LA FRANCIA AL CAPOLINEA: MACRON SFIDUCIATO DAI MERCATI PRIMA CHE DAL PARLAMENTO. CRONACA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO
CRISI POLITICA A PARIGI
Mentre l’Occidente attendeva con malcelata sufficienza il default di Mosca, grazie alle nostre “sanzioni dirompenti” – così ci aveva promesso Mario Draghi nel 2022, – il crac si è affacciato alla finestra di una delle capitali dell’Europa.
Il Primo Ministro francese convoca un voto di fiducia per l’8 settembre, ma il verdetto è già stato emesso, e non dalle aule parlamentari, ma dai terminali di Borsa.
Lo spread, infatti, schizza, le banche francesi affondano e “Napoleone” Macron si ritrova a contemplare le rovine di un’economia che doveva trainare l’Europa verso la vittoria contro Mosca e che, invece, ora rischia di trascinarla a fondo.
C’è un’ironia quasi tragica, una di quelle che solo la storia sa architettare, in ciò che sta accadendo oltralpe.
Doveva fallire la Russia. La stampa di casa nostra lo avrà ripetuto migliaia di volte in questi tre anni e mezzo.
Era il mantra, la profezia autoavverante recitata per mesi dai salotti buoni di Bruxelles e Washington.
Invece, a tremare non è il Cremlino, ma l’Eliseo. E vengono in mente le frasi di Putin e di Lavrov, alle quali sorridevamo come di fronte agli imbecilli, quando dicevano che sarebbe stata l’Europa a fallire.
Beh, dati e fatti alla mano, c’è poco da ridere adesso.
La Francia, la nostra cugina guidata dal nuovo Napoleone altero e nucleare, si scopre improvvisamente nuda, fragile, sull’orlo di una crisi sistemica che intreccia politica ed economia in un abbraccio mortale.
Tutto precipita con una mossa che sa di disperazione.
Il Primo Ministro che annuncia un voto di fiducia per l’8 settembre. Un atto dovuto, si dirà. Invece è una mossa politica con carte pessime in mano.
E i mercati, che hanno il fiuto di uno squalo per l’odore del sangue, non hanno atteso un istante. Hanno votato. E hanno votato la sfiducia. E non sembrano esserci appelli.
IL TERMOMETRO DEI MERCATI: QUANDO LA BORSA VOTA PRIMA DELLE URNE
I numeri sono più spietati di qualsiasi editoriale. Sono la verità distillata in cifre. Cosa che sia l’Italia di Berlusconi sia la Grecia conoscono bene.
Le banche francesi hanno bruciato quasi il 10% del loro valore in un paio di sedute. Puff. Volatilizzati miliardi di capitalizzazione come neve al sole di agosto.
Ma il vero segnale, il sismografo che non mente mai, è lo spread.
Il differenziale tra i titoli di stato decennali francesi e i loro omologhi tedeschi, il benchmark della stabilità europea, è esploso.
80 punti base. Un’enormità. Per contestualizzare, per i non addetti ai lavori che ancora credono alle favole dell’Europa unita, questo significa che prestare soldi alla Francia è diventato improvvisamente molto più rischioso.
Un rischio che non si percepiva con tale intensità dai tempi bui della crisi dei debiti sovrani del 2011. Dieci anni di illusioni spazzati via in poche ore. Questo non è un dato. È una sentenza.
CRISI POLITICA: L’ANATOMIA DI UN GOVERNO LOGORATO
Ma perché questa fuga dal rischio-Francia? Perché i capitali scappano?
La risposta è nel teatrino della politica parigina, dove un esecutivo “fortemente logorato” – un eufemismo per dire clinicamente morto – tenta di sopravvivere aggrappandosi a compromessi che non reggono più.
Il governo Macron, nato per essere né di destra né di sinistra, e contro il volere del suo stesso popolo, che ha votato chiunque pur di non votare il suo partito, si ritrova oggi senza l’una e senza l’altra, paralizzato da una maggioranza che è un castello di carte pronto a crollare al primo soffio di vento.
E il vento sta soffiando forte.
Il voto di fiducia non è altro che il pretesto per chiedere al popolo francese, tramite i suoi rappresentanti, di accettare l’inevitabile: austerità. Tagli feroci alla spesa pubblica. Un aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese già stremate. Sacrifici, insomma.
Altro che marciare su Mosca!
Un fronte compatto del “No” è già pronto.
Dalla cosiddetta “estrema destra” alla cosiddetta “estrema sinistra”, le opposizioni hanno fiutato l’occasione e hanno già annunciato che voteranno contro.
È un accerchiamento. Il leader della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, non ha usato mezzi termini, chiedendo le dimissioni immediate di quello che ha definito, non a caso, “Napoleone Bonaparte Macron”.
Macron diceva che Putin aveva i mesi contati, invece è lui a essere finito.
I NUMERI DEL MALESSERE: UN DEBITO CHE DIVORA IL FUTURO
La crisi politica è solo la febbre. La malattia è nei conti pubblici, devastati da anni di gestione allegra e promesse insostenibili. E, ovviamente, dalle spese pazze per la guerra.
Il Deficit Pubblico viaggia oltre il 5%, il doppio della media europea.
Il Debito Pubblico ha raggiunto il 114% del PIL. Una montagna che pone la Francia nel club poco esclusivo dei grandi malati d’Europa, subito dopo Grecia e Italia.Le agenzie di rating, non a caso, hanno già declassato il debito francese.
E questo non è un incidente di percorso, ma il risultato matematico delle politiche fallimentari dell’era Macron. È la zavorra che sta affondando la Grande Nation.
SCENARI FUTURI: TRA IL CAOS E L’UOMO FORTE
Cosa può accadere adesso? Gli scenari sono pochi e tutti inquietanti.
NUOVE ELEZIONI
La caduta del governo porterebbe quasi certamente a elezioni anticipate.
Con una probabile, ulteriore frammentazione o, peggio, la vittoria di quelle forze definite “estremiste” che i mercati tanto temono.
Un salto nel buio.
L’OPZIONE “CAESAR”: L’ARTICOLO 16.
Non va dimenticato un dettaglio cruciale della V Repubblica: l’Articolo 16 della Costituzione.
Un meccanismo che conferisce al Presidente poteri eccezionali in caso di “minaccia grave e immediata” all’integrità della nazione o al funzionamento delle istituzioni. Ma potrebbe un tracollo finanziario essere considerato tale?
Macron, messo all’angolo, potrebbe essere tentato dal trasformarsi da “Napoleone” a monarca repubblicano, governando per decreto. Un colpo di mano istituzionale che infiammerebbe il paese e porterebbe con probabilità a una guerra civile ai confini di casa nostra.
IL CONTAGIO È INEVITABILE
La Francia non è la Grecia.
Le sue banche sono interconnesse con l’intero sistema finanziario europeo, Italia in primis. Perciò un suo default controllato, o anche solo un lungo periodo di instabilità, avrebbe un effetto domino devastante.
Chi interverrà? La BCE? Il Fondo Monetario Internazionale? E a quale prezzo?
Stiamo assistendo in diretta alla fine di un’epoca. Al fallimento devastante della politica dei tecnici.
La fine dell’illusione che un’unione monetaria senza unione politica potesse funzionare.
La Francia, con la sua superbia e la sua fragilità, sta mettendo a nudo tutte le contraddizioni del progetto europeo. La domanda, dunque, non è se la crisi francese avrà conseguenze per noi, ma quali e quanto saranno gravi.
Preparatevi. Perché quando Parigi starnutisce, l’Europa prende la polmonite.
E questa volta, l’aria gelida ha il sapore di un lungo inverno.
E no, non è quello glaciale di Mosca, ma quello dell’Europa che sta morendo a causa dell’incompetenza di quei tecnici che hanno creduto di potersi sostituire alla cultura dei politici della cultura, della ragione, della conoscenza dei popoli.
È giunto il tempo di mettere in discussione tutte le balle che ci hanno raccontato in questi tre anni e mezzo. Prima che sia troppo tardi.
Un’analisi delle richieste insostenibili e dei doppi standard che allontanano la pace, mentre si accelera verso il riarmo.
L’ESCALATION E LA RETORICA E MILITARE
Mentre i cieli di Kiev vengono nuovamente squarciati dai droni, la macchina burocratica di Bruxelles non si ferma.
Anzi, accelera. Si prepara il diciannovesimo pacchetto di sanzioni, si valuta l’invio di istruttori NATO in suolo ucraino, un atto che, per chi ha memoria storica, sa di fiammifero vicino alla polveriera.
Ogni missile, ogni vittima, non viene utilizzato come grido disperato per fermare le ostilità, ma diventa il pretesto per alzare ancora di più l’asticella dello scontro.
Stiamo assistendo a un pericoloso gioco delle parti.
Da un lato, una retorica bellicista e un riarmo senza precedenti. Dall’altro, proposte diplomatiche così platealmente irrealistiche da apparire volutamente costruite per fallire.
Perché solo uno squilibrato può pretendere che chi sta vincendo la guerra abbandoni i territori conquistati per fare un favore a chi è molto vicino alla sconfitta.
Questo non è il percorso verso la pace.
È un calcolo cinico, un gioco delle parole che usa le vite degli ucraini come pedine e come leva negoziale per giustificare un conflitto di lunga durata. È il trionfo della narrazione sulla sostanza, della propaganda sulla politica.
IL VERTICE IMPOSSIBILE: UN ULTIMATUM, NON UN INVITO AL DIALOGO
Prendiamo la richiesta surreale lanciata nelle scorse ore: un vertice tra Putin e Zelensky entro lunedì.
La giustificazione?
Se non accadesse, “Trump sarebbe stato preso in giro da Putin”. Come se Trump e Putin non si sentissero ogni giorno e non avessero ben chiari gli sviluppi del mondo a cui gli europei non sono stati invitati.
Lo show messo in piedi dai leader europei non è un argomento da scuola di diplomazia, ma somiglia più alla caciara da bar. È un costrutto politico così pretestuoso che smaschera da solo la sua natura di mera operazione di pressione mediatica.
Qualsiasi studente al primo anno di Relazioni Internazionali sa che un vertice tra leader nemici in piena guerra è il coronamento di mesi, a volte anni, di trattative segrete, di scambi di documenti, di garanzie.
I leader non si incontrano per perdere tempo, ma solo quando manca soltanto la firma in calce ad atti preparati dalle rispettive delegazioni.
E oggi, di fronte alle richieste russe per giungere a una pace, che sono le stesse da tre anni, a cui si è aggiunta una porzione di territori in più, è fuori da ogni logica parlare di “pace giusta” e di resa di Mosca.
L’obiettivo dei leader europei è lampante e non è affatto ottenere il vertice.
L’obiettivo è poterne addossare la colpa del fallimento annunciato a Putin, dando nuova linfa alla propaganda russofoba di casa nostra e giustificando il diciannovesimo, il ventesimo, il ventunesimo pacchetto di sanzioni.
È un copione già scritto, già visto e recitato male.
Un copione che produrrà solo altri ucraini mandati al macello e altre terre conquistate da Mosca.
LA LOGICA INVERTITA DELLA TREGUA: CHIEDERE LA RESA PRIMA DELLA TRATTATIVA
L’Europa, quella stessa che definisce Putin “l’orco” (citazione testuale del Presidente Macron, degna della migliore retorica da osteria) e che inonda l’Ucraina di armamenti sempre più letali, chiede alla Russia di ritirarsi completamente da tutti i territori conquistati come precondizione solo per sedersi a un tavolo.
Stiamo sostanzialmente chiedendo alla parte che, sul campo, detiene il vantaggio strategico, di arretrare unilateralmente, di consegnare all’avversario una tregua per avere il tempo di riorganizzarsi, senza avere in cambio alcuna garanzia.
È una follia.
Non esiste un solo precedente storico in cui ciò sia avvenuto.
Questa non è una richiesta di tregua, ma di una resa incondizionata travestita da proposta di pace. È il trionfo della volontà ideologica sulla realtà dei fatti.
Ma i fatti, si sa, sono testardi.
Perciò non avverrà nessun incontro con Zelensky, semplicemente perché Putin ha il coltello dalla parte del manico e continua a pugnalare senza che né Zelensky né la Nato possano fare nulla per impedirgli di proseguire, come dimostrano i fatti.
I DUE PESI E LE DUE MISURE: LO SGUARDO DISTOLTO DAL MEDIORIENTE
Intanto, qualche migliaio di chilometri più in là, Israele continua il suo macabro gioco.
Perciò, da un lato, abbiamo lo zelo quasi maniacale contro “l’orco Putin”. Sanzioni su sanzioni, mobilitazione economica, retorica infuocata, definizioni da crociata. Persino l’idea di mandare soldati europei a morire in Ucraina.
Dall’altro, abbiamo lo sguardo distolto, imbarazzato, vigliacco, verso un altro scenario di atrocità: Gaza.
L’Europa, paladina del diritto internazionale quando le conviene, sta di fatto ignorando le conclusioni della Corte Penale Internazionale, che ha emesso un mandato d’arresto per il Premier israeliano per crimini di guerra e contro l’umanità ben più gravi di quelli commessi da Mosca in Ucraina.
Dove sono le sanzioni? Dov’è la mobilitazione?
Dove è la retorica da crociata?
Ancora tutto impantanato in dichiarazioni poco chiare e riunioni perditempo.
Questa palese, oscena incoerenza non è un dettaglio.
È la prova che le azioni europee non sono guidate da un principio superiore di giustizia o di difesa della vita umana, ma da un calcolo geopolitico preciso e spietato: il contenimento della Russia a tutti i costi.
Le altre vite e gli altri crimini, evidentemente, contano di meno.
UNA PACE LONTANA, UNA GUERRA SEMPRE PIÙ VICINA
Dunque, ricapitoliamo.
Proposte diplomatiche surreali e irrealizzabili, concepite per fallire e fornire alibi.
Una postura militare sempre più aggressiva e pericolosa. Una coerenza morale inesistente, smascherata dal doppio standard applicato alle vittime di conflitti diversi.
Questo cocktail esplosivo non avvicina la pace di un solo millimetro. Al contrario, la rende un’ipotesi sempre più remota, un sogno sepolto sotto le macerie di Mariupol e di Gaza.
Ma si tratta di una strategia che intrappola il popolo ucraino in un conflitto di logoramento dove a essere logorate sono le sue città e i suoi figli.
Mentre i leader europei e ucraini “giocano” con la diplomazia, facendo richieste che sanno essere impossibili, e si preparano alla guerra totale, il prezzo lo stanno pagando le vite di chi quella guerra la subisce.
In nome di cosa?
Della sconfitta della Russia, a qualunque costo umano. Un esito impossibile, perché, qualora la Russia si trovasse mai in difficoltà, userebbe le armi atomiche, senza se e senza ma.
Putin è cinico, determinato, tenace e criminale quanto basta per poterne esserne certi.
Resta da vedere fino a che punto i leader europei, che finora non ne hanno azzeccata mezza, a cominciare dalle famose “sanzioni dirompenti”, saranno disposti a spingere questa partita.
La risposta che sembra emergere dai comunicati di Bruxelles, purtroppo, sembra dire fino all’ultimo europeo.
E sembra anche che i leader europei diano per scontato che i popoli dei 27 siano pronti a immolarsi in nome del riarmo e delle lobby delle armi.
E se, invece, costretti a combattere, scegliessero di marciare verso Bruxelles per chiedere conto ai tecnocrati dei loro fallimenti?
C’è chi spera che, prima o poi, la realtà dei fatti sovrasti la dimensione orwelliana in cui ci hanno incastrato a forza, ma, almeno per ora, non si vedono segnali che facciano sperare in un simile epilogo.
Mentre la propaganda oscura una realtà militare sempre più critica per Kiev, le manovre diplomatiche di Zelensky, le minacce di Trump e le divisioni interne all’UE raccontano un conflitto dove l’unica certezza è che a pagare sono gli ucraini con la vita e gli europei con le tasche.
Kiev brucia ancora.
Nonostante per tre anni la propaganda russofoba ci abbia narrato di un esercito russo di scappati di casa e di una Mosca con le finanze al tappeto, la Russia fa in Ucraina ciò che vuole.
La notte del 27 agosto, una devastante “pioggia di fuoco” russa ha colpito oltre venti località della capitale, lasciando una scia di morte e distruzione.
Il bilancio, ancora provvisorio, parla di almeno quattordici morti e quarantacinque feriti.
È il rituale macabro di una guerra che i nostri media ci raccontano con una selettività chirurgica in stile pandemia: le vittime ucraine finiscono giustamente in prima pagina, quelle causate dai bombardamenti di Kiev su città russe, invece, scompaiono in un buco nero informativo.
Perché non sia mai che qualcuno pensi che anche gli ucraini siano aggressori e si ricordino dei bombardamenti sul Donbass dal 2014.
In questo scenario, quasi surreale, fa specie l’appello del Presidente Zelensky, che invoca una tregua, dopo l’incontro in Alaska in cui Putin ha stabilito i punti da rispettare per giungere alla fine della guerra, ma che Zelensky, pur evidentemente sconfitto, non accetta.
Il leader ucraino – ancora in carica in virtù della mancanza di elezioni per la legge marziale – si rivolge alla Cina, che ha, però, insultato a più riprese perché amica di Mosca, e all’Ungheria, le cui infrastrutture energetiche vengono sistematicamente colpite dai suoi stessi droni.
Se non fosse un comico di professione, potremmo dire che Zelensky ha un futuro come autore di cabaret.
Il suo comportamento illogico è la fotografia perfetta della disconnessione tra la retorica pubblica e la spietata realtà di un conflitto che non è più solo una guerra per il territorio, ma un complesso e pericoloso doppio gioco.
Un gioco orchestrato da sponsor occidentali che, mentre fingono di cercare la pace a casa di Trump, la temono come la peste perché stanno preparando l’escalation e, soprattutto, il “dopo Zelensky”.
LA GUERRA DELLE NARRAZIONI E LA REALTÀ SUL FRONTE
La prima vittima di ogni guerra è la verità e in Ucraina è stata giustiziata da tempo.
Prendiamo l’ultimo “gesto umanitario” di Kiev: consentire agli uomini tra i 18 e i 22 anni di lasciare il Paese.
Commovente. Peccato che sia l’equivalente di chiudere il cancello quando i buoi sono già scappati da un pezzo. Quei giovani, minorenni all’inizio del conflitto, non erano soggetti al divieto. Chi poteva, e voleva, è già altrove.
Non a caso, l’Ucraina ha visto milioni di emigrati in Europa, passando da una popolazione di 43 milioni, nel 2022, a 35 di oggi.
La mossa, perciò, serve solo alla propaganda, a mascherare la disperata caccia a nuove reclute – che ha visto diverse proteste contro il governo di Kiev – e a far dimenticare le passate, inquietanti richieste di rimpatrio dei minori rifugiati all’estero.
La cortina fumogena si estende ancor di più al campo di battaglia, perché, mentre il governo ucraino nega categoricamente la caduta di città strategiche come Pokrovsk, fonti militari interne e think tank occidentali come l’ISW (Institute for the Study of War) dipingono un quadro ben diverso.
Secondo queste fonti, infatti, le forze russe avanzano, lentamente, ma inesorabilmente, a Ocheretyne, a Donetsk, a Kharkiv.
Si ammette la loro presenza nei centri urbani, ma se ne nega la conquista. Un esercizio di semantica che non ferma i proiettili. E nemmeno il corso della storia.
In tale contesto, si inserisce il più palese dei doppi standard: gli attacchi ucraini con droni sulle raffinerie in profondità nel territorio russo – fino a Samara, a 900 km dal confine – e persino sulla centrale nucleare di Kursk, vengono presentati dai nostri media come una legittima strategia per “costringere Putin a negoziare”.
Quando, invece, la Russia colpisce le infrastrutture energetiche ucraine, lasciando al buio Poltava e Sumy, si grida al terrorismo. E, in quel caso, non vale la teoria per cui Putin voglia spingere Zelensky a negoziare.
La moralità di un missile, a quanto pare, dipende dalla bandiera che sventola sul drone che lo sgancia.
IL BURATTINAIO BRITANNICO E L’ESCALATION MILITARE
Se la spinta diplomatica sembra arenata dopo il vertice Putin-Trump, è perché alcuni attori non hanno alcun interesse a fermare il gioco. Anzi, molti stanno facendo di tutto perché non si fermi la guerra.
E mentre gli Stati Uniti di Trump appaiono ambivalenti, la Gran Bretagna si è ritagliata, come da sua secolare tradizione, il ruolo del burattinaio che muove i fili restando nell’ombra.
L’arma del caos è un nuovo, letale missile a lungo raggio ucraino, il “Flamingo”, con una gittata di 3.000 chilometri, capace di colpire quasi ovunque nella Russia europea. Ma, attenzione, anche in Europa.
Cosa da tenere in considerazione, visto che sono uomini di Kiev quelli che hanno danneggiato il NordStream2. Perciò, che l’Ucraina attacchi l’Europa non è un’ipotesi, ma è già storiaconfermata dalla magistratura tedesca.
Presentato come un miracolo dell’ingegneria autoctona, il missile puzza di bruciato lontano un miglio. Come nota persino The Economist, è “troppo bello per essere vero”.
Sviluppare un simile vettore in soli nove mesi, da parte di una nazione senza esperienza nel settore, è pura fantascienza, perciò la spiegazione più plausibile, offerta dalla giornalista ucraina Patrica Marins, non dalla propaganda russa, è che Kiev stia semplicemente assemblando kit già pronti.
Probabilmente forniti da aziende come la emiratina-britannica Milanion, per aggirare i trattati che vietano l’esportazione di tali armi.
L’obiettivo non è vincere la guerra, ma provocare una reazione incontrollata di Mosca per far naufragare definitivamente qualsiasi trattativa.
Ma Londra non lavora solo sui missili, infatti è attiva anche sulla politica.
È in atto una vera e propria operazione per preparare il successore di Zelensky: l’ex Capo di Stato Maggiore Valery Zaluzhny, oggi strategicamente posizionato come ambasciatore a Londra.
La campagna è iniziata a luglio, con un agiografico articolo su Vogue che lo dipingeva come un “novello Churchill”, per poi proseguire ad agosto con il Guardian, che ne pronosticava la vittoria elettorale.
Voci sempre più insistenti parlano di un suo ufficio elettorale già operativo a Kiev, mentre, guarda caso, è stato appena firmato un memorandum d’intesa tra la commissione elettorale ucraina e l’organismo di controllo britannico.
Tempismo impeccabile, non c’è che dire.
Il profilo di Zaluzhny è, tuttavia, inquietante: elogia apertamente l’eroismo del battaglione neonazista Azov e addita Israele come “modello” da seguire, “a dispetto delle attuali operazioni sanguinarie a Gaza”, come nota con tragica ironia lo stesso Guardian.
In buona sostanza, Londra sembrerebbe lavorare per sostituire a Kiev un comico con un pazzo. C’è di che stare tranquilli per il futuro, perché, se con un comico la terza guerra mondiale è un’ipotesi, con un pazzo manca solo la data dello scoppio.
ZELENSKY IN TRAPPOLA E IL REALISMO CINICO DI TRUMP
Perché gli europei – Londra in testa – si agitano per scaricare al più presto Zelensky?
Perché, nell’incontro con Trump, è apparso troppo remissivo, troppo flessibile, rispetto alle sparate di qualche mese fa.
Un atteggiamento che deve aver irritato i suoi sponsor più oltranzisti. Ecco perché gli europei rilanciano l’illogica richiesta di ritiro dai territori occupati da Mosca e la presenza di soldati europei in Ucraina.
Si tratta di punti già accantonati nelle trattative tra Putin e Trump e che non sono più sul tavolo delle discussioni. Lo sanno i russi e gli americani. Lo sanno gli ucraini e anche gli europei.
Proprio per questo i leader bellicisti punzecchiano Putin, perché hanno una paura bestiale della pace, che spazzerebbe via ogni pretesa di riarmo europeo e tanta manna per le tasche di certuni.
L’operazione Zaluzhny e la minaccia, neanche troppo velata, pubblicata dal Times di Londra – “se Zelensky cede territori, si ritroverà cadavere”, – suonano come un chiaro avvertimento.
Un’intimidazione per ricordare al “venditore”, come lo ha definito Trump, chi comanda davvero.
E che a Kiev non comandi Zelensky, lo scriviamo dal 2022.
E Trump?
Le sue dichiarazioni sono, al solito, un caotico flusso di coscienza. Ma le sue azioni parlano più forte. E sono chiare.
Bloccando gli aiuti diretti e costringendo l’Europa a comprare armi americane per Kiev, ha, di fatto, ridotto il flusso bellico.
Dietro le quinte, la sua amministrazione lavora a una soluzione. L’inviato Steve Witkoff lo ha ammesso candidamente: «Parliamo con i russi ogni giorno».
E qualcuno ci raccontava di Putin isolato…
La previsione americana è di chiudere il conflitto entro fine anno.
La Russia e gli USA chiuderebbero la guerra domattina, ma l’Europa chiede che la Mosca restituisca tutti i territori conquistati, neanche fossimo in un film comico e come se i leader europei non avessero mai aperto un libro di storia, non dico all’università, ma almeno delle scuole medie.
VERSO UN COLLASSO CONTROLLATO?
Siamo di fronte a un drammatico gioco su più livelli.
La Russia avanza sul campo e sono tre anni che dimostra che prenderà con le armi tutto ciò che chiede a livello diplomatico.
L’Ucraina chiede una tregua, ma senza voler cedere nulla in cambio ai vincitori, lontana da ogni logica e ogni contesto storico, dichiarando che la tregua servirebbe solo a riarmarsi prima di tornare a combattere.
Ma, tra altri tre anni di guerra, ci ritroveremmo solo a trattare su una porzione di Ucraina ben maggiore rispetto a oggi e dopo altre migliaia di giovani ucraini mandati a morire al fronte.
Ma l’Ucraina risponde con una propaganda sempre più slegata dalla realtà e con attacchi disperati, mentre una fazione occidentale, con Londra in prima linea, fornisce gli strumenti per un’escalationche serve solo a sabotare le trattative che un’altra fazione, quella di Trump, porta avanti in segreto.
Tutto raccontato dalla propaganda russofoba, media asserviti ai leader bellicisti, quegli stessi media che hanno veicolato fake news sbugiardate dal tempo: dai soldati russi senza armi, agli ubriaconi a dorso di muli, fino ai microchip smontati dai tiralatte. E come dimenticare le dita usate come baionette?
Dopo oltre tre anni, sappiamo che erano solo sciocchezze sparate perché gli europei non si rendessero conto della realtà: una superpotenza atomica può permettersi di giocare per anni e, qualora si trovasse in difficoltà, userebbe qualcuna delle sue 6000 testate nucleari per mandare tutti a nanna.
Zelensky appare ormai come un re nudo, scaricato dai suoi stessi padrini, perché il comico non è più in grado di reggere il loro gioco redditizio. – Sì, perché, con le guerre, c’è chi fa soldi a palate.
Un possibile collasso del fronte ucraino, obiettivo dell’attuale offensiva russa, potrebbe essere il pretesto per accelerare un accordo di pace dettato non dalle esigenze dell’Ucraina, ma dagli equilibri tra Washington e Mosca.
In questo tragico circo, la retorica bellicista dei leader europei sulla “vittoria a ogni costo” e sulla “pace giusta” serve solo a giustificare gli enormi profitti dell’industria bellica e a presentare un conto salatissimo ai cittadini europei.
La pace, se e quando arriverà, non sarà il trionfo della giustizia, ma il risultato di un cinico calcolo di potere, scritto sulle vite degli ucraini e pagato da tutti noi.
Sia in termini di soldi sia di credulità di certuni.
L’Italia ospita, da subito dopo la seconda Guerra mondiale, una serie di basi americane. Cito le tre forse più famose che sono posizionate a Sigonella, Napoli e a Vicenza.
La prima è diventata famosa perché da lì sarebbero dovuti partire gli aerei americani verso la Libia ai tempi di Gheddafi, per impartire una lezione al generale libico, ma Craxi ne proibì l’uso.
La seconda è sede del quartier generale della sesta flotta navale degli Stati Uniti, con competenza sulle altre attività navali Usa dell’Europa e del nord Africa.
Poi esiste un’altra base logistica, per la verità più decentrata, perché è vicino a Gricignano di Aversa.
IL BLITZ IN ROMANIA
La terza è la caserma Ederle ed è su questa che voglio soffermarmi per due vicende che reputo particolari.
Notizie recentissime (26/08/25) narrano del “recupero” del figlio di un dipendente americano impegnato come avvocato nella caserma (e dimessosi dall’esercito USA in maggio di quest’anno) e di una donna rumeno-americana che la mamma aveva deciso di trasferire, senza consenso del padre, in Romania.
Al di là delle vicende legali che davano ragione al militare statunitense, con affido del minore ( 6 anni) al padre, quello che emerge è come il figlio sia stato riportato in Italia.
Un team composto da uno 007 italiano, un istruttore di volo, un veterano inglese e, ovviamente, dal padre, ha effettuato un blitz in Romania per recuperare il minore.
Tutto si è risolto velocemente e positivamente, con transito, poi, dalla Romania in Bulgaria, dove un aereo partito da un ex aeroporto russo dismesso, ha riportato a casa, come ha voluto la legge italiana, il piccolo figlio “rapito”.
Tutto perfettamente legale, si sottolinea, grazie anche alla assistenza di un legale italiano e di un legale rumeno, utili per la conoscenza delle rispettive normative.
Per la verità avrei dovuto usare il femminile perché entrambi i legali erano donne. Ottima positiva assistenza.
Quanto raccontato sembra essere la trama di un film d’azione che spesso vediamo nelle trascrizioni cinematografiche o televisive, con tanto di lieto fine. Ma è esattamente quello che è successo questa volta.
NON È UN CASO ISOLATO
In realtà la vicenda del “rapimento ” qui narrata, indipendentemente dal suo svolgimento, è purtroppo non infrequente e spesso senza risultati positivi.
L’AMICIZIA ITALIA – AMERICA
Il secondo racconto parte da una vicenda che si concretizzerà dal 12 al 14 settembre prossimo sempre a Vicenza.
In quelle date si svolgerà l’Italia-America Friendship Festival, presentato come evento “culturale per i 70 anni di presenza delle basi militari americane in città “
Per i dettagli delle manifestazioni che accompagneranno i tre giorni celebrativi, vi invito ad andare online sul sito ufficiale: https://italiamericafestival.it/
Il calendario è fitto e, leggendolo, nasce certamente qualche interrogativo sulle scelte. Ma questa è un’altra storia, legata soprattutto al curatore quale incaricato dal sindaco della città.
13 SETTEMBRE. IL D-DAY
Quello che invece vorrei sottolineare è la manifestazione indetta Il 13 settembre, dove è prevista una iniziativa che, riporto integralmente: “sfiliamo insieme in un corteo popolare, ampio e plurale per riaffermare con forza che siamo per una Vicenza libera dalle basi militari e dalle economie di guerra”.
CHI SFILERÀ
Nel volantino del proclama vengono citate sedici note sigle, protagoniste a più riprese della rivendicazione territoriale, a cui ora vanno aggiunte quelle legate alla negazione della guerra, ovviamente condivisibili, anche se mancano controindicazioni anche generiche, quelle sulla guerra a Gaza, ma vengono citati anche le guerre in Ucraina, Mar Rosso e Indopacifico.
NO TAV E, NO E BASTA!
Visto che ci siamo, ci mettiamo anche la TAV Verona/ Padova, se non altro perché “serve a integrare i trasporti con le infrastrutture militari, garantendo la mobilità rapida di uomini e mezzi in caso di crisi belliche”
Poi, ripeto, potete andare ad informarvi sul sito che vi ho citato.
L’impressione è che il 13 settembre prossimo possa diventare, a Vicenza, una giornata di “estrema” mobilitazione, che si svolgerà all’interno del centro storico, presumibilmente blindato e fortemente presidiato, come è naturale che debba essere in questi casi.
LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E DIRITTO DI MANIFESTARE
Anche se la militarizzazione delle manifestazioni contro la militarizzazione delle città, rappresentate dalla presenza delle basi USA, non dovrebbe avere ragione di esistere, se le manifestazioni fossero intense, ma pacifiche.
Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero, ovviamente, anche il proprio dissenso, ma nella maniera più spontanea, civile, partecipata, rumorosa possibile.
VICENZA 12, 13 ,14 SETTEMBRE. CITTÀ DELL’AMICIZIA FRA AMERICA E ITALIA O FRA ITALIA E AMERICA?
Cambia poco o cambia tutto?
Intanto leggetevi il volantino integrale della manifestazione del 13 settembre. Senza censure che trovate qui.
LA PRINCIPESSA DEL POPOLO: QUANDO IL MONDO SI FERMÒ
Era una notte qualunque di fine estate, quella del 31 agosto 1997.
L’Europa dormiva, ignara che di lì a poche ore avrebbe appreso una notizia destinata a segnare per sempre la storia contemporanea.
Lady Diana Spencer, la “Principessa del Popolo”, perdeva la vita in quello che le cronache ufficiali definirono un tragico incidente stradale nel tunnel del Pont de l’Alma a Parigi.
Eppure, a distanza di quasi trent’anni, quella morte continua a sollevare interrogativi inquietanti, domande che gli investigatori ufficiali hanno liquidato troppo frettolosamente, lasciando dietro di sé una scia di dubbi che ancora oggi alimenta teorie alternative e sospetti di macchinazioni.
L’EUROPA DEL 1997: UN MONDO SENZA SMARTPHONE E SOCIAL MEDIA
Per comprendere appieno l’impatto di quella tragedia, dobbiamo riavvolgere il nastro della storia.
Nell’agosto del 1997, il mondo viveva ancora in un’era pre-digitale.
Gli smartphone erano fantascienza e i primi telefoni cellulari rappresentavano un lusso per pochi. Internet muoveva i suoi primi passi, sconosciuto alla maggior parte della popolazione mondiale.
Era l’epoca delle radio che trasmettevano incessantemente le hit delle Spice Girls, dei bar affollati dove si discuteva di calciomercato, delle gesta atletiche di Michael Jordan, mentre il Tamagotchi rappresentava l’ultima frontiera tecnologica per i giovani. In questo scenario di apparente normalità, la notizia della morte di Diana esplose come una bomba.
Dalle 2:55 del 31 agosto, i notiziari di tutto il mondo iniziarono a diffondere comunicati frammentari e sempre più drammatici: “La Principessa Diana ha subito un grave incidente”, poi “Lady Diana è in condizioni critiche”, fino all’annuncio finale che spezzò il cuore di milioni di persone: “Diana Spencer è morta”.
LA TRAGEDIA DEL TUNNEL: RICOSTRUZIONE DI UNA NOTTE MALEDETTA
I fatti, almeno quelli ufficialmente accertati, parlano di un incidente avvenuto alle 00:23 del 31 agosto 1997.
Una Mercedes S280 blindata, con a bordo Diana Spencer, Dodi Al-Fayed, il conducente e un uomo della scorta, si schiantava contro il tredicesimo pilastro del tunnel dell’Alma a una velocità stimata di 105 chilometri orari.
Al volante c’era Henri Paul, vice responsabile della sicurezza dell’Hotel Ritz, affiancato dalla guardia del corpo Trevor Rees-Jones.
L’impatto fu devastante: Henri Paul e Dodi Al-Fayed morirono sul colpo, mentre Diana, trasportata d’urgenza all’ospedale Pitié-Salpêtrière, spirò alle 4 del mattino per arresto cardiaco causato da emorragie interne.
L’unico sopravvissuto fu Trevor Rees-Jones, che riportò gravi fratture craniche, ma non conservò alcuna memoria dell’incidente. Una circostanza, questa, che molti considerano quanto meno sospetta.
L’AMNESIA DI TREVOR REES-JONES: IL TESTIMONE CHE NON RICORDA NULLA
La perdita totale di memoria di Trevor Rees-Jones rappresenta uno degli aspetti più enigmatici dell’intera vicenda.
La guardia del corpo, unico superstite dello schianto, non ha mai recuperato neanche un frammento di ricordo relativo ai momenti cruciali dell’incidente. Un’amnesia completa che ha privato gli investigatori dell’unica testimonianza diretta disponibile su quanto realmente accadde in quegli istanti fatali.
Dal punto di vista medico, l’amnesia traumatica può certamente verificarsi in seguito a gravi traumi cranici, come quelli subiti da Rees-Jones, tuttavia, la completezza e la persistenza di questa perdita di memoria sollevano interrogativi legittimi.
Solitamente, anche nei casi di amnesia post-traumatica più severi, alcuni frammenti mnemonici tendono a riaffiorare col tempo, specialmente quando si tratta di eventi emotivamente tanto intensi.
La coincidenza che l’unico testimone oculare dell’incidente non abbia potuto fornire alcuna informazione utile alle indagini appare quantomeno sospetta.
Rees-Jones non ha mai ricordato nulla: la velocità dell’auto, eventuali manovre anomale, la presenza di altri veicoli, l’eventuale fascio di luce accecante descritto da altri testimoni.
È come se quella notte cruciale fosse stata completamente cancellata dalla sua mente.
Questa circostanza ha inevitabilmente alimentato le speculazioni di chi vede nell’incidente qualcosa di più di una tragica fatalità, perché, di fatto, l’amnesia di Rees-Jones ha blindato per sempre i segreti di quella corsa mortale, lasciando spazio solo alle ricostruzioni tecniche e alle testimonianze indirette, contraddittorie o ignorate dagli investigatori ufficiali.
LADY DIANA SPENCER: DALLA FAVOLA REALE ALLA RIBELLIONE
Per comprendere le possibili motivazioni di un eventuale complotto, è necessario ripercorrere la parabola esistenziale di Diana Spencer.
Nata in una famiglia aristocratica storicamente legata alla Corona britannica, acquisì il titolo di Lady nel 1975 quando il padre divenne Conte Spencer.
Il matrimonio con Carlo d’Inghilterra, il 29 luglio 1981, nella Cattedrale di St. Paul, rappresentò un evento mediatico planetario, seguito da oltre 750 milioni di telespettatori.
Era l’inizio del mito di Lady D, ma anche l’origine di una trasformazione che avrebbe scosso le fondamenta della monarchia britannica.
Dietro il fascino delle cerimonie pubbliche si nascondeva però una realtà coniugale travagliata, caratterizzata da infedeltà reciproche e incompatibilità caratteriali sempre più evidenti.
La separazione ufficiale avvenne nel 1996 e segnò un punto di non ritorno: Diana mantenne il titolo di Principessa del Galles, ma perse l’appellativo di “Altezza Reale”.
Questa apparente diminuzione del suo status sortì l’effetto contrario rispetto alle aspettative della Corona, poiché, liberata dai vincoli protocollari più stringenti, Diana intensificò il suo impegno umanitario, trasformandosi in un’icona della compassione e della modernità, diventando famosa in tutto il mondo.
Il suo approccio diretto e umano alle cause benefiche contrastava nettamente con il rigido formalismo tradizionale della Casa Reale e offuscava l’immagine della Regina.
IL MODELLO DIANA: UNA MONARCHIA ALTERNATIVA CHE PREOCCUPAVA BUCKINGHAM PALACE
La crescente popolarità di Diana presso l’opinione pubblica internazionale iniziò a rappresentare un problema serio per la monarchia.
I sondaggi dell’epoca mostravano come la Principessa del Popolo godesse di consensi superiori a quelli della Regina Elisabetta II e dello stesso Carlo, l’attuale Re.
Il suo modo di interpretare il ruolo regale, fatto di abbracci ai malati di AIDS, visite nei campi minati dell’Angola, battaglie contro la povertà nel mondo, delineava un modello di monarchia moderna e socialmente impegnata che metteva in ombra l’approccio più conservatore della famiglia reale.
Fonti dell’epoca riferiscono di crescenti tensioni all’interno di Buckingham Palace, dove il protagonismo di Diana veniva percepito come una minaccia all’autorità tradizionale della Corona, poiché la sua influenza mediatica e il suo carisma personale stavano ridefinendo il concetto stesso di regalità nell’immaginario collettivo britannico e mondiale.
LA RELAZIONE CON DODI AL-FAYED: ULTIMO CAPITOLO DI UNA VITA SOTTO I RIFLETTORI
Nell’estate del 1997, Diana aveva intrapreso una relazione con Dodi Al-Fayed, figlio del magnate Mohamed Al-Fayed, proprietario dei celebri magazzini Harrods di Londra.
Secondo Paul Burrell, storico maggiordomo della principessa, questa liaison rappresentava più un capriccio che un vero amore, utilizzato per suscitare la gelosia del chirurgo cardiaco pakistano Hasnat Khan, considerato il grande amore della sua vita.
Tuttavia, indipendentemente dalle vere motivazioni sentimentali, la relazione con Al-Fayed aveva implicazioni potenzialmente esplosive per la Corona britannica, perché l’idea che l’ex moglie dell’erede al trono potesse avere figli con un uomo di origini arabe ed egiziane rappresentava uno scenario inaccettabile per i vertici della monarchia.
La coppia aveva trascorso alcuni giorni di vacanza a bordo dello yacht di famiglia Al-Fayed nel Mediterraneo, insieme ai figli di Diana, William ed Harry. Il 30 agosto decisero di fare tappa a Parigi, alloggiando al Ritz, proprietà della famiglia Al-Fayed.
LA NOTTE DELL’INCIDENTE: DETTAGLI CHE NON CONVINCONO
La sera del 30 agosto, Diana e Dodi cenarono al Ritz ma, assediati dai paparazzi, decisero di trasferirsi in un appartamento privato della famiglia Al-Fayed, anche se non vi arrivarono mai.
La Mercedes S280 blindata lasciò l’hotel poco dopo la mezzanotte, guidata da Henri Paul e scortata da Trevor Rees-Jones.
L’obiettivo era raggiungere l’appartamento privato evitando l’assedio fotografico, ma la corsa si trasformò in una fuga ad alta velocità attraverso le strade parigine, apparentemente tallonati da alcuni paparazzi.
Nel tunnel del Pont de l’Alma, secondo la ricostruzione ufficiale, il veicolo perse il controllo a causa dell’alta velocità e del presunto stato di alterazione del conducente, schiantandosi contro il tredicesimo pilastro.
Tuttavia, si tratta di una versione che presenta numerose incongruenze tecniche e testimoniali.
LE INDAGINI UFFICIALI: TROPPE LACUNE PER ESSERE CASUALI
L’inchiesta francese, guidata dal giudice Hervé Stephan, si concentrò immediatamente sulla figura di Henri Paul, identificandolo come unico responsabile della tragedia. Gli esami tossicologici rivelarono un tasso alcolemico tre volte superiore al limite legale e la presenza di un cocktail di sostanze stupefacenti e farmaci antidepressivi nel suo sangue.
Questa conclusione sembrava perfetta per consentire agli investigatori di archiviare rapidamente il caso come incidente stradale causato da guida in stato di ebbrezza, evitando imbarazzanti approfondimenti su possibili responsabilità istituzionali.
Tuttavia, già dai primi giorni emersero elementi che contraddicevano la versione ufficiale.
Le telecamere di sorveglianza del Ritz mostravano Henri Paul nelle ore precedenti l’incidente: camminava normalmente, si chinava per allacciarsi le scarpe e conversava lucidamente con i colleghi. Comportamenti incompatibili con lo stato di grave alterazione descritto dall’autopsia.
HENRI PAUL: IL CAPRO ESPIATORIO PERFETTO?
La figura di Henri Paul rappresenta uno degli aspetti più controversi dell’intera vicenda. Secondo i colleghi dell’Hotel Ritz, era un professionista serio e affidabile, con una lunga esperienza nel settore della sicurezza VIP.
Claude Garrec, suo intimo amico, lo descriveva come una persona che non avrebbe mai bevuto durante il servizio.
Emerse anche un particolare inquietante: Paul collaborava saltuariamente con vari servizi di intelligence internazionali, una circostanza che potrebbe spiegare molte incongruenze.
Eppure, nonostante questi collegamenti fossero noti negli ambienti della sicurezza parigina, John Stevens, capo delle indagini britanniche, dichiarò di non aver trovato alcuna traccia di Henri Paul negli archivi dell’MI6.
Come è possibile che un uomo con accesso ai più alti livelli della sicurezza internazionale, responsabile della protezione di personalità del calibro della Principessa Diana, non risultasse in nessun database ufficiale dei servizi segreti britannici?
LA MERCEDES MALEDETTA: UN VEICOLO CON UN PASSATO OSCURO
Anche la Mercedes S280 utilizzata quella notte presenta aspetti inquietanti.
Il veicolo apparteneva alla flotta dell’Hotel Ritz, ma aveva una storia particolare: era stata precedentemente rubata e ritrovata completamente distrutta, ciononostante, invece di essere demolita, fu riparata e rivenduta alla società di noleggio dell’hotel.
Gli altri autisti della compagnia confermarono che l’auto presentava gravi problemi meccanici: non riusciva a mantenere stabilmente l’alta velocità e aveva difetti al sistema frenante.
“Nessuno di noi avrebbe superato gli 80 km/h con quella macchina”, dichiararono i colleghi di Henri Paul.
Se Paul era sobrio, come dimostrano i video di pochi minuti prima, e conosceva i limiti tecnici del veicolo, come si può spiegare l’accelerazione fino a 105 km/h?
Chi o cosa ha causato quella folle corsa verso la morte?
I TESTIMONI SCOMODI: VOCI CHE NESSUNO VOLLE SENTIRE
Diversi testimoni oculari riferirono di aver visto una Fiat bianca e una motocicletta affiancare la Mercedes poco prima dello schianto.
Alcuni parlarono di un fascio di luce accecante puntato verso il parabrezza dell’auto di Diana, ma queste testimonianze furono sistematicamente ignorate dagli investigatori.
Una fotografia scattata pochi istanti prima dell’impatto mostra Trevor Rees-Jones che abbassa il parasole, in piena notte, un gesto inspiegabile, a meno che non fosse necessario proteggersi da una fonte luminosa artificiale.
Richard Tomlinson, ex agente dei servizi segreti britannici, rivelò l’esistenza di tecniche operative che prevedevano l’uso di dispositivi laser per accecare i conducenti e provocare incidenti. Secondo le sue dichiarazioni, questa tattica era stata utilizzata più volte nei Balcani durante gli anni Novanta.
IL CASO JEAN-PAUL ANDANSON: MORTE SOSPETTA DI UN TESTIMONE CHIAVE
Le indagini identificarono i resti di vernice bianca e frammenti di fanale trovati sulla scena dell’incidente come appartenenti a una Fiat Uno bianca. Il proprietario del veicolo era Jean-Paul Andanson, un paparazzo che si vantava con gli amici di aver fotografato Diana ancora agonizzante nella Mercedes.
Stranamente, Andanson fece immediatamente riverniciare l’auto e la rivendette in tempi record.
Nel 2000, quando gli investigatori privati ingaggiati da Mohamed Al-Fayed tentarono di interrogarlo, lo trovarono carbonizzato nella sua nuova automobile, nella brughiera di Larzac.
Le chiavi del veicolo non furono mai ritrovate, circostanza che suggerisce chiaramente un omicidio.
Tuttavia, le autorità francesi archiviarono il caso come suicidio, ma come può un uomo raggiungere un luogo isolato in automobile e poi bruciare vivo nella stessa auto, senza lasciare traccia delle chiavi?
Di conseguenza, chi lo ha ucciso, perché e perché la polizia parla di suicidio?
LA LETTERA PROFETICA: DIANA AVEVA PREVISTO LA SUA MORTE?
Nel 2003, Paul Burrell pubblicò il libro “A Royal Duty”, rivelando l’esistenza di una lettera scritta da Diana nell’ottobre 1996.
Nel documento, la principessa confessava di essere venuta a conoscenza di un piano per eliminarla attraverso un “incidente” automobilistico causato da manomissioni ai freni della sua auto.
Una coincidenza alquanto sospetta.
La lettera, che non è mai stata ufficialmente smentita, conteneva anche il nome della persona che secondo Diana avrebbe orchestrato il complotto.
Un documento che rappresenta una prova documentale inquietante che gli investigatori ufficiali hanno preferito non approfondire.
Perché?
IL SOLDATO N: IL KILLER FANTASMA DEI SERVIZI SPECIALI
Sue Reid, giornalista investigativa del Daily Mail, ha condotto per anni inchieste parallele sulla morte di Diana, identificando in un membro anonimo del SAS (Special Air Service) britannico, soprannominato “Soldato N”, il possibile esecutore materiale dell’omicidio.
Secondo fonti riservate all’interno dei servizi speciali britannici, esisterebbe un sistema informale che permetterebbe di indicare “bersagli” da eliminare e di richiedere compensi non tracciabili per l’esecuzione di operazioni clandestine. Una sorta di mercato nero della morte sponsorizzato dallo stato.
Il “Soldato N” avrebbe utilizzato dispositivi laser militari per accecare Henri Paul, causando la perdita di controllo del veicolo. Una tecnica sofisticata che spiegherebbe sia il parasole abbassato da Rees-Jones sia i racconti dei testimoni oculari sulla luce accecante.
L’IMPIANTO FRENANTE MANOMESSO: PROVE INSABBIATE
Gli investigatori ufficiali incaricarono un esperto di esaminare il sistema frenante della Mercedes, ma i risultati di questa perizia non furono mai resi pubblici, sebbene l’esperto consegnò le sue conclusioni, in cui riscontrò difetti e componenti mancanti che suggerivano una possibile manomissione.
Ma, stranamente, non fu mai chiamato a testimoniare durante il processo.
Anche l’analisi delle suole delle scarpe di Henri Paul, che avrebbe potuto chiarire se avesse effettivamente tentato una frenata d’emergenza, non fu mai eseguita.
Omissioni investigative che appaiono incomprensibili in un’inchiesta su un caso di tale rilevanza internazionale.
I POSSIBILI MANDANTI: CHI AVEVA INTERESSE CHE DIANA MORISSE?
Se accettiamo l’ipotesi che la morte di Diana non sia stata accidentale, allora dobbiamo identificare i possibili mandanti, ed è ovvio che i primi sospetti ricadano principalmente sulla Casa Reale britannica, che vedeva nella ex principessa una minaccia crescente alla stabilità istituzionale della monarchia.
Carlo d’Inghilterra, liberato dall’ingombrante presenza dell’ex moglie, poteva finalmente sposare Camilla Parker-Bowles senza subire il confronto impietoso con il carisma di Diana.
La Corona recuperava il controllo narrativo sulla famiglia reale, eliminando una voce critica sempre più influente.
Sempre più scomoda.
L’eventualità che Diana potesse avere altri figli, magari con Dodi Al-Fayed o con Hasnat Khan, rappresentava uno scenario inaccettabile per l’establishment britannico.
Figli mezzosangue dell’ex moglie del futuro Re avrebbero complicato ulteriormente i rapporti tra monarchia e opinione pubblica.
IL BILDERBERG GROUP: UN PONTE ECONOMICO-FINANZIARIO
Un altro possibile movente riguarda le attività umanitarie di Diana, che contrastavano con gli interessi di potenti lobby internazionali.
La principessa si era schierata attivamente contro il commercio delle armi, le mine antiuomo e lo sfruttamento del Terzo Mondo.
Numerosi membri della famiglia reale britannica, incluso Carlo, mantengono stretti legami con il Bilderberg Group, organizzazione che riunisce le élite economiche e politiche occidentali, ma gli ideali di giustizia sociale promossi da Diana erano in aperto contrasto con gli obiettivi di questo influente network di potere.
La sua crescente influenza mediatica e il suo impegno per cause umanitarie “scomode” potevano rappresentare un ostacolo per piani economici e geopolitici di più ampio respiro.
Diana non era solo una principessa ribelle, ma stava diventando un simbolo globale di opposizione al sistema neoliberista dominante.
ANALOGIE STORICHE: IL PRECEDENTE DEL DUCA DI KENT
Un particolare inquietante si trova nei registri storici della Casa Reale: anche il Duca di Kent, nel 1942, morì in circostanze misteriose durante un incidente aereo. Come Diana, anche lui aveva assunto posizioni considerate “problematiche” dall’establishment dell’epoca.
Entrambi i decessi avvennero nel mese di agosto, entrambe le figure erano membri della famiglia reale che si erano discostati dalla linea ufficiale della Corona.
Una coincidenza? Forse. Ma la storia insegna che certe circostanze non sono mai casuali quando riguardano i vertici del potere.
HENRI PAUL: L’UNICO COLPEVOLE CHE NON PUÒ DIFENDERSI
A oltre venticinque anni di distanza, Henri Paul rimane l’unico accusato ufficiale della morte di Diana Spencer.
Un capro espiatorio perfetto: morto nell’incidente, impossibilitato a fornire la sua versione dei fatti, con un passato nel mondo dell’intelligence che permetteva di giustificare ogni incongruenza come “segreto di stato”.
Dunque, la versione ufficiale parla di fatalità, di un conducente ubriaco e drogato che perse il controllo del veicolo mentre fuggiva dai paparazzi. Una spiegazione comoda che evita domande imbarazzanti su possibili responsabilità istituzionali o servizi deviati.
LA VERITÀ SEPOLTA: QUANDO IL SILENZIO DIVENTA COMPLICE
La morte di Lady Diana rappresenta uno dei momenti più iconici nella storia contemporanea, non solo per l’impatto emotivo che ebbe su milioni di persone in tutto il mondo, ma anche per le inquietanti zone d’ombra che ancora oggi circondano quella tragica notte parigina.
Le incongruenze investigative, i testimoni ignorati, le prove insabbiate, i possibili moventi politici ed economici delineano un quadro che trascende la semplice fatalità.
Diana Spencer potrebbe essere stata vittima di un complotto che affonda le radici nei meccanismi più oscuri del potere contemporaneo.
I morti, come diceva qualcuno, non possono raccontare la propria verità, ma i vivi hanno il dovere morale di continuare a fare domande, di non accontentarsi di risposte preconfezionate, di pretendere trasparenza quando si tratta della morte di una donna che aveva dedicato la sua vita alla giustizia e alla compassione.
La Principessa del Popolo merita di più di una Mercedes schiantata contro un pilastro e di un autista ubriaco.
Merita che la verità, tutta la verità, venga finalmente alla luce. Anche se questa verità dovesse scuotere le fondamenta di istituzioni che molti considerano intoccabili.
Perché Diana Spencer non era solo una principessa. Era un simbolo di speranza per milioni di diseredati in tutto il mondo.
E i simboli, quando diventano troppo potenti, possono diventare pericolosi per chi detiene il vero potere. Anche a costo di eliminarli fisicamente.
La verità su quella notte di agosto del 1997 potrebbe essere molto più scomoda di quanto l’opinione pubblica sia preparata ad accettare. Ma Diana se la merita.
LA PARALISI DEL CONSENSO: MIGLIAIA IN STRADA CONTRO NETANYAHU
Migliaia di manifestanti bloccano autostrade, paralizzano aeroporti, assediano la residenza del primo ministro, e non sono pacifisti di professione o attivisti per i diritti umani.
Sono famiglie disperate che chiedono una cosa semplice, una cosa che il governo israeliano non è riuscito a fare, scegliendo l’odio anziché la diplomazia: riportare a casa i loro cari ancora prigionieri di Hamas.
Quando le élite politiche perdono il controllo della narrazione, la strada diventa l’ultimo tribunale del popolo e Netanyahu, dopo quasi due anni di crimini di guerra, pur senza vittorie decisive, sta scoprendo che anche la società israeliana ha i suoi limiti di sopportazione.
IL CALCOLO CINICO DELLA POLITICA: OSTAGGI COME PEDINE
L’accusa dei manifestanti non potrebbe essere più diretta: Netanyahu ha sacrificato la vita dei prigionieri per ragioni politiche, per tenere in vita una coalizione traballante.
D’altro canto, sono settimane che il presidente israeliano sostiene che, anche nel caso di liberazione degli ostaggi, l’avanzata dell’esercito non si placherebbe, dimostrando che a Netanyahu non è mai interessato liberare gli ostaggi, ma li ha semplicemente usati per i suoi scopi politici e di conquista.
Sono almeno vent’anni che pontifica di aggredire Gaza, così come sulla bomba atomica dell’Iran.
Unendo i “puntini” emerge sempre più la necessità di scavare a fondo nella vicenda del 7 ottobre, ancora satura di ombre e di non detti, per scoprire il ruolo dell’attuale governo israeliano nell’attentato.
Perché è poco credibile che il Mossad, uno dei migliori servizi d’intelligence al mondo, capace di orchestrare persino delitti mirati in paesi sovrani, sia arrivato a conoscere cosa aveva in mente Hamas solo a cose fatte, dopo altre agenzie e perfino dopo qualche giornalista.
Ma torniamo a oggi.
I numeri parlano chiaro e sono impietosi.
Duecentocinquanta rapiti il 7 ottobre 2023. Centoquaranta liberati tramite negoziati, otto salvati militarmente, cinquantasette corpi recuperati.
Restano una ventina di ostaggi vivi e almeno ventotto cadaveri nelle mani di Hamas. Ogni cifra rappresenta una famiglia distrutta, una speranza che si spegne, un governo che ha fallito nel suo dovere primario di proteggere i cittadini.
Ma i numeri parlano anche di oltre 62000 civili uccisi, di cui almeno 18000 sarebbero bambini e tra i quali ci sono anche centinaia di giornalisti.
L’ARTE DELL’EQUILIBRISMO POLITICO: TRA PIAZZA E KNESSET
Netanyahu si trova schiacciato in una morsa: da una parte la piazza che urla “basta”, dall’altra i partiti di estrema destra pronti a far cadere il governo se firmerà qualsiasi accordo con Hamas.
È il classico dilemma dei dittatori: mantenere il potere o servire il popolo?
La pressione internazionale si intensifica.
Emmanuel Macron scrive lettere diplomatiche che suonano come ultimatum, Qatar, Stati Uniti ed Egitto aspettano risposte che non arrivano, anche se sembrano teatrini messi in scena per soddisfare l’indignazione dei popoli e non certo azioni diplomatiche degne di nota.
Hamas ha accettato la proposta di cessate il fuoco, ma Israele tentenna, dimostrando il paradosso geopolitico per cui i “terroristi” sembrano più ragionevoli del governo da noi definito “democratico”.
LA STRATEGIA DEL DOPPIO BINARIO: GUERRA E NEGOZIATI
Mentre le famiglie manifestano, l’esercito israeliano riceve ordini per accelerare l’offensiva terrestre su Gaza City, nel più classico dei doppi binari, per cui si negozia con una mano e si bombarda con l’altra.
Strategia che funziona nei manuali militari, meno nella realtà dove ogni bomba uccide la possibilità di un accordo.
IL GENOCIDIO DEI TESTIMONI. QUANDO I GIORNALISTI DIVENTANO BERSAGLI
L’eliminazione sistematica dei giornalisti a Gaza è un altro elemento che rende i crimini di Netanyahu ben altra cosa rispetto alla guerra in Ucraina.
Oltre 240 morti dall’inizio del conflitto. Alcune fonti parlano di oltre 300. Più che in tutte le guerre del Novecento messe insieme.
Definire questi atti figli di un Paese democratico è illogico.
L’ultimo massacro all’ospedale Nasser, dove cinque giornalisti sono stati uccisi mentre documentavano la verità, i fatti, la realtà, ciò che certi colleghi italiani tentano di celare, revisionare, perfino negare.
Hussam al-Masri stava trasmettendo in diretta quando è stato bombardato dall’esercito israeliano.
LA LETTERA DI MARIAM: QUANDO LA VERITÀ COSTA LA VITA
Mariam Abu Daqqa, una dei cinque giornalisti ammazzati l’altro giorno dall’esercito israeliano, aveva scritto una lettera testamento al figlio dodicenne, sapendo di avere un mirino puntato alla testa, visto che il mondo restava in silenzio di fronte alle atrocità commesse dal governo Netanyahu.
“Ghaith, cuore e anima di tua madre, sei tu. Ti chiedo di non piangere per me, ma di pregare per me così che io possa restare serena. Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio. Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me. Tu sei il mio amore, il mio cuore, il mio sostegno, la mia anima e mio figlio. Colui che mi fa alzare la testa con orgoglio. Sii sempre felice e conserva una buona reputazione. Ti prego, Ghith: la tua preghiera, poi ancora la tua preghiera, e poi ancora la tua preghiera.”.
Mariam Abu Daqqa – uccisa dall’esercito israeliano
Parole che squarciano il velo dell’indifferenza.
Leggendole, viene da chiedersi se l’amore di questa madre per suo figlio non fosse identico a quello delle mamme di Auschwitz, in fila verso le camere a gas.
Mariam Abu Daqqa sapeva che raccontare la verità su Gaza equivaleva a una condanna a morte, ma a continuato comunque.
Questo è giornalismo, raccontare la verità anche a rischio della tua vita. Il resto è propaganda.
Le scuse dell’esercito israeliano sono patetiche: “danni collaterali”, “obiettivi non intenzionali”.
Fosse stato un caso isolato, come accaduto, per esempio, in Ucraina, e dove pure si è inveito contro la Russia, sarebbe credibile, ma Israele ha raso al suolo diversi ospedali e ha preso di mira più volte ambulanze e auto mediche, dichiarando che lo fa perché lì si nascondono i terroristi.
Un po’ come se, dopo le stragi del ’92, l’esercito italiano avesse bombardato i quartieri di Palermo perché era lì che si nascondevano i mafiosi.
Bombardare ospedali resta un crimine di guerra, anche quando lo si fa “per sbaglio” o perché si usano i civili come scudi umani. E, soprattutto, quando lo “sbaglio” si ripete 240 volte, diventa sistema. Diventa scelta strategica.
Diventa crimine contro l’umanità, senza se e senza ma.
L’ANATOMIA DEL CONSENSO IN CRISI: ANALISI SOCIOLOGICA
Dal punto di vista sociologico, assistiamo alla classica erosione del consenso che precede le grandi crisi politiche. Il contratto sociale israeliano si basava sull’assunto di sicurezza in cambio di libertà.
Ma quando la sicurezza non viene garantita e la libertà si trasforma in licenza di uccidere, il patto si rompe.
Le manifestazioni israeliane non sono episodi isolati, ma rappresentano la punta dell’iceberg di una società che inizia a interrogarsi su ciò che fino a ieri era narrazione intoccabile.
Sebbene io non escluda che qualche “genio” di casa nostra possa parlare di antisemitismo anche in questo caso.
LA SINDROME DEL BUNKER: NETANYAHU E L’ISOLAMENTO DEL POTERE
Netanyahu mostra tutti i sintomi della “sindrome del bunker”: isolamento crescente, percezione distorta della realtà, incapacità di leggere i segnali sociali, odio e arroganza.
Classico degli autocrati che confondono il silenzio del terrore con il consenso popolare.
La coalizione israeliana si regge su equilibri sempre più precari.
I partiti religiosi e di estrema destra ricattano quotidianamente il premier, minacciando la caduta del governo a ogni accenno di compromesso, cosa che dimostra in maniera inequivocabile quanto la democrazia sia ostaggio degli estremisti.
LA COMPLICITÀ INTERNAZIONALE: L’OCCIDENTE VEDE SOLO LA RUSSIA.
Ma il vero scandalo è la complicità internazionale.
Stati Uniti ed Europa continuano a fornire armi agli aggressori israeliani mentre fingono di chiedere moderazione e mentre sanzionano la Russia e forniscono armi all’Ucraina.
Ipocrisia geopolitica allo stato puro: si deplora pubblicamente quello che si finanzia privatamente in Medio Oriente, ma si fa l’esatto contrario in Ucraina.
Francesca Albanese, relatrice Onu, implora sanzioni ed embargo militare, ma resta una voce che grida nel deserto di una diplomazia sorda e complice e, addirittura, viene sanzionata con minacce e ripicche che ricordano metodi mafiosi, per essersi permessa di denunciare crimini, colpevoli e complici.
Perché ammettere il genocidio significherebbe ammettere la propria complicità. Cosa che, tuttavia, è evidente a chiunque abbia ancora un briciolo di dignità umana.
I NUMERI DELL’ORRORE: 62MILA MORTI NON SONO STATISTICA
Oltre 62mila morti a Gaza, l’83% civili, secondo i dati dell’esercito israeliano pubblicati dal Guardian.
Cifre che sfuggono alla comprensione umana.
Stalin diceva che una morte è una tragedia, un milione è statistica. A Gaza siamo oltre la statistica, siamo nell’abisso morale a cui i nostri leader europei partecipano con un silenzio complice.
VERSO LA “SOLUZIONE FINALE”: LE PAROLE DI SMOTRICH
Bezalel Smotrich, ministro israeliano, ha detto ai vertici militari: “Potete assediarli, non permettete a nessuno di restare. Senza acqua, senza elettricità, possono morire di fame o arrendersi”.
Parole che riecheggiano fantasmi nazisti che l’Europa pensava di aver sepolto per sempre.
Parole che sono criminali, ma che qualche giornalista di casa nostra riporta come “democratiche” e da contestualizzare, in quel mondo dispotico, in stile orwelliano, in cui stiamo scivolando sempre più.
La “soluzione finale” per Gaza è iniziata: deportazione verso sud, segregazione in campi di concentramento a cielo aperto.
Il linguaggio conta, le parole feriscono, la Storia giudica, ma i nostri leader sembrano incapaci – o del tutto consapevoli, ma, allora, complici – di accorgersi che il nazismo è tornato in tutta la sua drammatica evidenza.
IL PREZZO DELLA VERITÀ IN TEMPO DI GUERRA
Le proteste israeliane rappresentano molto più di una rivolta contro Netanyahu. Sono il sintomo di una società che inizia a fare i conti con l’inaccettabile, con la verità celata per troppo tempo dalla menzogna.
Quando i cittadini scendono in piazza per chiedere la pace, significa che la propaganda di guerra ha fallito.
Ma la vera battaglia si combatte tra chi vuole documentare la verità e chi preferisce eliminarla insieme ai testimoni.
A Gaza, impugnare una telecamera è diventato più pericoloso che imbracciare un fucile. Perché le immagini uccidono più delle bombe: distruggono narrazioni, smascherano menzogne, rivelano la barbarie sotto la patina della civiltà.
E smontano la narrazione dello Stato democratico e dell’antisemitismo.
Questo è nazismo. Punto.
La lettera di Mariam Abu Daqqa al figlio Ghaith resterà nella Storia come testimonianza di un’epoca che ha scelto il silenzio di fronte al nazismo, anziché combatterlo.
Mentre in Occidente ci indigniamo per i giornalisti arrestati in Russia, a Gaza gli israeliani li uccidono direttamente, ma, al di là di qualche post indignato, nessuna sanzione, nessun ammonimento, nessuna arma agli aggrediti. Anzi, le armi continuiamo a venderle agli aggressori.
Almeno Putin ha il pudore di usare le manette, e noi sanzioniamo, ma Israele usa le bombe e noi non facciamo nulla.
Il consenso di Netanyahu si sgretola, la piazza israeliana si ribella, l’Occidente finge di non vedere ed etichetta chiunque apra gli occhi come antisemita.
Ma la Storia vede tutto, registra ogni crimine, giudica ogni complicità. E quando il sipario calerà su questa tragedia senza fine, nessuno potrà dire “non sapevo”.
La diatriba scatenata dalle parole del ministro Salvini hanno scaldato gli animi del presidente francese, che in patria è sempre più isolato, perciò è costretto a dedicare anima e corpo alla politica estera per mantenere alto il suo ego.
Salvini gli ha praticamente detto che, se proprio vuole andare in guerra, che vada lui al fronte.
Certamente, avrebbe potuto usare parole più consone a un ruolo istituzionale, ma il leader della Lega ha più volte dimostrato di non essere un campione di Comunicazione e Relazioni internazionali.
Tuttavia, il concetto espresso da Salvini è condiviso dalla quasi totalità degli italiani, e sono convinto che anche tanti interventisti da tastiera, che applaudono ad armi e sanzioni, qualora arrivasse il precetto militare per sé o per i figli, si provocherebbero gravi lesioni pur di non partire.
MA DAVVERO MACRON SE L’È PRESA PER IL TRAM?
Macron, si sa, ha un ego elevatissimo, come dimostra in ogni occasione, pur senza ottenere un grande successo.
Ma la politica è un palcoscenico dove si recita una commedia per distrarre il pubblico dal vero dramma che si consuma in platea e l’ultima, scomposta, reazione di Emmanuel Macron alle colorite esternazioni di Matteo Salvini – il cui invito ad attaccarsi “al tram” suona più da spogliatoio che da ministero – ne è la prova lampante.
Il presidente francese, con un’opposizione interna che avanza e un popolo che lo ripudia, ha bisogno di un nemico esterno per restare a galla, un cattivo da additare per distogliere l’attenzione dai suoi fallimenti politici.
Salvini gli ha offerto un assist.
Ma la verità, quella nuda e cruda che i numeri raccontano senza sconti per nessuno, è un’altra e afferma che Macron non ci attacca perché ci disprezza, ma perché, per la prima volta dopo decenni, ci teme.
NON È GEOPOLITICA, È PSICOLOGIA. L’EGO FERITO DI UNA POTENZA IN DECLINO
Salvini, si sa, non è un maestro di diplomazia.
Avrebbe potuto imbastire una nota formale o un comunicato per sostenere che l’Italia ripudia la guerra e sta già andando ben oltre i dettami costituzionali con il caso Ucraina.
Avrebbe potuto usare un linguaggio degno di un ruolo istituzionale, invece ha scelto la ruvidezza dell’uomo di piazza, tuttavia, al di là dei limiti del personaggio, proviamo a non perdere tempo a fissare il dito e osserviamo il firmamento della sostanza.
Il concetto espresso da Salvini tocca un nervo scoperto che ogni italiano, nel suo intimo, percepisce come vero: l’Italia e gli italiani ripudiano la guerra. E se Macron non vede l’ora di partire, che si arruoli pure, o mandi i suoi giovani.
Ma Macron polemizza per ben altra ragione.
Polemizza perché vede sfumare l’egemonia francese sul Vecchio Continente, un’egemonia culturale, economica e militare data per scontata per generazioni, ma che oggi vacilla.
IL SORPASSO ITALIANO NEI FATTI, NON NELLE PAROLE
La retorica si combatte con i dati. E qui la Francia perde a mani basse.
IL DEVASTANTE DIVARIO COMMERCIALE ITALIA-FRANCIA
Nel 2023, l’Italia ha chiuso con un avanzo commerciale record di oltre 36 miliardi di euro. La Francia, ex locomotiva d’Europa, ha registrato un deficit mostruoso, di quasi 100 miliardi.
Mentre noi produciamo ed esportiamo, loro consumano e importano.
Nel settore energetico, la strategia di ENI è un caso studio in tutte le business school del mondo.
Concessionarie in Mozambico, gasdotto EastMed, accordi in Algeria e Libia… ENI naviga da padrona nel Mediterraneo, mentre la francese TotalEnergies arranca, intrappolata in margini ridotti e difficoltà a competere a livello internazionale.
E no, non è un caso che sia una delle aziende con forti interessi in Ucraina. Non è un caso nemmeno che Macron sia così a favore della guerra.
MANIFATTURA E LUSSO, IL MADE IN ITALY TRIONFA IN BORSA
Il miracolo silenzioso è la nostra manifattura, che vale il 20% del PIL, il doppio di quella francese, tuttavia è nel tempio del capitalismo, la Borsa, che il verdetto è impietoso.
I colossi del lusso italiano, come Ferrari, Moncler, Armani.., surclassano per valutazioni e moltiplicatori i giganti d’Oltralpe e il mondo è disposto a pagare il premium price per il sogno italiano, mentre quello francese stanca e/o arranca.
I MERCATI TEMONO PIÙ PARIGI DI ROMA
E questo è il dato più umiliante per Parigi.
L’Italia, con un debito pubblico mostruoso, che ha sfondato i 3000 miliardi con il governo Meloni, mantiene uno spread stabile, tra 110 e 145 punti base, perché l’economia produce, cresce ed esporta.
La Francia, che ha sempre pontificato sui nostri conti, rischia di chiudere il 2025 con un debito superiore a 3.340 miliardi di euro, oltre il 115% del PIL.
Leonardo, che ha superato Dassault per valore complessivo e ordini acquisiti, ha chiuso il primo semestre 2025 con ordini pari a circa 11,2 miliardi di euro, con + 9,7% sugli ordini e + 12,9% sui ricavi, rispetto allo stesso periodo del 2024, raggiungendo un portafoglio ordini complessivo di circa 45-46 miliardi di euro.
I mercati, quei mercati spietati che Macron ama citare spesso, stanno dicendo che, oggi, il rischio default è più concreto a Parigi che a Roma.
La “croissant-economy” ha le ore contate, perciò Macron è così nervoso.
Ma il vero, grandissimo, nervo scoperto di Macron è la perdita dell’“Africa Francese”.
Per decenni, Parigi ha trattato il continente come il suo cortile di casa, un serbatoio di risorse e un mercato per i suoi prodotti.
Oggi, la pragmatica diplomazia italiana, fatta di investimenti, partnership paritarie, energia e infrastrutture, sta scalzando la presenza coloniale francese.
Ogni accordo firmato da Roma in Algeria, in Libia, in Mozambico, è una pugnalata al cuore di un modello di egemonia obsoleto, ancora legato all’epoca coloniale degli imperi.
Macron polemizza sull’immigrazione e sulla Libia perché vede sfumare il suo ultimo, grande, giardino di casa, il che si traduce in perdite di leadership, economiche, industriali, e di peso politico.
LA PAURA DI MACRON È UN’AMMISSIONE DI DEBOLEZZA
Macron non inveisce contro l’Italia per le parole di Salvini, ma perché l’Italia non è quella che vorrebbe. Non solo perché non segue la sua linea bellicista, ma anche, e soprattutto, perché è un competitor commerciale più forte del previsto.
Non è questione di Salvini, o di Meloni, o di chiunque sia al governo. È questione di trend. Di forza economica. Di visione.
Macron ci attacca perché non sa più come competere sul campo. Usa la retorica perché i numeri non gliela danno vinta, né a livello economico e nemmeno in Ucraina.
Il suo “treno dei volenterosi” è inconsistente contro la Russia, che sta vincendo in Ucraina; il suo partito è stato preso a calci nelle ultime elezioni, dove i francesi hanno votato per estrema destra ed estrema sinistra pur di non votare per Macron.
E l’Africa sta scappando da Parigi.
Perciò, il suo nervosismo non è per Salvini, ma per la sua lenta caduta.
La vera notizia, dunque, non è che la Francia ci detesta, ma che, finalmente, ci teme. E quando un avversario che ha paura comincia a offendere, significa che ha già perso metà della partita.
È uno spettacolo che solo l’Italia poteva offrire.
Surreale, persino fantozziano.
Il boia, dopo aver affilato la mannaia e averla utilizzata con metodo sull’industria italiana, si presenta al meeting di Rimini per divulgare i risultati dell’autopsia eseguita sul cadavere.
Per spiegarci, con la pacatezza del professore, come e perché sia morto.
Stiamo parlando, ovviamente, di Mario Draghi. “Super” come lo definiscono in tanti, quelli che a ogni bugia applaudono come avesse parlato l’oracolo.
Dopo mesi di lontananza dalla scena politica, degna dei migliori latitanti, l’ex Presidente del Consiglio e della BCE ha deciso di graziarci con la sua analisi sulla politica estera europea, dicendo cose di cui scriviamo da tempo e con un ritardo di tre anni. Un’inezia.
Come commentare il perché di una disfatta alla prima di campionato solo a campionato concluso.
La critica di Draghi, in sé, è anche condivisibile, sebbene scontata e comprensibile già anni fa a chi non fosse “super”.
L’Europa è marginale e goffa. Un nano geopolitico che si illude di essere un gigante.
Ma il vero problema non è la diagnosi, ma è il medico. Draghi che critica la creatura che ha contribuito a inventare è come un piromane che tenesse una conferenza sulla prevenzione antincendio.
Da quale pulpito viene la predica?!
L’ARCHITETTO DEL DECLINO ORA NE SPIEGA LE RAGIONI
L’impietosa analisi di Draghi svilisce le competenze di Ursula von der Leyen e Josep Borrell.
Giusto.
Ma qualsiasi imprenditore che si ritrova a pagare bollette alle stelle per le scelte di politica estera e qualsiasi concessionario d’auto che non vende per colpa delle politiche green dicono la stessa cosa già dal 2020.
Inoltre, l’analisi viene proprio da chi, da Presidente del Consiglio, ha operato per la progressiva marginalità dell’Ue.
Ha scelto ministri degli Esteri per appartenenza politica, non per competenza. Si ricordi un certo Luigi Di Maio, capolavoro di meritocrazia.
Ha sempre e comunque sostenuto la deriva ideologica più folle: il Green Deal. Quella colossale operazione di decarbonizzazione che, nella sua irrealizzabilità dogmatica, sta conducendo l’Europa al suo suicidio industriale.
Draghi ha cooperato, deliberatamente, alla distruzione del settore industriale europeo. In primis l’automotive. Anche se il suo capolavoro lo firmò da direttore generale del Tesoro.
Era il 1992. Luglio 1992.
Mentre il finanziere George Soros speculava sulla lira e sulla sterlina, il governo Amato, in cui Draghi era braccio destro operativo – decise di smantellare l’Italia in un mese.
L’11 luglio, il decreto per la privatizzazione dell’intero sistema produttivo pubblico. Diede il via allo smantellamento metodico e alla svendita del Paese a multinazionali straniere.
Il colpo di grazia arrivò il 31 luglio, con l’accordo con i sindacati che piegò la testa dei lavoratori: abolizione della scala mobile, blocco dei contratti, precarietà, taglio delle pensioni.
Da lì, i salari italiani iniziarono una caduta libera che non si è più fermata.
L’Italia di oggi è stata programmata in quel luglio 1992.
LA CURA DRAGHI PER L’EUROPA: PIÙ TECNOCRAZIA PER CURARE I MALI DELLA TECNOCRAZIA
Il colmo dei colmi è, però la perfezione della circonvoluzione retorica di Mario Draghi, perché la sua ricetta per guarire l’Europa dai malanni causati dalla tecnocrazia è una super-dose dello stesso veleno: più Europa.
Più integrazione. Più tecnocrazia. Più debito comune, ovviamente non gestito dai governi, ma da super tecnici. Come lui.
Cioè, è come se un pilota d’aerei incapace, dopo l’ennesimo disastro causato si candidasse a diventare il pilota dell’anno.
L’ha detto senza pudore: il 2025 sarà l’anno in cui è evaporata l’illusione che la dimensione economica dell’Ue – 450 milioni di consumatori – si traducesse in potere geopolitico.
Vero. Verissimo. Ne scrivo da sempre. E da sempre mi davano del complottista.
Ed è stato proprio l’asse franco-tedesco, di cui Draghi è sempre stato il miglior allievo, a svendere la sovranità industriale europea alla Cina in nome del libero scambio e del dogma globalista, come sostenevo, insieme a tanti altri “complottisti”.
La Germania ha delocalizzato tecnologie e produzioni in Estremo Oriente, facendo la fortuna dei suoi bilanci aziendali e il deserto strategico del continente. E Draghi, allora, dov’era?
Al Tesoro, in BCE, a Palazzo Chigi. A firmare decreti e a sostenere le politiche che ci hanno portato qui, a elencare i mali dell’Europa prodotti proprio da Draghi e dai suoi colleghi burocrati.
Ora ci dice che il mondo è cambiato. Ma dai?!
Che Trump è una “sveglia brutale”. Che Putin tratta direttamente con Washington, saltando a piè pari un’Europa che non conta nulla, come dimostrano le chiacchiere sull’Artico e l’Alaska.
E ha ragione, Draghi. E gli dico, era ora! Le cose che ha detto a Rimini le dico da una dozzina d’anni.
Ma la soluzione proposta da Draghi è agghiacciante: “stringiamoci tutti insieme”.
In che modo? Sotto che bandiera? Quella della stessa Unione che ha calpestato i valori che dice di difendere?!
Poi li calpesta con la prossima frase. “Lo scetticismo dei cittadini”, dice, “non è verso questi valori, ma verso la capacità dell’Ue di difenderli.”
FALSO. È proprio l’Ue ad averli sistematicamente violati.
Dov’era la democrazia quando la Troika ha massacrato la Grecia per derubarla dei suoi asset migliori?
Dov’è la libertà quando i tribunali rumeni annullano elezioni e alti funzionari Ue se ne rallegrano, come ha denunciato J.D. Vance?
Dov’è la sovranità quando la Commissione di Bruxelles impone diktat su migranti, green pass o motori a scoppio senza che nessuno li abbia votati?
Quando in Francia e Germania si minaccia di vietare partiti scomodi con il ricorso a pratiche da Stasi?
Draghi vede lo scetticismo ma non ne vede la causa: l’Ue è un mostro tecnocratico e antidemocratico.
E la sua ricetta è renderlo più forte, più integrato, più verticale.
È la soluzione di chi ha creato il problema e ora chiede più poteri per risolverlo.
“Distruggere l’integrazione europea per tornare alla sovranità nazionale non farebbe altro che esporci ancor di più”, sentenzia.
Per Mario Draghi, l’unica salvezza è la prigione in cui già ci troviamo.
“Abbandonate ogni velleità di autodeterminazione.”
La sua è una candidatura palese. Si propone come guida di questa nuova, iper-tecnocratica, super-verticalizzata Unione Europea. Il farmaco che propone per curare i mali della tecnocrazia è più tecnocrazia. Amministrata da lui, o da qualcuno come lui.
Ma la vera risposta, quella che Draghi non darà mai, è un’altra.
L’unico modo per “cambiare marcia e anche direzione” è mettere da parte il Trattato di Maastricht e i suoi derivati, per aprire una fase costituente che cancelli l’attuale mostro burocratico e restituisca la sovranità ai popoli, in una confederazione di nazioni libere e cooperanti o, semplicemente, tornare alla CEE.
Tutto il resto, compresi i discorsi a Rimini, le analisi sull’irrilevanza, le invocazioni al “debito comune”, è il gioco delle tre carte di un tecnocrate che vuole eternare il sistema che lo ha reso potente.
I colpevoli non solo spiegano il delitto. Si offrono anche come giudici e giustizieri.
IL MONDO ALLA ROVESCIA: I COLPEVOLI SPIEGANO IL DELITTO
Draghi, il motore politico della transizione da potenza industriale a economia del turismo, ci spiega i danni della dipendenza dalla Cina.
Draghi, il sostenitore delle sanzioni “dirompenti” contro la Russia – una balla colossale smontata dai fatti – ci parla di inefficacia della politica estera Ue.
Draghi, l’uomo del “volete la pace o il condizionatore?”, che azzerò ogni spazio per una diplomazia, ora sembra averlo scoperto.
Il suo endorsement al folle piano da 800 miliardi per il riarmo europeo, finanziato tagliando del 20% i fondi all’agricoltura, è la ciliegina sulla torta. Proprio ora che il trattato Mercosur esporrà i nostri agricoltori alla concorrenza sleale del Sud America.
È il trionfo dell’ideologia sulla competenza. La stessa che lo ha portato a mentire spudoratamente sui green pass “servono a creare luoghi sicuri” e a descrivere sanzioni autolesioniste come un’arma micidiale.
In Italia, e ora in Europa, gli architetti del disastro sono chiamati a spiegarne le ragioni. I colpevoli ci illustrano la scena del delitto, con il sangue ancora sulle mani.
Non si assumono la responsabilità dei loro crimini. No.
Ci offrono una conferenza in cui ammettono, confessano, e ci dicono che la ricetta per guarire è dare ai carnefici ancora più potere e più spazio di manovra.
Ma il problema non è Draghi.
Non è nemmeno von der Leyen.
Il problema sono quelli che ancora voterebbero per l’uno e per l’altra. Sono quelli che ancora lo definiscono “super”.
Un popolo di allocchi che sa solo applaudire a ciò che fino a ieri etichettava come fake news e complottismo. Solo perché a spiegare la realtà della malattia stavolta non è un complottista, ma uno degli stessi colpevoli.
Ricordate cosa accadde dopo che fu seriamente danneggiato il NOrdStream2? Mesi e mesi di narrazione in cui la Russia era cattiva perché tagliava il gas all’Europa. Una ricostruzione che peccava di logica, perché nessuno sano di mente taglia i contatti con un cliente.
Infatti, la magistratura tedesca già da un anno e mezzo ha individuato una pista ucraina dietro l’atto terroristico che ha messo in ginocchio l’economia europea, spiccando un mandato d’arresto per un altro sabotatore ucraino, Volodymyr Z, fuggito proprio in Ucraina per scampare all’arresto in Polonia.
In Italia è stato arrestato l’ucraino Serhii Kuznietsov, presunto coordinatore del commando. Un nome, un fascicolo, un punto di svolta.
Mentre i titoli di giornale lo liquidano come “un sospetto”, le indagini tedesche lo dipingono come l’architetto operativo del più spudorato attentato alla libertà economica dell’Unione Europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream non è stata una bravata di qualche gruppo oscuro, ma un’operazione di precisione, pianificata, eseguita e, soprattutto, ampiamente conosciuta in anticipo.
Mentre i politici di mezza Europa – e i loro galoppini dell’informazione – indicavano Mosca e ci dicevano che erano le uniche azioni possibili per un esercito armato solo di pale dell’800, il puzzle investigativo cominciava a comporsi mostrando un’immagine ben diversa.
Scomoda. Imbarazzante.
E forse, per questo, tenuta prudentemente in ombra.
L’OPERAZIONE “ANDROMEDA”. DA UN PORTO TEDESCO AL FONDO DEL BALTICO CON LA FARSA DELLO YACHT.
Ricordate quella storia dello yacht “Andromeda” che partì il 18 settembre 2022 dall’isola di Rügen?
In Germania. Sì, avete capito bene. Dalla Germania.
Un bel gioiellino di 15 metri, noleggiato da una società ombra, carico di attrezzatura subacquea e di un equipaggio che non sapeva nemmeno tenere la barra dritta, tanto da lasciare un trail di prove digitali e testimoniali che farebbe arrossire un aspirante terrorista da operetta.
Il mandato di arresto tedesco descrive meticolosamente il viaggio, i falsi documenti, le immersioni sospette sopra le condotte. Il paradosso è così grottesco da sfidare ogni logica, perché un attacco contro un’infrastruttura vitale per la Germania è stato lanciato dal suo stesso territorio.
Con la complicità e/o l’ignavia di qualche tedesco che conta? Con l’incompetenza colossale dei suoi servizi di sicurezza?
Ogni opzione è ugualmente devastante per la sovranità totale della Germania e per quella economica e politica dell’Europa.
“ZELENSKY SAPEVA” E FECE FINTA DI NIENTE
Ma la storia sembra una tragedia divisa in tre atti.
Giugno 2022, tre mesi prima delle esplosioni, i servizi segreti occidentali, quelli che a volte per sbaglio funzionano, intercettano le conversazioni che delineano il piano.
Non si tratterebbe di un gruppo di fuoco separatista, ma di un’unità delle forze speciali ucraine.
La notizia è una bomba. Roba da prima pagina, tanto che la CIA, in un estremo tentativo di evitare un disastro geopolitico senza precedenti, invia un suo funzionario di alto rango a Kiev. Il messaggio è chiaro e tassativo: “Fermate questo piano. Abbiamo saputo tutto”.
D’altronde, come avrebbe fatto l’Amministrazione Biden a spiegare agli europei che dovevano finanziare un Paese che compiva atti terroristici contro l’Europa?
Fonti dei servizi americani, riportate dalle inchieste del Washington Post e del New York Times, sono lapidarie e sostengono che la leadership ucraina, incluso il Presidente Zelensky, era al corrente dell’operazione terroristica contro il NordStream2.
La reazione di Zelensky pare fu un fastidioso riconoscimento di un piano che era sfuggito di mano.
L’eroe democratico d’Europa, il destinatario di miliardi in aiuti militari, sapeva e non fece abbastanza per fermare un’azione che avrebbe minato la sicurezza dei suoi stessi alleati.
IL COLPO DI GRAZIA ALL’ECONOMIA CONTINENTALE.
Gli strateghi da salotto parlarono di “genio geopolitico”, perché la dipendenza energetica dalla Russia era finalmente spezzata.
Ma a quale prezzo, le imprese e le famiglie italiane lo hanno capito bene. Purtroppo
Il sabotaggio ucraino all’infrastruttura europea ha sancito la morte cerebrale della strategia tedesca portata avanti da Schröder a Merkel, quella che puntava a energia russa a basso costo come volano per l’industria manifatturiera tedesca e per una garanzia di stabilità geopolitica.
Il risultato, come sappiamo, è stato un’impennata dei costi energetici che ha gettato la potenza industriale tedesca in una recessione tecnica e tutti gli altri paesi in grosse difficoltà, tra cui l’Italia, non solo per i costi dell’energia, ma soprattutto perché ha strozzato l’indotto italiano.
Le fabbriche chiudono, le famiglie non riescono a pagare le bollette e l’inflazione divora il potere d’acquisto.
Un virus che sta divorando l’Europa. Un virus creato da un’azione terroristica dell’Ucraina.
La beffa finale è che l’Europa non acquista più gas russo a buon mercato via tubo, ma gas naturale liquefatto (GNL) americano, molto più costoso, trasportato via nave.
In un caso di omicidio, si cercano gli esecutori e i mandanti e, per scovare questi ultimi, si indaga su chi ha vantaggi dall’eliminazione del deceduto.
Ebbene, chi ha guadagnato dall’atto terroristico ucraino contro l’Europa?
I colossi energetici statunitensi. Non è una prova inoppugnabile, lo so, ma se tutti sapevano, se la CIA sapeva, tanto che avvisò Kiev mesi prima, permettetemi di nutrire più di qualche dubbio sulla fedina pulita di Biden.
Chi ci ha rimesso?
Beh, le industrie e i cittadini europei. Quelli a cui i nostri illuminati leader vogliono sottrarre altri 100 miliardi per comprare armi dagli USA e regalarle a Zelensky, quello che sapeva dell’attentato contro l’Europa e non ha mosso un dito.
CHI ALTRO SAPEVA? LA SCOMODA VERITÀ SUI SERVIZI E I GOVERNI
Proviamo a porgere le domande scomode che i giornali da pale e microchip non pongono.
È plausibile che il BND, il potente servizio segreto tedesco, fosse completamente all’oscuro di un’operazione partita da un porto sotto il loro naso, con mezzi noleggiati in modo così palesemente sospetto?
O sapevano, ma hanno taciuto per non imbarazzare un governo impegnato a suonare la marcia bellicista?
O, peggio, il governo tedesco ha chiesto di chiudere entrambi gli occhi?
Qual è stato il vero ruolo degli USA? Si sono limitati a un “cortese avvertimento” a Kiev o, come suggeriscono alcuni analisti, quell’avvertimento era in realtà un “messaggio in codice” per altre agenzie, una regia più sottile e complessa?
I governanti europei, Italia compresa, sapevano? E, se sapevano, hanno scelto di ignorare le informazioni per non incrinare il fronte unito a sostegno dell’Ucraina?
Hanno, cioè, sacrificato la verità e gli interessi economici dei loro cittadini sull’altare di una narrazione comoda a Biden e von der Leyen?
Se fosse andata così, si tratterebbe del più grande tradimento del mandato politico dalla fondazione dell’Unione.
UN PREZZO TROPPO ALTO PER UNA LIBERTÀ ILLUSORIA
In buona sostanza, un’operazione condotta da un commando ucraino, pianificata e nota ai servizi occidentali con mesi di anticipo, lanciata dal territorio tedesco, ha inferto un colpo mortale all’economia industriale europea, regalando il mercato del gas agli Stati Uniti.
Il paradosso è agghiacciante, perché l’Europa ha finanziato con decine di miliardi la guerra in Ucraina.
Ha aperto le sue porte a milioni di profughi e, soprattutto, ha imposto sanzioni che hanno danneggiato gli stessi paesi europei.
E in cambio, ha visto i suoi interessi economici e strategici vitali essere sabotati da chi chiedeva di essere difeso e anche di entrare nella UE, oltre che nella NATO.
La fragilità e l’inconsistenza della sovranità europea non è mai stata così evidente.
Siamo un continente che paga chi danneggia i suoi flussi vitali di energia, poi paga di nuovo per comprare il sangue altrove.
Geniale.
La ricerca della verità sul Nord Stream non è solo una questione giudiziaria, ma si dimostra sempre di più come un test fondamentale per il futuro stesso dell’Unione.
È la prova che siamo ancora capaci di difendere i nostri interessi, la nostra economia, la nostra sovranità.
A che serve un esercito europeo se non siamo in grado di difenderci da chi aggredisce le nostre strutture vitali e ci facciamo anche prendere in giro dagli stessi colpevoli?
Se davvero vogliamo difenderci, cominciamo a combattere contro la propaganda. Perché già capire chi siano i nostri veri amici e quali i nemici sarebbe un primo passo.
Oggi, nessuna narrazione è più pervasiva e, al contempo, più fragile di quell’Europa dipinta come unita e risoluta, pronta a fronteggiare la minaccia russa.
Si tratta di una retorica feroce dai toni da crociata, ma nega l’evidenza.
Infatti, i dati, quelli veri, dipingono un quadro di sconcertante inconsistenza.
Scavando nel Military Balance 2025, si nota che la stragrande maggioranza delle nazioni europee, quelle più veementi nell’esortare al riarmo contro Mosca, non dispone in realtà di forze da combattimento credibili.
Siamo di fronte a un bluff colossale, a un castello di carte costruito sulla presunzione che la deterrenza sia un atto più linguistico che reale.
IL NORD EUROPA, EMBLEMA DI UNA RETORICA ALTA CON NUMERI BASSI
Prendiamo il Nord Europa, spesso dipinto come il baluardo della resistenza contro l’orso russo.
La Finlandia, con i suoi 1.340 km di confine con la Russia, ha scelto di diventare una “cortina di ferro”.
Una scelta comprensibile, guardando alla storia, ma, in sostanza, il suo esercito conta su appena 22.000 soldati in servizio attivo, dei quali 13.000 sono coscritti.
Numeri che diventano irrisori se paragonati alla vastità del suo territorio.
Sono forze insufficienti a presidiare in modo credibile un solo settore critico come quello di Pokrovsk, figuriamoci per una guerra contro Mosca.
La Norvegia, fianco nord della NATO, schiera soli 27.000 militari; la Svezia, una nazione grande una volta e mezza l’Italia, con una tradizione militare secolare, oggi conta su meno di 34.000 soldati in servizio attivo permanente; la Danimarca, tra le più attive nel sostegno a Kiev, ha compiuto un gesto generoso, ma strategicamente avventato, donando tutta la sua artiglieria all’Ucraina.
Oggi il suo esercito conta 22800 militari, di cui sarebbero addestrati a una guerra meno della metà.
Dall’altra parte, la Russia vanta tra 1,3 e 1,5 milioni di soldati, a cui vanno aggiunto oltre 2 milioni di riservisti. Un paragone insostenibile.
Il paradosso raggiunge l’apice con gli Stati Baltici, con l’Estonia, patria della commissaria UE Kaja Kallas, una delle voci più veementi contro il Cremlino, che possiede un esercito di appena 4.200 soldati. Zero carri armati. Zero aerei da combattimento.
Un gattino che vuole sfidare un leone.
Come può la Kallas sbraitare contro Mosca con un esercito così insignificante?
La stessa identica situazione vale per Lettonia e Lituania. La loro sovranità aerea è interamente affidata ai partner NATO, eppure, le loro leadership politiche proferiscono dichiarazioni di una sicurezza e una determinazione assolute che mettono in pericolo l’intera coalizione.
Questo divario tra percezione e realtà è una patologia endemica in Europa e anche in Italia, dove molti italiani sono convinti davvero che si possa fare una guerra contro la Russia. Ma con quali uomini, quali armamenti e quali eserciti, senza USA?
A Washington, Giorgia Meloni ha posto proprio questa domanda a Macron, quando il presidente francese ha paventato ancora l’eventualità di inviare soldati europei in Ucraina per garantirne la sicurezza.
«Quanti dovremmo inviarne, visto che la Russia può contare su 1,3 milioni di soldati?»
Domanda legittima e di buonsenso.
10.000? 30.000? 100.000?
Sarebbero comunque pochi. E se, in caso di un incidente o di una incomprensione, o di un atto terroristico di chi volesse scatenare una guerra mondiale, ucraino o russo che fosse, venisse ucciso un soldato della NATO in Ucraina, scatterebbe l’Art. 5 sull’intervento NATO?
Anche perché, al di là dei paesi baltici, la situazione non migliora altrove.
Nei Balcani, nazioni come Bulgaria, Croazia, Montenegro e Slovenia presentano eserciti esigui, tecnologicamente obsoleti e, in alcuni casi, privi persino di un’aviazione da combattimento degna di questo nome.
Paesi fondatori e ricchi come l’Olanda hanno un esercito di 53.000 uomini che, incredibilmente, è privo di carri armati. Il Belgio può contare su appena 32.000 soldati.
Pare che contando tutti i soldati in servizio attivo in tutta Europa, si possa arrivare a 1,5 milioni di unità, perciò, almeno in linea teorica, potremmo fronteggiare la Russia, che, tra soldati attivi e riservisti, conterebbe circa 3,5 milioni di unità.
Ma a questi, non è detto che la Russia non possa contare sull’aiuto degli alleati più potenti militarmente, come la Corea del Nord e, soprattutto, la Cina.
Senza dimenticare che la società russa è abituata al sacrificio e può svoltare a un’economia di guerra in un batter d’occhio, mentre gli europei vivono in un’altra dimensione, fatta di diritti, di rispetto delle diversità di genere,di ricerca dell’edonismo.
Non tenere conto di queste diversità antropologiche è un errore strategico devastante.
Inoltre, quanto a produzione di mezzi, armi e munizioni, è stato più volte sottolineato da diverse fonti che la Russia produce a velocità superiori rispetto all’Europa, perciò l’idea di una guerra alla Russia, somiglia alle velleità di acquistare una casa del tizio che spera nella vincita alla lotteria.
Ma c’è un’altra questione che non viene affrontata, quella della leadership e della difesa della patria.
La Russia ha una regia e quei 3,5 milioni di soldati e riservisti fanno capo a Mosca e tutti combattono per la loro nazione. Tutti i soldati europei a chi dovrebbero rispondere e per chi combatterebbero?
Con quale spirito un giovane greco, maltrattato e umiliato da Bruxelles, dovrebbe combattere per l’Europa?
Con quale spirito dovrebbero farlo i giovani dei paesi meridionali, sempre additati da Olanda, Danimarca e baltici.
Con quale spirito dovrebbero farlo gli spagnoli, i tedeschi, i francesi…?
AUTONOMIA STRATEGICA O SERVITÙ VOLONTARIA?
I numeri presentano una verità che la retorica non può più nascondere.
La gran parte delle nazioni europee più impegnate a propugnare il riarmo possiede capacità di combattimento irrilevanti, per cui, i loro capricci chiamano necessariamente in causa i grandi paesi, come Germania, Francia e Italia.
Ma i grandi paesi sono anche alle prese con gravi crisi economiche ed esposizioni debitorie sempre più insopportabili.
La deterrenza di chi urla contro Mosca, perciò, è un’illusione.
Questa constatazione spiega, meglio di qualsiasi analisi politica, l’inconsistenza delle loro velleità e la natura delle pressioni che esercitano su Roma, Berlino e Parigi. È una richiesta di delega della propria sicurezza. Anzi, della propria sovranità.
Ma questo deficit di capacità militare si traduce direttamente in un deficit di autonomia geopolitica.
La dipendenza dagli Stati Uniti non è solo operativa, ma è psicologica e politica. Noi, oggi, non possiamo fare guerra a nessuno. Ma, ancor più grave, non potremmo difenderci da soli da nazioni dotate di eserciti ben addestrati e armati di armi all’avanguardia.
La retorica bellicista diventa quindi pericolosa e arrogante.
Parlare di “sconfiggere la Russia”, di aiutare l’Ucraina fino alla vittoria finale contro Mosca”, è un azzardo che fa quasi rima con irresponsabilità.
Anche perché, qualsiasi scenario di sconfitta convenzionale per Mosca riaccenderebbe inevitabilmente il dibattito sull’uso tattico delle armi atomiche. È quando parliamo della potenza nucleare più devastante sul pianeta, si tratta di un calcolo che non si può ignorare, ma che Kallas & Co, spesso dimenticano.
La via d’uscita è una sola.
Da un lato, un rafforzamento serio, coordinato e immediato degli eserciti europei, ma non per brama di guerra, bensì per un elementare istinto di sopravvivenza e per affermare una vera autonomia strategica.
Se gli USA, legittimamente, decidono di orientare le loro risorse altrove, chiudendo i rubinetti per la nostra Difesa, l’Europa deve essere in grado di garantire da sé la propria difesa.
Ma essere autonomi nella difesa significa essere autonomi nelle decisioni politiche e anche più forti a livello geopolitico. Significa smettere di essere vassalli e tornare a essere attori protagonisti della storia.
Tuttavia, il riarmo non può essere finalizzato ad acquistare armi dagli USA per alimentare una guerra contro la Russia, perché ciò non aumenta la nostra capacità di difesa e dissangua gli europei.
Non serve un riarmo, ma una logica di difesa comune orientata ad avere una deterrenza in grado da farci rispettare da Cina, Russia e USA, altrimenti l’Europa sarà sempre quella da informare a cose fatte, o quella a cui applicare dazi a doppia cifra, per poi darle un contentino.
Ma riarmarsi solo per spaventare la Russia servirebbe solo a costringere Mosca a investire ancora di più nelle armi, proprio come accadde tra ‘800 e ‘900, quando la Germania investì ingenti somme per aumentare la potenza della sua flotta navale e la Gran Bretagna aumentò a sua volta le spese per la sua flotta, in modo da non perdere la leadership.
Gli investimenti di entrambi, spinsero anche la Francia e altri stati a riarmarsi, così l’Europa si ritrovò piena di armi e bastò davvero poco per scatenare la Grande Guerra.
L’Europa ha bisogno di un sistema di difesa comune, ma prima di costruire anche un esercito ingente e addestrato fino ai denti, serve costruire un’identità europea, una patria, perché senza patria, non può esservi difesa.
E, oggi, la patria dei tedeschi è la Germania; quella degli italiani è l’Italia, così per gli spagnoli, i greci, i portoghesi…
Non è l’Europa. Soprattutto, non è questa Europa dei burocrati.
Il tempo delle chiacchiere è finito. Sarebbe il caso che finisse anche quello di chi sbraita sciocchezze.
Ora servono i fatti e i leader con competenze e attributi, non quelli che sbraitano e nemmeno quelli da scampagnata a Washington.
E servirebbero il prima possibile, prima che la storia ci presenti il conto.