo preventivo alla data della riunione.

In pratica, si è deliberato sul nulla.

L’OTTIMISMO DELLA VOLONTÀ CONTRO IL PESSIMISMO DELLA RAGIONE

Palazzo Chigi promette battaglia e chiarimenti entro metà dicembre.

Si parla di “ampi margini di chiarimento” e di un confronto costruttivo. È la retorica istituzionale. Eppure, la sensazione è che si stia cercando di curare una frattura scomposta con un cerotto.

Non si tratta di essere contro le grandi opere, perché un’infrastruttura strategica serve, eccome.

Ma la modernità di un Paese non si misura dai metri di campata unica di un ponte, bensì dalla capacità della sua classe dirigente di produrre atti amministrativi inattaccabili, trasparenti, solidi, rapidamente. Possibilmente in maniera non brancaleonosa.

Finché la politica continuerà a considerare le norme europee e i controlli contabili come fastidiosi orpelli da aggirare, e non come garanzie di legalità e sostenibilità che evitano i problemi del “magna magna” del passato, il Ponte sullo Stretto rimarrà quello che è sempre stato: un miraggio onirico sospeso tra Scilla e Cariddi, bellissimo sulla carta, ma incapace di poggiare i piedi sul mondo della realtà.

Le motivazioni dietro lo stop della Corte dei Conti al Ponte sullo Stretto: un’analisi critica su violazioni ambientali, incertezze finanziarie e il braccio di ferro tra narrazione politica e rigore amministrativo.

L’ILLUSIONE DEL SOLDATO VOLONTARIO

L’EUROPA CI PREPARA ALLA GUERRA MENTRE L’ECONOMIA AFFONDA

Ormai, siamo nella fase del marketing della paura.

Mentre l’amministratore delegato di Leonardo, il colosso della difesa italiana, ci dice che “non sta finendo una guerra, ma ne sta iniziando una nuova”, noi ci troviamo di fronte a uno dei più grandi esperimenti di ingegneria sociale del XXI secolo.

E non è affatto un caso.

La sincronia è perfetta: da una parte abbiamo i mercati e l’industria bellica che chiedono sangue e contratti, dall’altra, i governi europei, da Parigi a Roma, che iniziano a sussurrare parole che credevamo sepolte negli archivi del Novecento, quali leva, riserva, mobilitazione, coscritti.

Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha lanciato il sasso al cospetto di Macron, annunciando una riserva ausiliaria di diecimila unità. Volontaria, per ora.

Ma l’aggettivo “volontario”, quando pronunciato in tempi di crisi economica sistemica, assume contorni sinistri. È davvero una scelta libera arruolarsi quando il potere d’acquisto si sgretola e il PIL del tuo Paese flirta con lo zero virgola?

LA DISSONANZA COGNITIVA: IL MITO DELL’INVASIONE RUSSA

La narrazione dominante, quella che giustifica il riarmo e la proposta di una riserva militare, si fonda sul traballante assioma per cui la Russia vuole invadere l’Europa.

Ma è la medesima Russia che comincia ad avere meno incassi dalla vendita di gas e petrolio e che vede le banche e le imprese in grandi difficoltà. La stessa Russia che la propaganda occidentale dava per morta nel 2022, armata solo di pale ottocentesche, senza calzini, a dorso di muli e a caccia di microchip dai tiralatte.

Come fa una nazione che, secondo i racconti di Repubblica, Il Corriere e le altre testate roboanti, è moribonda, con un esercito allo sbando, impantanata nel Donbas da quasi quattro anni, a essere un pericolo per Roma, Parigi, Madrid e Lisbona?

Questi tesi, ripetuta come un mantra ossessivo, cozza violentemente con la realtà logistica e militare.

Mosca è impantanata nel Donbas, sebbene messa indiscutibilmente meglio dell’Ucraina.

Ha impiegato mesi, risorse ingenti e vite umane per conquistare villaggi che sulle carte geografiche che ci mostrano nei talk show appaiono come puntini insignificanti. Almeno così ci dicono i nostri esperti di guerra.

E noi dovremmo credere che questa stessa macchina militare, logorata e lenta, sia pronta a marciare su Berlino o Parigi nel 2029?

Con quali soldi, visto i guai finanziari? Con quali uomini, visto che, con 1000 morti al giorno, stando ai racconti dei nostri media, ha perso più di 1,2 milioni di uomini, cioè l’intero esercito?

È un insulto alla nostra intelligenza, almeno per chi abbia almeno due neuroni funzionanti e non solo spazio vuoto tra le orecchie.

Eppure, questa “bugia utile” serve a coprire un fallimento strategico colossale.

Abbiamo investito miliardi in un conflitto per procura in Ucraina, svuotando i nostri arsenali e le nostre casse, senza ottenere alcun vantaggio geopolitico tangibile, se non quello di aver spinto la Russia tra le braccia della Cina e aver devastato il nostro tessuto industriale con costi energetici insostenibili.

Senza dimenticare il fatto che l’Ucraina che rifiutò i trattati del 2022 aveva un’economia e un esercito, mentre oggi ha il 20% del territorio occupato dal nemico, un esercito allo sbando, l’economia rasa al suolo, con debiti impagabili, un’intera generazione morta o resa invalida e milioni di cittadini in età da lavoro fuggiti all’estero.

Perché, sì, ragazzi: la guerra per una pace giusta porta morti e distruzione; la diplomazia per una pace a qualunque costo, invece, salva vite e la nazione. È solo questione di visione e di scelta. L’Europa ha scelto il fallimento dell’Ucraina e la morte degli ucraini.

IL “PIANO GERMANIA” E I PASSETTI VERSO L’ABISSO

La mossa di Crosetto non è un atto di precauzione nazionale, ma un tassello di un mosaico più ampio e inquietante.

La Germania ha già steso il suo Operation Plan Deutschland, un tomo di oltre mille pagine che non è solo teoria, ma un manuale operativo per trasformare il Paese in un hub logistico per la Terza Guerra Mondiale.

Macron, in Francia, gioca con la retorica napoleonica reintroducendo il servizio universale e i vertici del suo esercito dicono già ai francesi che devono abituarsi all’idea di perdere i loro figli in guerra.

L’Italia si accoda. Si parla di “riserva volontaria”, di “professionalità specifiche”, ma la direzione è inequivocabile: si sta traghettando l’opinione pubblica dalla pace al concetto di “economia di guerra”.

È l’applicazione della Finestra di Overton – per chi non ha studiato Comunicazione e Psicologia, la tecnica della rana bollita.

Oggi ti dicono che servono 10.000 volontari per colmare i vuoti lasciati da anni di tagli sconsiderati.

Domani, quando la crisi economica indotta dalle stesse sanzioni che abbiamo applaudito e le scellerate politiche contro il motore endotermico renderanno il lavoro civile una chimera, la divisa diventerà l’unico ammortizzatore sociale rimasto. Non sarà una leva obbligatoria per legge, ma per fame.

E ti diranno che serviranno 30.000, forse 50.000 inventandosi i più disparati motivi. Un po’ come quando ti dicevano “ancora solo quindici giorni”. Ricordi? La strategia è la stessa.

DIPLOMAZIA VS. RIARMO: LA GRANDE RIMOZIONE

La cosa più spaventosa non è ciò che viene detto, ma ciò che viene taciuto.

Nessuno, nelle cancellerie che contano, parla seriamente di come far finire la guerra.

Le condizioni di Putin sono sul tavolo: riconoscimento della Crimea, ritiro dal Donbas. Sono lì dal 2022 e, più passa il tempo, peggiori e più pesanti diventano.

Possiamo considerarle inaccettabili, ingiuste, brutali. Ma l’alternativa qual è? Continuare a combattere una guerra di attrito che l’Ucraina non può vincere, rischiando di perdere ancora più territorio e più uomini, trascinando l’Europa nel baratro?

Quante migliaia di altri giovani ucraini devono morire perché i leader europei lo capiscano? Perché… vogliono salvarli gli ucraini, vero?!

A me sorge più di qualche dubbio, non so a voi.

La logica – e la cultura – vorrebbe che si esplorasse ogni via diplomatica prima di chiedere ai cittadini di prepararsi a imbracciare le armi, invece, assistiamo a una rimozione collettiva della diplomazia.

Si preferisce investire in munizioni che non abbiamo e in soldati che i popoli europei non vogliono, come hanno dimostrato in tutte le elezioni svolte negli ultimi due anni, in cui hanno dato ampio consenso ai partiti contrari alle politiche belliciste.

Eppure i leader insistono sulla preparazione alla guerra, piuttosto che ammettere di aver miseramente fallito.

IL PREZZO DEL CONFORMISMO

Stiamo scivolando su un piano inclinato, perché la proposta di una riserva militare italiana, venduta come un necessario adeguamento ai tempi correnti, è in realtà la confessione di un’impotenza politica.

I nostri leader, incapaci di garantire prosperità e sicurezza attraverso la politica e l’economia, si rifugiano nell’unica risposta che conoscono quando le idee finiscono: la forza.

Ma attenzione. I miliardi necessari per riarmare l’Europa, per addestrare queste riserve, per riempire i magazzini svuotati, non cadranno dal cielo. Verranno sottratti alla sanità, all’istruzione, alle infrastrutture civili.

Stanno tassando il futuro dei nostri figli.

Ci stanno chiedendo di barattare il nostro benessere con una sicurezza illusoria contro un nemico che non ha né la forza né l’intenzione di varcare i nostri confini, né alcun motivo logico per farlo, a meno che non siamo noi stessi a costringerlo con una minaccia esistenziale.

E, cosa ancora più inquietante, la storia ci insegna che quando si preparano i piani per la guerra, la guerra, per una perversa profezia che si autoavvera, tende ad arrivare davvero.

Chi ha studiato le cause della Prima e della Seconda Guerra mondiali lo sa bene. Purtroppo, sembra che tutti gli altri siano finiti a fare i giornalisti o a rivestire alte cariche europee.

Sembra solo a me?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.