GAZA & DINTORNI

Mancano pochi giorni alla scadenza del 7 ottobre, data che racconta la ricorrenza in cui i terroristi di Hamas hanno ucciso, in territorio israeliano, 1200 persone e ne hanno catturate circa 250, diventando così ostaggi.

Pochi di questi sono ancora ufficialmente in vita. Sembra 24.

Al di là dell’esecrabile evento e delle immaginabili terribili condizioni di detenzione degli ostaggi, molti dubbi sul 7 ottobre sono ancora da chiarire.

Il primo è certamente quello di scoprire che il Mossad, servizio di intelligence israeliano ritenuto fra i più aggressivi e preparati del mondo, sia riuscito a farsi beffare con una iniziativa quasi tragicomica.

Tragicomica se non fosse per le conseguenze immediate, per gli eventi successivi e quelli conseguenti.

Viene quasi il sospetto, se non la certezza, che si sia voluto accettare il fatto, anche se le autorità nazionali israeliane sembra fossero state avvertite dell’imminenza dell’attacco, per provare poi ad eliminare definitivamente Hamas.

È un’ipotesi, ma non da scartare e nemmeno da sottovalutare.

Dall’8 ottobre, cioè dal giorno successivo all’attacco, gli israeliani hanno iniziato una offensiva che di giorno in giorno, oltre a non riuscire a liberare gli ostaggi, ha provocato nei bombardamenti, fino ad ora, sembra più di 62.000 morti fra i civili palestinesi.

Poi, come abbiamo detto più volte, i numeri dei bambini morti sotto le macerie sono in percentuale rispetto agli adulti molto più elevati. Va anche però indicata l’elevata natalità nelle popolazioni palestinesi e quindi un’età media molto bassa.

Sei figli sono un numero quasi standard fra le nascite per famiglia palestinese.

Esporre nelle statistiche dei morti un numero di bambini così elevato ha indubbiamente un effetto mediatico rilevante, ma è pur sempre la verità, anche se, come detto, la media delle nascite per famiglia è abnorme rispetto al mondo occidentale.

Quindi, parlando solo di statistiche, questa sproporzione risulta evidente. 

Ma tutto aiuta per mostrare quanto questa situazione sia condannabile ed inviti il mondo a prendere una posizione ferma senza esitazioni. 

Difficile pensare che il massacro nei territori palestinesi non possa definirsi genocidio. In passato abbiamo gridato al genocidio per numeri decisamente più bassi. 

Netanyahu non sembra sentire ragioni, imbrigliato com’è dalle posizioni dei suoi ministri estremisti.

È condannato a subire i loro diktat per far rimanere a galla il suo governo perpetuando così il suo mandato elettorale, forse anche guidato dal tentativo di evitare una condanna penale considerando che è indagato e certamente il tribunale prima o poi dovrà emettere una sentenza. 

L’Europa, l’ONU, la Russia, la Cina, il BRICS nel suo complesso, l’America, e anche i paesi arabi sembrano soffrire di strabismo geopolitico: al di là di generiche condanne e qualche minima irrisoria ritorsione non si arriva.

Sembra più per compiacere le anime interne che per emettere una risposta adeguata.

E, visto che questa è la posizione di fatto, Israele si permette di eliminare, fuori dal suo territorio, i leader che ritiene responsabili di attacchi contro il suo popolo o il suo credo.

In Iran, Sudan, Siria Libano, Iraq, e ultimamente in Qatar le “ire” sioniste si sono abbattute con particolare precisione e ferocia.

Non solo: qualcuno ricorda i ”cerca persona” israeliani esplosivi, andati tutti a buon fine con la morte di chi li ha fatti (incautamente, ma senza colpa) squillare? La popolazione civile che subisce l’infernale ritmo della morte non ha colpe.

Se i regimi non si mobilitano ufficialmente, si mobilita il popolo. 

La coscienza del Popolo, con animo autonomo o con qualche suggerimento partitico o populistico, si mobilita e scende in piazza a gridare il suo dissenso. 

Ormai chi non conosce la bandiera della Palestina, il movimento ProPal, gli slogan in favore del popolo palestinese con un “Free Palestine” gridato a squarciagola dai manifestanti nostrani addobbati con la kefiah.

E, per la verità, in tutti i paesi in cui la libertà di espressione è ammessa senza rischio di essere incarcerati.

E non parliamo solo di cortei che si vedono nelle piazze, che si snodano fra le vie dei centri storici, ma anche nei luoghi simbolo del cattolicesimo, con le interruzioni delle celebrazioni religiose.

Sembra un movimento generalizzato. Lo vediamo, ad esempio, con l’annullamento dell’ultima tappa del giro ciclistico di Spagna 2025, la Vuelta, che non si è svolta in ossequio ai martiri di Gaza. 

In tutto questo sostegno palpabile e reale, perché insieme ai fatti simbolici vanno considerati gli aiuti alimentari e di medicinali generati dagli organismi internazionali indipendenti, gli interventi di “Medici senza frontiere”, quelli delle altre organizzazioni internazionali, come l’ONU, dove si è scoperto che operavano anche terroristi che avevano partecipato all’azione del 7 ottobre, con la distribuzione di aiuti gestita da Hamas, con l’uccisione di chi andava a cercare cibo e acqua per la propria famiglia…..

I punti interrogativi ci stanno, secondo noi, perché il racconto sarebbe inutilmente lungo e non privo di deviazioni interpretative perché le fonti, che per la maggior parte sono arabe e/o dovute al ministero della salute palestinese, ci fanno pensare che anche i giornalisti fra i 210 rimasti vittime delle bombe potevano raccontare solo quello che gli era consentito. 

Un po’ come a quella giornalista italiana de “La Stampa”, Francesca del Vecchio, fatta sbarcare in fretta e furia da una nave della flottiglia Sumud perché, secondo chi aveva organizzato il tutto, non aveva diritto di raccontare la sua verità, quella che vedeva o avrebbe visto quando avrebbe potuto navigare a bordo dell’imbarcazione che gli era stata assegnata.

Un po’ come è capitato a Greta Thumberg, che non fa più parte del direttivo della flottiglia Sumud.

Traslocata su un’altra barca più piccola, per divergenze sulla gestione delle informazioni, secondo la versione ufficiale.

Sì, perché fra strani incendi a bordo di qualche nave della flottiglia, disorganizzazione palese, espulsioni di imbarcati non graditi, ritardi subiti o voluti, mancanza di carburante, richieste di protezione internazionale per un’iniziativa totalmente privata, – anche se con molte sigle dell’arcipelago associazionista, ma non ufficialmente appartenenti ad alcun governo, – e qualche ritiro, il genocidio va avanti.

Domanda legittima: si può sapere qualcosa di più, che sia vero e indipendente, della flottiglia Sumud? E non ditemi che sapete già tutto.

Ma è lecito farsi qualche domanda?

L’eventuale conquista di Gaza sarà l’ultimo atto di questa guerra?

Gli ostaggi ancora in mano ad Hamas verranno liberati o diventeranno scudi umani?

O verranno suicidati?

Hamas sarà definitivamente sconfitta? Ci saranno due popoli e due stati?

L’esodo biblico dei palestinesi verso il sud della striscia di Gaza si interromperà/fermerà? Ritornerà la pace? Anche se armata?

E se qualcuno, esterno al conflitto, dicesse basta?

DRONI GONFIABILI DISEGNANO LA MARCIA DELL’EUROPA VERSO LA GUERRA

Un drone di polistirolo. Intatto. Adagiato morbidamente sull’erba di un campo polacco.

Poco più in là, il tetto di un casolare scoperchiato, con le assi rimosse con una precisione quasi chirurgica, lasciando le travi portanti illese.

Queste immagini, deboli e quasi surreali, non sono i resti di un attacco devastante. Lo capisce anche un bambino.

Eppure, sono diventate la scintilla che minaccia di incendiare un continente.

Mentre i leader da Bruxelles a Washington tuonano contro la “deliberata provocazione russa”, ciò a cui stiamo assistendo non è una reazione a un’aggressione, ma l’esecuzione di un copione già scritto.

“L’Europa è già in guerra contro la Russia,” ha dichiarato Medvedev.

Non era una minaccia. Era una constatazione. Un’osservazione agghiacciante sulla nostra realtà di cancro del mondo, che ci rifiutiamo di vedere.

ANATOMIA DI UNA PROVOCAZIONE

Analizziamo le prove.

I droni gonfiabili, più simili a giocattoli da ricognizione che a strumenti di morte, non hanno lasciato crateri.

Non hanno scalfito la terra arata su cui sono atterrati. Il tetto della casa polacca sfida le leggi della fisica di qualsiasi esplosione conosciuta. Sembra più l’opera di smantellamento di una squadra di operai che l’impatto di un ordigno bellico.

Dov’è la devastazione? Dov’è il fuoco? Dov’è la prova inconfutabile che giustifichi la mobilitazione di decine di migliaia di soldati e lo schieramento di caccia da combattimento?

Non c’è. Resta solo la propaganda dei nostri pennivendoli. Quelli che vi hanno raccontato di pale e microchip, e ora pretendono di raccontarvi come stanno le cose.

E proprio questa assenza di prove concrete è l’indizio più schiacciante.

Ci è stato servito un pretesto debole, quasi offensivo nella sua ingenuità, perché non era pensato per resistere a un’analisi forense, ma per essere creduto ciecamente da chi si è bevuto le pale e le dita usate come baionette perché Mosca non aveva soldi per le munizioni.

Per dare in pasto ai media e a un’opinione pubblica spaventata una ragione per ritenere necessario tagliare su Sanità, Scuola e Pensioni e indebitarci a vita per armi e guerra.

LA REAZIONE ORCHESTRATA: IL VIA LIBERA PER “SENTINELLA DELL’EST”

La velocità della risposta è stata sbalorditiva. In poche ore, Varsavia ha gridato all’attacco, la NATO ha attivato i protocolli di difesa e i media, come il prestigioso Le Monde, hanno pubblicato titoli che parlavano di “incursioni” e della necessità di “proteggere l’Europa”.

Una reazione così rapida e coordinata non suggerisce improvvisazione, ma preparazione e messa in scena di un copione. Anche perché, si tratta degli stessi che su Israele ancora non sono riusciti a trovare la quadra per un solo misero pacchetto di sanzioni.

Questo “incidente” – o messa in scena – è stato la parola d’ordine per attivare l’operazione “Sentinella dell’Est”. Un piano di militarizzazione massiccia e senza precedenti lungo tutto il fianco orientale dell’alleanza, dalla Finlandia fino al Mar Nero.

Non è una difesa, ma un posizionamento offensivo che da Mosca non può essere visto in maniera diversa di una minaccia concreta ai suoi confini.

Decine di migliaia di soldati si stanno muovendo, le basi si stanno riempiendo e la tensione, per le famiglie che vivono lungo quel confine, diventa ogni giorno più palpabile.

I leader europei stanno costruendo il teatro di guerra, pezzo per pezzo, in attesa dell’incidente definitivo, quello che renderà lo scontro inevitabile.

A CHI GIOVA TUTTO QUESTO?

Per capire chi ha scritto questo copione, basta chiedersi chi ne trae profitto.

Non certo gli europei, che stanno già pagando un prezzo altissimo. Mentre le bollette strangolano le famiglie da Lisbona a Vilnius e le industrie tedesche chiudono per i costi insostenibili dell’energia, il nostro continente si indebolisce economicamente e si lega mani e piedi alla protezione militare ed energetica degli Stati Uniti.

Il vantaggio per Washington, invece, è doppio: logora la Russia, il rivale storico, e al tempo stesso de-industrializza e sottomette l’Europa, da sempre concorrente economico.

E lo fa usando l’Ucraina come strumento. Alla faccia di quelli che davano dell’incompetente a Trump.

Poi ci sono i pazzi europei, quei leader che non ne hanno azzeccata mezza neppure di striscio, dalle sanzioni dirompenti in avanti, e che ora, non avendo più nulla da perdere, sono disposti alla guerra mondiale pur di non dover restituire agli europei i miliardi bruciati per la loro scelleratezza e passare il resto della vita in prigione.

Kiev, ormai, non combatte più per la propria sovranità. La guerra l’ha persa da mesi. Combatte perché noi paghiamo. Il paziente è tenuto in vita solo dalle macchine e se si stacca la spina, si scopre che è morto.

La richiesta di 120 miliardi di dollari entro il 2026, come richiesto da Zelensky, non è solo un appello disperato per la sopravvivenza, ma è il budget necessario per continuare a sostenere una guerra per procura.

Una guerra in cui i soldati ucraini mettono i corpi, gli americani le armi e i cittadini europei i soldi.

I leader dei paesi dell’Est Europa, dal canto loro, giocano una partita ambigua.

Spinti da una legittima memoria storica di oppressione, si offrono come l’avamposto più aggressivo della NATO, guadagnando una rilevanza politica e strategica che non hanno mai avuto, ma rischiando di trasformare le loro nazioni nel primo, devastante campo di battaglia.

In un mondo normale li chiameremo pazzi.

IL FRONTE SILENZIOSO E LA DISPERAZIONE DI KIEV

Mentre la propaganda occidentale festeggia improbabili vittorie, sbandierate in pompa magna dai nostri pennivendoli – sempre quelli delle pale e dei microchip, la cui credibilità è pari a zero – la realtà sul campo è un’altra.

Il fronte ucraino sta crollando. Le perdite sono insostenibili e la situazione è disperata. Non è un caso che lo stesso Zelensky, l’eroe della resistenza, sia tornato a invocare un incontro con Putin un minuto dopo aver chiesto 120 miliardi per sostenere la guerra.

È un segnale inequivocabile che la via militare è un vicolo cieco.

Un segnale che i suoi sponsor occidentali, però, continuano a ignorare, spingendo per una guerra fino all’ultimo ucraino, perché, altrimenti, Macron, Meloni, von der Leyen e Merz dovrebbero dare conto agli europei dei miliardi bruciati e dei costi dell’energia alle stelle per una sconfitta prevedibile già nel 2022 da chiunque avesse aperto almeno un libro di storia contemporanea nella sua vita.

La vera minaccia per l’Europa non è un’invasione russa.

Questa narrazione serve solo a giustificare l’escalation. È pura propaganda.

La vera minaccia è l’ostinazione a prolungare un conflitto che sta distruggendo una nazione, destabilizzando l’economia globale e trascinando l’Europa sull’orlo di un conflitto diretto, le cui conseguenze sarebbero inimmaginabili.

La vera minaccia per gli europei è questa Europa.

IL PREZZO DELL’OBBEDIENZA

I droni di cartapesta in Polonia non sono stati un attacco, ma un invito. Un invito ad accettare una narrazione che ci conduce, passo dopo passo, verso il baratro.

Una narrazione che serve a mascherare il fallimento delle sanzioni e di ogni politica degli attuali leader europei, e a giustificare un coinvolgimento sempre più diretto in un conflitto che non abbiamo scelto, ma che è l’unica strada percorribile da quei leader per salvarsi il fondoschiena.

L’Europa è davvero già in guerra.

Ma non sta combattendo per i propri valori o per la propria sicurezza, ma per mantenere in vita un ordine mondiale unipolare che sta morendo, sacrificando la propria prosperità e la propria pace sull’altare di interessi che non le appartengono.

Mentre i nostri leader parlano di difesa e sicurezza, ma non specificano che l’unica difesa e l’unica sicurezza che paventano è la loro.

Non stiamo affatto proteggendo il nostro futuro, ma semplicemente iniziando a pagare il conto in denaro, stabilità e, presto, forse, in vite umane, per le strategie fallimentari di una classe dirigente improponibile e per quelle furbe di Washington che, dall’incompetenza manifesta dei nostri leader da reparto psichiatrico ha solo da guadagnare.

OMBRE SUL FRONTE ORIENTALE. I DRONI FANTASMA CHE HANNO RISCHIATO DI INCENDIARE LA NATO

Mentre il mondo tratteneva il respiro temendo un attacco russo contro la Polonia e la Romania, le prove sul campo raccontavano una storia diversa. Una storia scomoda che noi di Tamago avevamo ipotizzato già all’indomani, mentre il mainstream parlava di attacco russo senza uno straccio di prova credibile.

(PUOI VERIFICARE IL NOSTRO ARTICOLO SULL’ACCADUTO QUI.)

Un’inchiesta sulle anomalie tecniche, i calcoli strategici e il silenzio assordante che suggerirono una verità inconfessabile: una disperata operazione sotto falsa bandiera per trascinare l’Occidente in guerra.

L’ALLARME – L’ORA PIÙ BUIA DELLA NATO

Il buio non era solo meteorologico, sulla linea orientale dell’Alleanza Atlantica, ma un buio strategico, denso e soffocante.

Telefoni che squillavano nelle cancellerie di Washington, Bruxelles, Varsavia. Le agenzie battevano la notizia: “Droni russi in territorio NATO”.

Panico.

Era il momento che tutti temevano e che, segretamente, qualcuno forse attendeva.

L’ombra dell’Articolo 5 – quella clausola di mutua difesa che avrebbe trasformato un conflitto regionale in una guerra mondiale – si allungava sull’Europa. Il mondo tratteneva il fiato, mentre i pennivendoli che per tre anni hanno raccontato di pale e microchip aumentavano la lista di fake alla narrazione, parlando di attacco russo.

Poi, il miracolo. O forse, più prosaicamente, un frettoloso dietrofront.

Nel giro di poche ore, la narrazione ufficiale ha eseguito la più rapida inversione a U della storia recente. Da “attacco deliberato” a “incidente”, da “missile russo” a “probabile frammento della contraerea ucraina”.

Un raffreddamento così repentino da ustionare qualsiasi logica.

I toni si sono smorzati, le accuse evaporate, un velo di imbarazzato silenzio è calato sulla vicenda.

Cos’hanno visto gli analisti della NATO in quelle prime, frenetiche ore per premere con tanta urgenza il freno d’emergenza? Hanno visto i fatti. E i fatti, semplicemente, non tornavano.

L’ANOMALIA SUL CAMPO – LE PROVE CHE NON SONO STATE TROVATE PERCHÉ NON ESISTONO

Quando la propaganda si scontra con la fisica, la fisica, alla lunga, vince sempre. Per capire cos’era realmente accaduto, non bisognava ascoltare i portavoce e nemmeno i pennivendoli della propaganda, ma indagare sui rottami.

La prima, colossale anomalia, riguardava la natura stessa degli oggetti caduti. I droni recuperati in Polonia non erano armi, ma droni esca (decoys).

Oggetti leggeri, economici, costruiti con schiuma e compensato, progettati con un unico, umile scopo: farsi abbattere per saturare le difese aeree nemiche e permettere ai veri missili di passare.

Molti di questi relitti sono stati trovati quasi integri. Innocui.

Ora, fermiamoci un istante e usiamo quella facoltà apparentemente in disuso chiamata logica.

Quale stratega sano di mente, al Cremlino o altrove, avrebbe orchestrato una provocazione contro la più potente alleanza militare della storia usando delle pistole ad acqua?

Sarebbe stato come minacciare un T-Rex con un bastoncino. Un’azione del genere era da ritenere un’assurdità tattica dopo il primo secondo. Una barzelletta militare.

A meno che, ovviamente, l’obiettivo non fosse fare rumore, ma senza rompere nulla di veramente importante.

LA TRAIETTORIA IMPOSSIBILE: GEOGRAFIA CONTRO PROPAGANDA

Il secondo chiodo sulla bara della versione ufficiale si trova nella geografia. La matematica, a differenza della politica, non è un’opinione.

I modelli di drone esca in questione avevano un’autonomia stimata di circa 700-800 chilometri. Se avessimo tracciato questo raggio dalle più vicine basi di lancio russe conosciute, il territorio polacco sarebbe risultato al limite estremo, se non oltre, la portata operativa.

Un lancio rischiosissimo e destinato al fallimento.

Se però avessimo provato a spostare il compasso, posizionando il punto di partenza nell’Ucraina occidentale, improvvisamente, la traiettoria non era più solo possibile, ma diventava perfettamente logica, a conferma della nostra analisi sull’accaduto, che ipotizzava il coinvolgimento di Kiev.

I droni avrebbero avuto carburante a sufficienza per raggiungere l’obiettivo, volare per un po’ e cadere.

I SEGRETI SIGILLATI: IL RUMORE DEL SILENZIO

Le autorità polacche e rumene, dopo le dichiarazioni iniziali, si sono chiuse in un silenzio tombale. Un silenzio che fa più rumore di un’esplosione.

Quando le prove scagionano il tuo avversario e puntano il dito verso il tuo alleato, la migliore strategia comunicativa è, evidentemente, non comunicare affatto. Perché l’alternativa significherebbe accusare il vero colpevole: l’Ucraina.

IL CALCOLO STRATEGICO – A CHI È GIOVATA QUESTA ENNESIMA FAKE NEWS CONTRO LA RUSSIA?

Ogni analisi seria parte sempre da una domanda vecchia quanto il mondo: “chi ne trae beneficio?”

La Russia, impantanata in un conflitto estenuante e sotto sanzioni, avrebbe avuto tutto da perdere da un’escalation diretta con la NATO.

Soltanto un dilettante di geopolitica poteva avanzare l’ipotesi che Mosca volesse provocare l’Alleanza atlantica, dunque.

Un’operazione così grossolana, con droni innocui, sarebbe stata strategicamente idiota, offrendo alla NATO il pretesto perfetto per un intervento.

La smentita secca e immediata del Cremlino, in questo contesto, era paradossalmente più credibile del solito e, di certo, più credibile delle accuse mosse da chi ha raccontato di dita usate come baionette e di microchip smontati dalle lavastoviglie ucraine.

LA MOSSA DI KIEV: UN CAPOLAVORO DI DISPERAZIONE

Spostiamo ora lo sguardo su Kiev.

L’Ucraina, eroica nella sua resistenza, si trova in una posizione disperata. La controffensiva non è mai partita, le perdite umane sono immense e il flusso di aiuti occidentali, per quanto massiccio, non è infinito.

L’unica cosa che potrebbe salvare Kiev, come abbiamo ricordato nell’articolo sui droni in Polonia, è l’intervento diretto della NATO.

Ecco che l’ipotesi della false flag da noi esposto fin dal principio adesso smette di essere complottismo e diventava un’opzione strategica quasi obbligata.

D’altronde, le forze ucraine catturano regolarmente droni esca russi quasi intatti. È logico e sensato ipotizzare la cosa più ovvia, cioè che gli ucraini li abbino riprogrammati per una nuova missione e poi lanciati dal proprio territorio verso la Polonia e la Romania.

Una mossa geniale è stata utilizzare esclusivamente droni innocui, per non uccidere cittadini NATO – un atto che sarebbe stato imperdonabile e facilmente smascherabile, decretando la fine di ogni supporto – ma per creare l’incidente perfetto.

Un incidente che sembrasse un attacco russo, che generasse panico e che spingesse l’opinione pubblica occidentale a chiedere “più sicurezza”, quindi un maggiore coinvolgimento nella guerra in Ucraina.

IL SEGRETO INCONFESSABILE

Se l’ipotesi era così logicamente solida, perché ne abbiamo parlato solo noi e pochissimi altri?

Perché la verità è più esplosiva degli stessi droni. E la verità non piace.

Perché bisognerebbe attuare l’Art. 5, proprio come dopo l’attacco al Nord Stream. Ma, proprio come allora, i leader europei fanno finta di nulla. Altro che sicurezza per i cittadini europei!

IL DILEMMA DI WASHINGTON E BRUXELLES

Immaginiamo per un momento che i servizi segreti della NATO avessero capito tutto nel giro di poche ore. Cosa avrebbero dovuto fare?

Beh, smascherare pubblicamente l’alleato ucraino. Ma sarebbe stato un suicidio politico. L’ennesimo.

Il sostegno pubblico, già minato dal tempo e dai fatti, sarebbe imploso.

Come possono spiegare ai cittadini che si stanno svenando per un alleato che inscena attacchi per trascinarli in guerra?

Un’ammissione avrebbe fratturato la NATO. I paesi più cauti, come Germania e Francia, si sarebbero scontrati con i “falchi” Polonia e Baltici, con l’elmetto in testa da mesi.

Raccontare la verità avrebbe regalato a Putin la più grande vittoria propagandistica della sua vita.

Di fronte a questo scenario, la verità comoda dell’ennesima fake è diventata l’unica opzione per i nostri eroi.

Un “incidente” nebuloso, una colpa che si dissolveva nell’aria, una pagina da girare in fretta. Meglio un mistero irrisolto che una certezza catastrofica.

La narrazione dell’attacco russo a scapito della verità. Proprio come le quattro tipologie di cancro di Putin e i muli usati al posto dei mezzi corazzati.

La frontiera orientale della NATO non è stata solo il luogo di un incidente militare, ma il palcoscenico di una sofisticata operazione di guerra ibrida, dove i veri proiettili non erano nei droni, ma nelle narrazioni. Come assistiamo da tre anni e mezzo.

La domanda che resta, terrificante, non è tanto cosa sia caduto dal cielo, ma cosa accadrà la prossima volta che qualcuno, disperato, deciderà di forzare la mano.

Perché, se la disperazione porterà i colpevoli a utilizzare droni carichi, la prossima volta?

IN DEFINITIVA, I DRONI CADUTI IN POLONIA ERANO UN ATTACCO RUSSO?

No. Le prove disponibili lo rendevano altamente improbabile fin dall’inizio, proprio come avevamo ipotizzato.

Ancora una volta, il tempo e i fatti ci hanno dato ragione.

I droni erano del tipo “esca”, privi di esplosivo, e la loro traiettoria era più compatibile con un lancio dall’Ucraina. La narrazione di un attacco russo deliberato è stata ritrattata dalla stessa NATO.

Fine dei giochi. Almeno per ora. Fino alla prossima, disperata, provocazione.

FRANCISCO GOYA, L’ARTISTA DELLA COSCIENZA E IL DOVERE ETICO DELLA RIBELLIONE

Siamo immersi in un’epoca di rumore.

Un frastuono assordante di narrazioni contrapposte, di propaganda che si fa virale, di verità relativizzate fino all’annichilimento.

In tale contesto, la figura dell’artista – il vero artista – non può e non deve essere un semplice decoratore di salotti o un fornitore di intrattenimento. Deve essere la coscienza. Deve essere Goya.

Francisco José de Goya y Lucientes non fu solo un pittore, ma un analista sensibile e spietato che registrò le scosse più violente dell’animo umano, trasformando la tela in un tribunale morale.

La sua opera più emblematica, “Il 3 maggio 1808”, non è un semplice dipinto, ma una diagnosi sociologica ante litteram della violenza del potere costituito contro l’individuo.

Analizziamola, come faremmo con un testo mediatico di oggi.

Un uomo, il ribelle, in camicia bianca, braccia spalancate in un gesto che è insieme crocifissione e sfida disperata. La luce di una lanterna lo illumina, trasformandolo nell’epicentro della verità.

Di fronte, un plotone di esecuzione. Non si tratta di volti, non di uomini, ma di una squadra, di una macchina di morte. Un ingranaggio anonimo e disumano del potere militare.

Il fucile è pronto, puntato. È l’immagine della ragione di Stato che si fa irragionevole follia.

Goya non ritrae un eroe, ritrae un uomo qualsiasi, colto nel momento più tragico della sua esistenza. È la disumanizzazione della macchina da guerra contro l’umanità vulnerabile della vittima.

Questo non è reportage, ma una denuncia fatta di colori e di sangue.

Ma cosa ci comunica Goya? Ci mostra che il potere, quando è indiscutibile, quando elimina il contraddittorio, quando si fa dogma, diventa mostruoso.

La sua serie “I disastri della guerra” è un’enciclopedia visuale dell’orrore prima dell’avvento della fotografia. È il lato oscuro della Storia, quello che i bollettini ufficiali e i comunicati stampa dei potenti cercano sempre di occultare.

E qui arriviamo al ruolo e al dovere dell’artista oggi.

L’artista con la A maiuscola non è un cantore del regime di turno e nemmeno un artigiano che abbellisce salotti.

Non è un pubblicitario di ideologie, perché il suo compito è quello di sollevare il tappeto sotto cui il potere nasconde la sua sporcizia.

Il vero artista è un anticorpo sociale contro il virus della propaganda, della guerra, della semplificazione tossica che soffoca il dialogo.

Oggi le fucilazioni sono più sottili. Sono disinformazione orchestrata. Sono narrazioni che demonizzano il diverso, l’avversario, il “ribelle” di turno. Sono ideologie che promuovono lo scontro, che erigono muri invece di costruire ponti.

L’artista deve forare questi muri con il trapano della sua visione.

Il suo dovere è lottare per la verità? No.

È più profondo. È lottare per la complessità. Per mostrare che il mondo non è bianco o nero, ma è fatto di infinite sfumature di grigio, di ragioni contrapposte, di dolori ugualmente legittimi. Il suo compito è ricordarci l’umanità dell'”altro”, quello che il potere ci chiede di odiare.

È un atto di resistenza umanizzata in un mondo che spinge verso la disumanizzazione.

Pensate alle immagini dei conflitti contemporanei e alle propagande.

Chi ce le mostra, chi le racconta?

Spesso sono algoritmi che ci mostrano ciò che vogliamo vedere, confermandoci i nostri pregiudizi.

L’artista deve essere l’interruzione di quel flusso. Deve costringerci a guardare. A sentire. A mettere in discussione.

Che sia attraverso un dipinto, una fotografia, un film, un’installazione, una performance.

Deve ricordarci il costo umano della retorica bellicosa. Deve essere il campione della pace non come idea astratta, ma come pratica faticosa, quotidiana, fatta di ascolto e accettazione del contraddittorio.

Goya non fermò la guerra con i suoi quadri, ma li ha lasciati a noi come un testamento, una mappa per navigare nell’oscurità.

L’artista moderno eredita quella mappa.

Il suo successo non si misura alle aste di Christie’s, ma nella capacità di piantare un seme di dubbio, di generare una domanda scomoda, di accendere una luce, per quanto fioca, sulle verità sgradevoli del nostro tempo.

Che si tratti di un pittore, di uno scrittore, di un cantautore, di un giornalista, di un attore… non cambia. Chiunque abbia il potere di comunicare può veicolare l’arte del vero.

Essere artisti oggi significa rifiutare la complicità con il silenzio e con le propagande.

Significa scegliere di essere, come Goya, testimoni scomodi. Perché in un’epoca di grandi menzogne, dire la verità è il più rivoluzionario degli atti. E l’arte è la sua arma più potente.

IO DRONO, TU DRONI, EGLI DRONA. COME UN DRONE DA 20.000 EURO DIVENTA L’INVASIONE DELLA NATO NEL CIRCO MEDIATICO, IN STILE ROBERTO MICOZZI

Dalla Romania alla Polonia, la strategia della “minaccia perpetua” ricorda la gag dei bersaglieri di “Io Tigro, Tu Tigri, Egli Tigra”.

Proprio come accaduto al manipolo di sgangherati in divisa, nella commedia comica con Enrico Montesano, anche nella nostra realtà, un non-evento viene trasformato in qualcosa che non esiste.

Tutto per giustificare riarmi e preparativi alla guerra.

Due caccia F-16 contro un drone. Uno soltanto.

Non è una barzelletta, ma l’ultimo atto del “circo mediatico” europeo, degno delle gesta maldestre di Roberto Micozzi, imbarazzante svalvolato interpretato da Enrico Montesano.

L’ILLUSIONE DELLA CRISI IMMINENTE

“Notte di terrore ai confini della NATO”. “Raid russi”. “Jet in volo per respingere la minaccia”.

Il copione sembra proprio quello del film “Io tigro, tu tigri, egli tigra”, recitato con una solennità che farebbe invidia a un telegiornale degli anni ’50.

Un brusio ansioso, un’atmosfera da ultimissima ora, da crisi imminente, costruita con il trapano dei titoli a ripetizione.

Ma cos’è successo davvero?

La risposta è così ridicola che, se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate.

E se non fosse per la macchina perfetta che trasforma un moscerino in un drago, per vendergli poi le armi per abbatterlo. È proprio il copione di “Io Tigro, Tu Tigri, Egli Tigra”, ma con conseguenze che vi costeranno miliardi anziché risate.

SEZIONE I: IL FATTO VS. LA NARRAZIONE – CRONACA DI UN NON-INCIDENTE

Facciamo quello che i nostri giornalisti “professionisti” non fanno più: il fact-checking.

Il fatto nudo e crudo è che un oggetto volante, classificato come “drone”, deviato dalle contromisure elettroniche ucraine, è finito per sconfinare di qualche centinaio di metri nello spazio aereo rumeno.

Da una parte, uno (1) drone. Costo stimato: 20.000 euro. Forse meno. ma fosse anche di più, cambierebbe poco.

Dall’altra, la risposta della NATO: due (2) caccia F-16 decollati in assetto da guerra. Costo di un’ora di volo per una simile operazione di decine di migliaia di euro.

Il bilancio dell’“attacco”?

Il drone, stanco di tanta attenzione, è scomparso dai radar riuscendo dallo spazio aereo rumeno.

Nessun abbattimento. Nessun danno. Nessuna vittima. Zero. Una perfetta metafora della guerra: tanto fragore per nulla, ma a caro prezzo.

Quanto raccontato dalle agenzie di stampa sulle parole del Ministro della Difesa rumeno è questo. Niente di più.

Poi andate a leggere i titoli dei nostri giornali e sembra la sceneggiatura di “Independence Day”.

La discrepanza tra la realtà e la sua narrazione è un abisso. E in quell’abisso, scavato a colpi di click, ci finisce la verità.

SEZIONE II: IL MANUALE DELLA PROPAGANDA – COME SI ALIMENTA “IL CIRCO”

Il metodo è scientifico e preoccupante.

Punto 1, L’Innesco (Il Drone).

Serve un pretesto per alimentare la paura e causare una guerra.

Deve essere piccolo, insignificante, ma perfettamente utilizzabile. Un drone da 20.000 euro è l’innesco perfetto: è “russo” (forse), è “volante”, evoca il pericolo remoto.

È il bersagliere interpretato da Montesano che sconfina in Svizzera. Una figura patetica di un manipolo di uomini che, nella narrazione cinematografica, diventa un intero battaglione.

Così, nella finzione della propaganda italica, un drone diventa una minaccia, la prova provata dell’aggressività della Russia e della sua intenzione di arrivare a Lisbona in tempi brevi.

Solo che non riescono neppure a fare pace col cervello, perché, mentre ci raccontano tali supercazzole, ci ricordano che la Russia non è una superpotenza in quanto è impantanata da tre anni in Ucraina.

Punto 2, il copione collaudato.

Nel 2022, toccava alla Polonia: un “razzo russo” cadde vicino al confine. Notizia martellante per giorni. Poi, le indagini smontarono la propaganda occidentale, perché si scoprì che il missile russo non era russo, ma ucraino.

Solo che nessuno invocò l’art. 5. Nemmeno il 4.

La notizia sparì con lo stesso silenzio che cala dopo una figuraccia.

Poi ci fu il Nord Stream 2, danneggiato seriamente dai russi. Anche in questo caso, tuttavia, la magistratura tedesca ha accertato che l’attentato è stato eseguito dagli ucraini. E anche in questo caso, nessun Art. 4 o 5 invocato.

La scorsa settimana, poi, i droni in Polonia. A ruota, ecco il drone in Romania.

Stessa sequenza: allarme, titoli, silenzio sulle smentite.

Si crea un pattern, un’illusione di continuità della minaccia. È la goccia che scava la pietra dell’opinione pubblica, seguendo quanto spiegato in maniera magistrale dalla teoria della Finestra di Overton.

Punto 3, l’escalation verbale. Si altera il linguaggio.

Non si parla di “oggetto”, ma di “drone da ricognizione”.

Non di “sconfinamento”, ma di “violazione dello spazio aereo”.

Non di “decollo di aerei”, ma di “risposta militare” e “vigilanza rafforzata”.

Ogni termine è scelto per massimizzare la percezione del pericolo e minimizzare l’assurdità della reazione. È la retorica della paura, quella che, con la parte di popolazione che non si informa su ciò che accade nel mondo da più fonti, funziona sempre.

SEZIONE III: CUI PRODEST? SEGUIRE IL DENARO E IL POTERE

A questo punto, anche uno studente poco sveglio dovrebbe porsi la domanda delle domande: “cui prodest? A chi giova?”

A giustificare il riarmo, è palese. Giova a chi deve vendere la necessità di spendere miliardi per l’industria bellica.

Un drone che sconfina?

Perfetto! Ecco la giustificazione per schierare 40.000 soldati alla frontiera orientale. Ecco il motivo per alzare i budget della difesa in tutta Europa. Ecco la scusa per rifornire l’Ucraina di sempre più armamenti, per quei 120 miliardi chiesti ancora da Zelensky.

Tuttavia, c’è un problema, una falla narrativa gigantesca.

Da un lato, ci raccontano di una Russia fallita, con soldati armati solo di pale, senza stivali, incapace di vincere nonostante tutto.

Dall’altro, questa stessa Russia sarebbe una minaccia esistenziale per la NATO, la più potente alleanza militare della storia, al punto che un suo drone, uno soltanto, costringe due F-16 a un inseguimento degno di uno sketch comico.

Le due cose non possono essere entrambe vere.

È una schizofrenia narrativa utile solo a giustificare qualsiasi spesa, qualsiasi intervento.

La Russia è forte e pericolosa quando serve a spaventare, ma è debole e patetica quando serve a giustificare l’invio di armi per “dare il colpo di grazia”.

Il prezzo di questa farsa lo paghiamo noi.

Mentre i nostri governi svuotano le casse pubbliche per comprare carri armati e aerei da caccia per inseguire fantasmi, la sanità crolla, le scuole cadono a pezzi, il costo della vita diventa insostenibile e si mettono in discussione le politiche di welfare.

Il vero raid ai nostri confini non è quello del drone, ma quello dei bilanci che vengono violati per finanziare un’economia di guerra che ha bisogno di nemici per sopravvivere.

Tutto per salvare il tintinnio di manette a politici che hanno fallito ogni politica possibile, ogni analisi, ogni ipotesi, ogni visione. E, in un mondo normale, dovrebbero pagarne il conto.

L’ECLISSI DELLA RAGIONE E IL PREZZO DELLA PAURA

Il vero pericolo, quindi, non è un drone fuori rotta.

Il vero pericolo per noi tutti è un sistema mediatico-politico che ha abdicato al suo dovere di informare per dedicarsi esclusivamente a suggestionare, a creare nemici e pericoli a fini politici e in favore di certe lobby.

È l’eclissi della ragione a favore dell’istinto primordiale della paura. E del dio denaro.

Si osserva, con preoccupante compiacimento, il fallimento sistematico di ogni via diplomatica, come se la guerra fosse l’unico destino possibile e, forse, persino desiderabile per chi ne trae profitto.

Chiudiamo allora con un appello alla ragione, quella che manca ai telegiornali e gran parte dei giornalisti italiani.

Mentre i nostri schermi si riempiono di minacce fabbricate e i nostri cieli di costosissimi jet a caccia di fantasmi, – alla faccia delle politiche green, – le nostre tasche si svuotano e la pace si allontana.

La domanda che dobbiamo porci non è più se siamo al sicuro dalla Russia, ma se siamo al sicuro da chi pretende di difenderci.

Che sia l’Europa il nemico di cui avere paura?

IL RUTILANTE MONDO DELLA MODA 

Sì, è un titolo anni ’60. Lo riconosco.

Ma rispetto a quello che sta succedendo ora nel mondo della moda, preferisco pensare che tutto sia ancora placidamente luccicante come a quel tempo. 

Credo che possiamo mettere la data dell’inizio della più profonda trasformazione e rivisitazione in ambito mondiale collocandola a fine 2024. 

Non è che prima fossero rose e viole, ma tutto ruotava nell’ambito delle acquisizioni dei brand famosi da parte dei due grandi raggruppamenti francesi o giù di lì: Kering e Lvmh.

I grandi e storici brand italiani della moda sono ancora tutti lì. Ma anche quelli più recenti. Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato, Fendi, Loro Piana…per citarne solo alcuni, sono in mano ai due gruppi francesi. 

Su oltre 30 Marchi storici della moda Italiana solo un terzo circa è ancora in mano ad imprenditori del Bel Paese.

È vero, ci sono le eccezioni. Prada, che si è recentemente ricomprato Versace, e Armani scomparso da poco, ma sulla cui eredità imprenditoriale sembrano aleggiare futuri non certi.

Parliamo pur sempre di un fatturato espresso in miliardi e di un Made in Italy legato a stilisti e manager che portano spesso un nome di casa nostra e ad una sartorialità riconosciuta e apprezzata in ambito mondiale. 

Ma anche gli italiani hanno fatto acquisizioni importanti nel tempo. La OTB di Renzo Rosso, ad esempio, ha nel proprio portafoglio Jil Sander, Marni, Margiela oltre ovviamente al brand storico Diesel.

I GIRI DI VALZER E LA CRISI IN ATTO

Come dicevamo all’inizio, noi abbiamo fatto risalire questo tourbillon alla fine del 2024, quindi meno di un anno fa. Da allora sono cambiati stilisti, designer, CEO, proprietà e soprattutto fatturati. In calo.

La crisi dei mercati asiatici, i dazi imposti dagli USA sulle esportazioni europee, le turbolenze di guerra hanno segnato profondamente la propensione all’acquisto. 

Ci sono poi da considerare la crescita delle produzioni interne dei nuovi colossi economici mondiali, rafforzata dalla potenziale numerica dei domestic buyer, un diffuso cambio di clima geopolitico e, non ultimo, la nascita di una nuova realtà sociale. 

Il trionfo del fast fashion ispirato comunque alle griffe che fanno tendenza, ha prodotto il resto.

L’online, con i distributori mondiali a farla da padrone, ha modificato anche l’atteggiamento dei consumatori nei confronti del prodotto e delle sue scelte commerciali. 

Non è un de profundis, ma una visione obiettiva, penso, dettata non dai rumors ma dai fatti che sono sotto gli occhi di tutti. Una incertezza globale dovrebbe far riflettere sugli stili di comportamento e di acquisto che cambiano rapidamente.

Anzi sono già cambiati! Nulla di male ad essere ricchi e permettersi ancora i lussi degli anni d’oro quando la moda era la moda e faceva la differenza. Una delle differenze sociali.

Gli altri a guardare e a farsi gli occhi lucidi.

Anche qui oggi, nulla di male a sperare di appartenere un giorno a quel mondo dorato e rutilante. Almeno non dobbiamo spendere per questo.

Non costa niente. Ma guai ad appartenere alla schiera degli inutili invidiosi. Preserviamoci il fegato. Ne vale la pena.

L’ASSASSINIO DI CHARLIE KIRK È FRUTTO DELLA POLARIZZAZIONE TOSSICA NELL’ERA DEI PENSIERI UNICI

UN ATTO BRUTALE CHE RISPECCHIA UNA SOCIETÀ DIVISA

Mercoledì scorso, all’Utah Valley University, non è morto solo un uomo, ma è stato assassinato un simbolo, un’idea di contraddittorio.

Non si è eliminato Kirk perché il Presidente degli USA è troppo protetto, come ha paventato qualcuno, – ma si è scelto di eliminare un modus operandi pericoloso per chi tifa per i pensieri unici.

Colpito al collo da un proiettile sparato da cento metri di distanza, Charlie Kirk è diventato istantaneamente il martire di una fazione e il demonio di un’altra.

La sua uccisione, ripresa e diffusa in tempo reale, è il sintomo più acuto e drammatico di una malattia sociale che corrode gli Stati Uniti d’America e gran parte dell’Occidente, compresa l’Italia: la polarizzazione tossica, alimentata e amplificata dalle logiche distorte dei social media, che sta sfociando in violenza fisica, e in “pensatori” che riescono persino a trovare giustificazioni dell’omicidio.

La reazione immediata e diametralmente opposta all’evento conferma questa frattura.

Da un lato, il cordoglio elevato a bandiera politica. Dall’altro, l’oltraggiosa e disumana giustificazione dell’atto, una sorta di “banditismo sociale” nell’era digitale, dove un assassinio diventa un simbolo da brandire per rafforzare l’identità di gruppo, alimentando le camere d’eco e giustificando l’ingiustificabile.

CHI ERA REALMENTE CHARLIE KIRK?

Per comprendere appieno l’impatto dell’evento, è necessario analizzare la vittima in modo neutro, distaccato e nella sua complessità.

Charlie Kirk era, senza dubbio, una figura profondamente polarizzante. Le sue idee erano radicali, conservatrici, spesso provocatorie e divisive.

Tuttavia, il suo metodo comunicativo rappresentava un paradosso interessante, poiché Kirk non rifuggiva il confronto, ma, al contrario, lo incoraggiava.

Il suo mantra “Prove Me Wrong” (dimostrami che mi sbaglio) era un invito aperto al dibattito, un tentativo di portare lo scontro ideologico fuori dalle bolle delle propagande, e delle ideologie, e dentro le piazze fisiche e digitali, sotto gli occhi di tutti.

Nei campus universitari, ambienti spesso percepiti come monoliticamente progressisti e vicini ai Democratici, la sua presenza era una sfida che incoraggiava gli studenti a contestarlo, a dialogare, anche aspramente.

Questo approccio, come sottolineato dal senatore Mike Lee, era spesso caratterizzato da una genuina decenza nel trattamento dell’interlocutore.

La sua radicalità stava nelle idee, non necessariamente nella modalità di interazione umana. Era un agitatore di consensi, non un soppressore di voci.

Questa distinzione è cruciale.

Perché a essere uccisa è stata una persona che chiedeva a chi la pensava diversamente di esprimersi. Chi lo ha ucciso, come si evince, persegue la logica fascista del tappare la bocca a chi pensa diversamente.

La sua morte, quindi, non è solo l’eliminazione di un avversario politico, ma il tentativo di annichilire un modello di confronto, per quanto aspro e polarizzato, che segna la terribile transizione dalla violenza verbale a quella fisica perpetrata da certi ambienti.

Ambienti che sono gli stessi in cui nascevano le Brigate Rosse.

LA SPIRALE DELL’ODIO: COME I SOCIAL MEDIA ALIMENTANO IL CONFLITTO

L’omicidio di Kirk è stato il detonatore, ma la polveriera era già colma. I social media hanno agito come moltiplicatori di potenza della polarizzazione, trasformando un atto criminale in una guerra narrativa.

Martirizzazione vs. Demonizzazione. Le piattaforme si sono immediatamente divise in due narrative opposte e irriconciliabili.

Da una parte, Kirk è stato elevato a martire della libertà di parola, un paladino ucciso per le sue idee. Dall’altra, sono emersi messaggi abietti che lo dipingevano come meritevole del suo destino. Due realtà parallele.

Tuttavia, balza subito all’occhio come soltanto una delle due giustifichi un atto atroce come l’omicidio e ciò fa inorridire.

Ma la violenza non porta mai nulla di buono e finisce con il rafforzare chi si vuole sconfiggere.

Per gli estremisti online, eventi del genere sono un’opportunità d’oro, poiché gruppi di frangia usano queste narrative per rafforzare la coesione interna (“vedete cosa ci fanno?”) e per reclutare nuovi membri radicalizzati, dipingendo il mondo come una guerra binaria tra Bene e Male.

È già accaduto nella Storia. L’incendio del Reichstag del 1933, appiccato dal comunista olandese Marinus van der Lubbe contro le idee di Hitler, fu usato dallo stesso Hitler come pretesto per sospendere i diritti civili, perseguitare gli oppositori politici e, di fatto, “uccidere definitivamente la democrazia tedesca”.

Allo stesso modo, l’omicidio di Kirk concede a Trump il pretesto per una stretta autoritaria.

La complessità umana di Kirk, con il suo essere al tempo stesso polarizzante e fautore del dibattito, è stata completamente cancellata perché il contraddittorio fa tremare chi tifa per i pensieri unici.

Nello scontro narrativo, non c’è spazio per le sfumature.

Solo bianco o nero. Con noi o contro di noi.

Una dicotomia sostenuta, incoraggiata e perpetrata da una certa stampa dalla pandemia a oggi, che ha cancellato il contraddittorio, visto come il male assoluto, e ha zittito qualunque voce dissonante, compresa quella di medici e perfino di Premi Nobel per la Medicina.

E quando la stampa sostiene e fa prevalere le idee dell’attore e dell’impiegato su quelle del medico Premio Nobel, l’affermazione dell’idiota è il passo successivo, compreso il killer che pensa di essere un salvatore più intelligente e “buono” di altri.

Perché i social danno facoltà di parola a tutti, come al bar, compresi quelli che non hanno studi e competenze nelle materie di cui pretendono di discutere.

E basta leggere i commenti sotto ai post per distinguere chi esprime opinioni, argomentando anche tesi differenti, e chi, invece, insulta e attacca l’autore del post pur di commentare.

IL CORTOCIRCUITO CULTURALE: FASCISMO, ANTIFASCISMO E LA TIRANNIA DEL PENSIERO UNICO

La riflessione più agghiacciante va oltre l’evento specifico.

Perché non è finito tutto con l’omicidio brutale di Kirk, ma stiamo assistendo a un pericoloso cortocircuito culturale.

Dalla pandemia in poi, si è affermata una perversa logica del pensiero unico che, paradossalmente, utilizza il linguaggio e le tattiche di chi nella storia ha attuato dittature.

Si professa antifascismo mentre si sdoganano logiche da dittatura: la gogna mediatica, la delegittimazione dell’avversario non in base alle idee, ma all’identità, l’etichettamento sistematico (novax, trumpiano, putinano…) per chiunque non si riesce a battere con le argomentazioni e, infine, la giustificazione – esplicita o implicita – dell’eliminazione fisica del dissenso.

È l’idea nazista che solo un certo pensiero sia lecito.

Questa deriva non ha colore politico, perché l’idiozia e la violenza sono apolitiche. Possono attecchire sia a destra che a sinistra, perché sono virus che infettano il discorso pubblico, distruggendo il tessuto della democrazia liberale che si fonda sul conflitto regolato e non violento.

UN APPELLO ALLA RESPONSABILITÀ: OLTRE IL LUTTO, LA SCELTA

Condannare la violenza è il minimo indispensabile.

E chi in questi giorni ha detto e scritto “ma… però” andrebbe solo calcolato come soggetto pericoloso per la società e per la democrazia.

Ma non è sufficiente condannare la violenza.

La società civile, i leader politici e soprattutto le piattaforme digitali hanno una responsabilità monumentale e dovrebbero isolare, tutti, chiunque abbia applaudito a questo omicidio.

Dobbiamo rifiutare con fermezza assoluta chiunque esulti o giustifichi un assassinio, non per “partigianeria”, ma in difesa dei fondamenti umani della civiltà democratica.

Dobbiamo promuovere attivamente una cultura del dialogo che vada oltre la tolleranza passiva e diventi un confronto attivo e rispettoso.

E sì, per fare questo, bisognerebbe isolare anche quella stampa che veicola da cinque anni fake news e promuove l’odio e la negazione del contraddittorio, affibbiando etichette a chiunque dissenta.

L’uccisione di Charlie Kirk deve essere un campanello d’allarme per tutti.

Onorare la sua memoria, al di là delle sue idee, significa onorare il principio per cui si batteva: il diritto al dibattito, allo scontro ideologico anche duro, ma sempre all’interno di un patto di civiltà che esclude categoricamente la violenza.

Scegliere l’odio significa scegliere la barbarie. Scegliere il dialogo, per quanto difficile, significa scegliere la democrazia.

Una scelta difficile per chi ha menti troppo piccole per contenere il concetto enorme per cui non esiste la verità, ma una serie di verità diverse quanti sono i punti di vista.

La posta in gioco non potrebbe essere più alta.

Dott. Danilo Preto

Giornalista pubblicista, Scienze Politiche, Esperto di Comunicazione e arte concettuale.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, Politiche Internazionali, Esperto di Comunicazione e critico d’arte.

L’INDIGNAZIONE SELETTIVA CHE SVALUTA LA CREDIBILITÀ OCCIDENTALE

Un pugno di droni, forse persi, forse mal diretti, viola lo spazio aereo di un paese NATO e immediatamente, le cancellerie del mondo si infiammano.

Una casa sarebbe stata danneggiata da un drone, ma la smentita degli abitanti, che hanno spiegato come fosse danneggiata da mesi in seguito a una tempesta, testimonia l’ennesima fake news della propaganda russofoba.

Si parla di attacco deliberato, si invoca l’Articolo 4, si mobilitano caccia.

L’incidente, per quanto materialmente insignificante, poiché senza vittime e con danni irrisori, diventa un problema epocale per alcune ore.

Poi, il silenzio.

Un silenzio assordante che accompagna eventi di ben altra magnitudine.

L’INCIDENTE POLACCO È UN SINTOMO, NON LA MALATTIA

Analizziamo la reazione del Presidente Zelenskyy.

Non è frustrazione, ma una strategia.

La sua delusione per la “mancanza di una risposta ferma” da parte dell’Europa non è il lamento di una vittima, ma il tentativo di un abile operatore politico di utilizzare una leva, per quanto fragile, per raggiungere l’obiettivo che ha da tempo: l’intervento diretto della NATO.

I droni in Polonia sono stati visti come un’occasione d’oro per forzare la mano agli alleati, trasformando un incidente di frontiera in un potenziale casus belli.

Ammesso che non fosse, invece, un “incidente provocato da Kiev” per arrivare all’intervento NATO, come lo sono stati il missile in Polonia nel 2022 e il danneggiamento del NordStream.

L’Europa, dal canto suo, ha esitato.

Non per codardia, ma per un improvviso, brutale ritorno alla realtà.

La narrazione pubblica, satura di retorica morale, si è scontrata con la fredda realtà di una guerra diretta con la Russia che sarebbe un’opzione insostenibile.

Così, dopo l’iniziale sfoggio di fermezza, gli “spiriti bellicosi” si sono placati, trasformando l’attacco in un incidente, e l’indignazione in una più gestibile “preoccupazione”.

L’episodio, tuttavia, è servito a giustificare un’ulteriore accelerazione delle spese militari di fronte a un’opinione pubblica ora più suggestionabile. Soprattutto quella parte che ha creduto alle pale, ai microchip e ad altre sciocchezze della propaganda russofoba.

QUANDO IL SILENZIO DIVENTA COMPLICITÀ

Mail vero problema si incontra quando si confronta questo fragore mediatico con il silenzio che avvolge altre azioni.

Mentre l’Occidente la dipinge come il baluardo della democrazia, l’Ucraina adotta misure che in qualsiasi altro contesto verrebbero definite illiberali. In Russia, per esempio.

Un cameraman di una televisione di stato austriaca viene arrestato e detenuto per giorni senza spiegazioni.

Vengono avviati centinaia di procedimenti penali contro sacerdoti di una specifica confessione religiosa, di fatto limitando la libertà di culto.

Beh, queste non sono le azioni di una democrazia liberale sotto assedio, ma quelle di uno stato che sta consolidando il potere con metodi che stridono violentemente con la narrazione ufficiale.

Eppure, la condanna da parte dell’Europa è inesistente. Zero.

E le storielle sulla difesa della democrazia? E la difesa dei diritti umani?

Intanto, Israele, un partner strategico dell’Occidente, compie attacchi su territori sovrani di almeno tre nazioni diverse (Siria, Libano, Yemen) e bombarda un edificio diplomatico iraniano, un atto che secondo il diritto internazionale costituisce una palese violazione.

Uccide membri di Hamas durante negoziati di pace ospitati dal Qatar, di fatto sabotando il processo di mediazione.

Veri e propri atti di guerra deliberati, ma la reazione internazionale?

Un invito generico alla “de-escalation” e niente di più.

Il contrasto è sconcertante. Una decina di droni malandati in Polonia scatena quasi la Terza Guerra Mondiale, mentre atti di guerra conclamati in Medio Oriente o la soppressione di libertà civili in Ucraina vengono accolti con un’alzata di spalle.

LA GERARCHIA DELLA VITTIMA E LA GUERRA NARRATIVA

È chiaro come siamo di fronte a un fenomeno noto come guerra narrativa, ovvero l’impiego strategico dell’informazione e dell’inquadramento morale per raggiungere obiettivi geopolitici.

Assistiamo alla meticolosa calibrazione dell’indignazione come strumento di potere.

Si crea una gerarchia della vittima per cui un potenziale danno in un paese NATO per mano del “nemico designato” ha un valore narrativo infinitamente superiore a un danno reale inflitto da un “alleato” o da un “protetto”.

La morale, pertanto, non è più un principio universale, ma si trasforma in una risorsa tattica da schierare o ritirare a seconda della convenienza.

Questo meccanismo ha due funzioni primarie.

  1. La narrazione del “bene contro il male” semplifica una realtà complessa, unisce l’opinione pubblica e giustifica sacrifici economici e l’erosione delle libertà in nome della sicurezza.
  2. Amplificare la minaccia russa giustifica il riarmo e il sostegno illimitato a Kiev. Minimizzare altre violazioni permette di mantenere alleanze strategiche senza dover affrontare le loro scomode contraddizioni.

LE CONSEGUENZE: SVALUTARE LA FIDUCIA E PERDERE IL FUTURO

Qual è il risultato finale di questa strategia, però? A breve termine, può sembrare efficace. A lungo termine, è un suicidio geopolitico.

Se la “democrazia”, la “libertà” e la “sovranità” sono concetti applicabili solo quando conviene, perdono ogni potere di persuasione, perciò diventano gusci vuoti, percepiti dal resto del mondo come l’ennesimo strumento dell’egemonia occidentale.

La credibilità dell’Europa, infatti, è ridotta ai minimi termini.

Il diritto internazionale è una farsa, un menù à la carte da cui ogni potenza sceglie le regole da rispettare e quelle per cui sbraitare contro la Corte Penale Internazionale.

L’incidente dei droni in Polonia non sarà l’ultimo perché Kiev può contare solo sullo scoppio della Terza Guerra Mondiale per salvarsi, se non scenderà a patti con Mosca. E non si vedono grandi menti tra i consiglieri di Zelensky, perciò i patti li vedo assai lontani.

Assisteremo ad altre crisi, altri “incidenti”, altre indignazioni calibrate, altri silenzi strategici, mentre ulteriori ucraini saranno mandati a morire al fronte.

Per questo motivo non dobbiamo mai smettere di domandarci “A chi giova? Chi trae beneficio da questo episodio?”

“Quali altre storie, altrettanto o più gravi, vengono deliberatamente ignorate?”

Perché dai droni e dal missile in Polonia, così come dal danneggiamento del NordStream, Mosca ha solo da perdere, mentre Kiev è l’unica che possa guadagnarci qualcosa.

La vera guerra, oggi più che mai, si combatte con la Comunicazione, l’arma più potente in assoluto.

Perderla significa perdere molto più di un territorio.

Significa perdere l’autorità morale di definire il futuro.

DRONI IN POLONIA: INCIDENTE, ERRORE O PROVOCAZIONE? L’OMBRA DI KIEV DIETRO L’ULTIMO CASUS BELLI

Dai microchip al “missile russo” in Polonia, dalle pale dell’Ottocento fino al Nordstream danneggiato da Mosca e al GPS dell’aereo di von der Leyen, abbiamo assistito a una lunga scia di disinformazione che rischia di trascinare la NATO in guerra.

Mentre l’Occidente condanna Mosca per “presunti” droni russi, i fatti presentano una realtà più complessa e inquietante.

I cieli polacchi sono diventati teatro di droni “non identificati” che hanno violato lo spazio aereo NATO.

Il buonsenso avrebbe richiesto un’indagine per accertare la reale provenienza di questi droni prima di sbilanciarsi, invece, si è subito scatenata una reazione dei media occidentali contro Mosca, come fosse un’azione propagandistica preparata da tempo.

Ma non esistono prove che i droni siano russi, se non presunte scritte in cirillico sui rottami che potrebbero essere state applicate da chiunque, così come l’esercito di Kiev avrebbe potuto facilmente utilizzare droni catturati al nemico.

Inoltre, questi droni vagavano senza bersagli, come smarriti per un’interferenza, perciò parlare di attacco è una fake news.

Varsavia parla di “violazione senza precedenti”. Von der Leyen annuncia 6 miliardi di aiuti e un’alleanza sui droni con l’Ucraina.

I falchi occidentali gridano all’aggressione russa. Zelensky accusa Mosca di attaccare direttamente la NATO e punta tutto sulla guerra mondiale, la sola cosa che potrebbe salvare la sua carriera politica.

Ma tante cose non tornano.

I droni russi erano privi di testata esplosiva, perciò non regge la tesi dell’attacco deliberato.

Il Ministero della Difesa russo nega qualsiasi obiettivo in Polonia, inoltre, le forze bielorusse hanno avvertito Varsavia in tempo reale, avvisando di droni fuori controllo, cosa incompatibile con un attacco coordinato. E anche i sassi sanno che se la Russia volesse colpire e far male alla Polonia, basterebbero un paio dei suoi missili ipersonici caricati con testate vere.

Perciò, fa sorridere sentire tesi per cui la Russia vorrebbe testare le capacità di risposta della NATO, in primo luogo perché Washington e Mosca hanno apparati che conoscono il nemico in maniera quasi chirurgica, in second’analisi, Mosca ha a disposizione missili ipersonici imprendibili per i sistemi di difesa NATO, motivo per cui la Russia non ha bisogno di provare alcunché.

Per quale motivo, dunque, la Russia dovrebbe colpire la Polonia? Quale vantaggi otterrebbe?

Nessuno. Ecco perché anche solo ipotizzare un attacco russo è analisi da bar.

La NATO e Tusk, dopo le prime parole irresponsabili, ora sembrano meno convinti e parlano di “provocazione”, non più di “attacco”.

Ma cosa è accaduto in maniera più probabile?

Proviamo a valutare i fatti.

Kiev è in difficoltà militare quasi tragica. La sua unica speranza è un intervento diretto della NATO. E questo è dimostrato dal campo di battaglia.

I droni in Polonia, territorio NATO, potrebbero fornire il pretesto perfetto per un’escalation.

Le “scritte in cirillico”, facilmente falsificabili o applicate su droni catturati alla Russia, e la rapida diffusione di video allarmistici da parte di provocatori ucraini in Polonia suggeriscono un’operazione preparata nei minimi particolari, in netto contrasto con quanto ci si aspetterebbe in casi del genere, cioè riprese concitate dopo la scoperta improvvisa di oggetti non identificati nei cieli.

LA LUNGA SCIA DELLE “FAKE NEWS” RUSSOFOBE

D’altronde, quelli che in queste ore parlano di attacco russo sono gl stessi che hanno raccontato frottole per tre anni.

Si può ancora credere loro?

Il missile del 2022, piovuto in Polonia, fu inizialmente identificato come russo, poi si accertò che era ucraino. Il danneggiamento del Nord Stream, attribuito inizialmente a Mosca, è stato, invece, un atto terroristico ucraino, come accertato dalle indagini tedesche.

Poi, dai microchip rubati dagli elettrodomestici alle pale dell’800, di panzane ne hanno raccontate così tante che la loro credibilità è pari a quella di un baro professionista.

IL DOPPIO STANDARD GEOPOLITICO

Droni disarmati che violano lo spazio aereo senza una meta precisa, perciò, se fossero davvero russi, è chiaro che avevano perso il controllo e che si è trattato di un incidente, ma ecco che l’Europa grida compatta all’atto di guerra.

Intanto, Israele viola la sovranità del Qatar per omicidi mirati, ma non ci sono riunioni né sanzioni, neppure un avvertimento concreto, se non parole di fuoco e post ai quali, per ora, non è seguito niente di tangibile.

Lo stesso recente discorso di von der Leyen, che ha annunciato lo stop all’accordo commerciale con Israele, non trova riscontro reale tra la volontà dei governi europei.

Anche un cerebroleso comprende che si applicano due pesi e due misure, accanendosi contro la Russia e cercando ogni pretesto per alimentare lo scontro, mentre si perdona tutto a Israele.

Il che dimostra perché è molto probabile che i droni con le presunte scritte in cirillico non siano affatto partiti dall’esercito russo, ma che si tratti di un ennesimo tentativo di attirare la NATO nel conflitto e di giustificare spese per armi e politiche belliciste che servono a salvare dal fallimento gli attuali leader europei.

Si dice che la tesi più logica e più semplice sia anche la più probabile, perciò l’incidente dei droni in Polonia appare come un pericolosissimo tentativo di provocazione orchestrato da chi avrebbe tutto da guadagnare e niente da perdere da un ingresso della NATO nel conflitto ucraino.

E c’è solo un governo che corrisponde a questo profilo. E no, non è affatto quello di Mosca, che da un coinvolgimento della NATO avrebbe solo da perdere.

L’Occidente, accecato dalla retorica russofoba, rischia di cadere in una trappola che potrebbe trascinarlo in una guerra mondiale e, con questa cecità politica, la domanda non è più “se” accadrà l’incidente decisivo, ma “quando”.

E se saremo abbastanza lucidi da riconoscere una provocazione di chi sta cercando con ogni mezzo di trascinarci in guerra per salvarsi.

Forse, invece di invocare l’art. 4 per droni che vagano senza meta, sarebbe stato il caso di invocare l’art. 5 per l’aggressione all’Europa con l’attentato al NordStream?

Ma ciò avrebbe distrutto le politiche del riarmo e la narrazione bellicista del nemico russo a ogni costo.

GUERRA FREDDA AI TROPICI. LA SCACCHIERA VENEZUELANA E L’OMBRA DEL NUOVO ORDINE MONDIALE

Dietro la cortina fumogena della lotta al narcotraffico, Stati Uniti e Francia ridisegnano la mappa del potere in America Latina. Un’inchiesta sulle reali poste in gioco, dalle immense riserve petrolifere alla nascita di un nuovo, pericoloso, paradigma delle relazioni internazionali.

L’ATTACCO, PROLOGO ALL’ABISSO

Un sottomarino nucleare classe Virginia, un mostro tecnologico da 3,5 miliardi di dollari, fende le acque calde dei Caraibi come un pugnale invisibile di una flotta da guerra che conta sette navi e 4.500 soldati.

A sorpresa, si unisce alla danza la Tonnerre, nave d’assalto anfibia francese della classe Mistral.

La narrazione ufficiale parla di lotta al narcotraffico che ha il sapore agrodolce di una fiaba per ingenui. La Francia giustifica il suo intervento con la necessità di proteggere i propri interessi e i territori d’oltremare nella regione, come la Guadalupa e la Martinica.

Ciò a cui stiamo assistendo è la prima, fragorosa mossa su una scacchiera grande quanto il pianeta che si sta riorganizzando. Una partita silenziosa per l’egemonia, dove il Venezuela, la sua crisi umanitaria e le sue ricchezze sono la posta in gioco.

Il primo capitolo di una nuova Guerra Fredda.

LA SCINTILLA NEI CARAIBI. ANATOMIA DI UN DISPIEGAMENTO SENZA PRECEDENTI

La storia si ripete, ma lo fa con un armamentario nuovo e una cinica consapevolezza. Il dispiegamento militare nell’Atlantico occidentale non è un’esercitazione, ma un messaggio in codice indirizzato al mondo.

La task force inviata dall’amministrazione Trump non è solo una squadra di polizia antidroga, ma uno strumento di proiezione di potenza puro, per esibire muscoli d’acciaio.

La sua composizione parla un linguaggio inequivocabile: il sottomarino nucleare, capace di condurre operazioni clandestine e di intelligence; le fregate e i cacciatorpediniere, scudi per la difesa aerea e di squadra; i 4.500 marines, una forza d’invasione in miniatura.

Sembra l’architettura di un blocco navale, di un’operazione di “pressione massima” che ha il solo vero obiettivo di strangolare un paese sovrano senza dichiarare formalmente guerra.

L’ENIGMA FRANCESE, IL CAVALIERE OSCURO DELL’UNIONE EUROPEA

L’arrivo della Tonnerre è la variabile che trasforma la crisi regionale in un conflitto geopolitico mondiale.

Perché la Francia, potenza mediterranea e atlantica, dovrebbe impegnarsi così a sud-ovest in un momento in cui è in crisi finanziaria e politica?

Per diversi motivi.

Primo: la difesa degli Départements et Régions d’Outre-Mer (DROM) di Martinica e Guadalupa, avamposti europei nei Caraibi, vulnerabili a qualsiasi destabilizzazione e a flussi migratori incontrollati.

Secondo, e più cruciale: Parigi sta giocando una partita di potere all’interno della NATO e dell’UE.

Allineandosi pubblicamente e militarmente a Washington, Macron cerca di ritagliarsi il ruolo di leader europeo più influente, acquistando capitale politico da spendere in future trattative, in un calcolo pericoloso, che segna una frattura nell’ambigua posizione europea sul Venezuela.

L’ESCALATION VERBALE: OLTRE LA LINEA ROSSA DIPLOMATICA

La retorica è sempre stata un’arma. Trump l’ha trasformata in un’atomica diplomatica. La minaccia esplicita di “abbattere e distruggere” gli F-16 venezuelani che osassero molestare le navi USA non è una sparata casuale, ma la deliberata distruzione di ogni protocollo di de-escalation.

Equipara un’aeronautica militare di uno stato sovrano a dei criminali da eliminare, proprio come fatto in Iran.

Questo linguaggio, studiato e rilasciato tramite Twitter, ha l’obiettivo di normalizzare l’idea di un conflitto armato, preparando l’opinione pubblica nazionale e internazionale all’inevitabile. È la militarizzazione della percezione.

IL VELO DEL NARCOTRAFFICO. LA VERITÀ UFFICIALE E I SUOI BUCHI NERI

La lotta al narcotraffico è il pretesto più nobile e conveniente della geopolitica moderna. Funziona sempre.

Ma analizziamo i dati.

Secondo la DEA statunitense, meno del 4% della cocaina diretta verso gli USA transita attraverso le rotte venezuelane. La stragrande maggioranza passa ancora per il Pacifico, dal Centroamerica e dal Messico.

Perciò, giustifica questa percentuale marginale il più grande dispiegamento militare USA nella regione dagli anni ’80?!

La risposta è, ovviamente, no.

L’operazione è sproporzionata per il fine dichiarato. È come usare un martello pneumatico per schiacciare una formica.

Esperti di sicurezza, come il venezuelano Rocío San Miguel o l’analista statunitense William Brownfield, hanno più volte sottolineato la natura prevalentemente corruttiva e non istituzionale del narcotraffico in Venezuela.

Non è uno “stato narco”, ma uno stato le cui istituzioni fragili sono penetrate dalla criminalità. Una distinzione cruciale che viene appiattita per giustificare l’intervento.

L’ORDINE ESECUTIVO DI TRUMP: LA LICENZA DI UCCIDERE

Trump emana un ordine esecutivo che equipara il narcotraffico al terrorismo, un cambiamento di paradigma legale dalle conseguenze devastanti.

In termini di regole d’ingaggio, autorizza le forze statunitensi a trattare i sospetti trafficanti come combattenti nemici, applicando una forza letale senza le limitazioni del diritto penale internazionale.

Di fatto, è una “licenza di uccidere” che bypassa le convenzioni sui diritti umani e il diritto internazionale umanitario.

Crea una zona grigia giuridica dove qualsiasi azione può essere giustificata a posteriori con la scusa della lotta al terrore. È lo stesso framework giuridico usato nei teatri di guerra mediorientali, ora importato nel “cortile di casa” americano.

IL COLPO A SORPRESA: IL SILENZIO DEI MEDIA

Quanto è stata amplificata la notizia della partecipazione francese dai grandi network internazionali? Poco. Molto poco. Quasi per nulla.

Questo silenzio mediatico non è casuale, ma una chiara volontà di non inquadrare la crisi per quello che è realmente: un’internazionalizzazione di un conflitto interno.

Includere una potenza NATO europea complica enormemente la narrazione, introducendo il fantasma di un nuovo colonialismo euro-atlantico.

È molto più comodo mantenere la facciata di un’operazione di polizia guidata dagli USA per una causa “universale” come la lotta alla droga.

Minimizzare il ruolo francese significa controllare la percezione dell’evento ed evitare di accendere pericolosi dibattiti sull’erosione della sovranità nazionale in America Latina.

“IT’S THE OIL, STUPID!”. IL VERO NOCCIOLO DEL CONFLITTO

Come mi insegnò un mio vecchio professore, nella geopolitica, seguire sempre i soldi. E i soldi, qui, sono neri, viscosi e giacciono nel sottosuolo venezuelano.

IL TESORO NERO DEL VENEZUELA: L’ELDORADO PROIBITO

Il Venezuela detiene un primato imbarazzante per le potenze globali: 304 miliardi di barili di petrolio accertati, la riserva più grande del pianeta.

In un’era come la nostra, di transizione energetica, questo non è un vantaggio, ma un’arma strategica.

Chi controllerà quella riserva controllerà una leva fondamentale sull’economia globale per i prossimi 50 anni. Forse, i prossimi 100.

Non si tratta solo di estrarre petrolio oggi; si tratta di controllare il picco della domanda futura e di dettare i prezzi.

Il potenziale del Venezuela, se sviluppato da capitali e tecnologia stranieri, potrebbe frantumare il potere di cartelli come l’OPEC+ e ridisegnare la geografia energetica mondiale.

Washington lo sa. Parigi lo sa. Pechino lo sa. E lo sa anche Mosca.

E… davvero pensate che Putin e Trump si siano incontrati in Alaska per discutere solo di Zelensky e dei fenomeni alla guida dei paesi europei?

LA GUERRA SILENZIOSA DELLE SANZIONI: L’ASSEDIO ECONOMICO

Prima delle portaerei, sono arrivati i decreti.

Le sanzioni USA non sono misure punitive, ma un’arma di guerra economica sofisticata e letale.

Il caso emblematico è la revoca delle licenze “oil-for-debt” a compagnie europee come l’italiana ENI e la spagnola Repsol.

Queste licenze permettevano alle compagnie di caricare petrolio venezuelano per ripagare i debiti contratti da Caracas nei loro confronti. Una misura umanitaria che teneva in vita un settimo dell’industria nazionale.

La revoca ha avuto un duplice, diabolico, effetto: 1) ha strangolato l’ultimo afflusso di dollari nell’economia venezuelana, accelerandone il collasso; 2) ha tagliato fuori l’Europa dall’accesso a quel petrolio, consegnando il monopolio futuro alle compagnie americane – come Chevron, a cui invece è stata rinnovata una licenza speciale – una volta che il governo Maduro sarà stato estromesso.

È un capolavoro di geopolitica economica che punisce il nemico e gli alleati simultaneamente. Ma per Trump non ci sono alleati. Ci sono solo gli americani.

CONSEGUENZE A CASCATA: IL COLLASSO UMANO

I numeri della crisi sono apocalittici.

Un’inflazione che nel 2023 ha toccato il 238%, una svalutazione del Bolivar che lo ha reso carta straccia, una dollarizzazione de facto tramite criptovalute come il USDT che segna la resa totale della sovranità monetaria.

La popolazione sopravvive, non vive.

Il dispiegamento militare non è la causa di questo collasso, ne è il colpo di grazia. È il momento in cui l’assedio economico si trasforma in un assedio fisico, militare, finale.

Il messaggio è chiaro: non ci sarà tregua, non ci sarà via d’uscita, finché la testa del regime non cadrà.

LA SCACCHIERA. CHI GIOCA E CHI STA A GUARDARE

Il Venezuela è solo una scacchiera dove si fronteggiano scacchisti. I giocatori sono molti e le loro mosse qui detteranno le regole per i prossimi decenni.

LA NUOVA DOTTRINA MONROE: IL “DESTINO MANIFESTO” DEL XXI SECOLO

L’azione di Trump non è un’anomalia, ma l’ultima, violenta, espressione della Dottrina Monroe, il principio per cui le Americhe sono di competenza esclusiva degli Stati Uniti.

Ma c’è una svolta. Se storicamente la dottrina era difensiva (“l’America agli americani”), ora è offensiva e unilaterale (“l’America agli Stati Uniti”).

L’obiettivo non è solo il Venezuela, ma è un monito chiaro e brutale a tutte le potenze regionali: il Brasile, l’Argentina, la Colombia.

Il “cortile di casa” è sotto nuova, ferrea, amministrazione. Qualsiasi velleità di autonomia o di partnership con rivali internazionali (Cina) sarà stroncata.

L’ISOLAMENTO DI MADURO: GLI ALLEATI FANTASMA

L’asse bolivariano è fragile. Cuba è stremata dalla crisi economica e dipendente dal petrolio venezuelano che non arriva più.

Il Nicaragua di Ortega è un regime paria, senza peso geopolitico. La Bolivia ha virato decisamente a destra, privando Maduro del suo alleato più importante e strategico nel continente.

Il sostegno è frammentato, retorico, ma privo di una reale capacità di proiezione militare o economica.

Maduro è solo, circondato da un cerchio di fuoco che si stringe sempre di più.

IL SILENZIO ASSORDANTE DEI GIGANTI: LA PARTITA DELLE SUPER-POTENZE

A questo punto, sorge spontanea una domanda: «Perché Russia e Cina, tradizionali sostenitori di Caracas, tacciono?»

La risposta si trova in un calcolo strategico glaciale, quanto spietato.

Per Pechino e Mosca, il Venezuela è una pedina sacrificabile in una partita molto più grande.

Il loro silenzio è un messaggio cifrato a Washington: “Non interferiremo nel tuo cortile di casa, in cambio, tu non interferirai nel nostro”. Significa mani libere per la Russia nella sua sfera d’influenza (Ucraina, Bielorussia) e per la Cina nella sua (Mar Cinese Meridionale, Taiwan).

È il ritorno alle sfere d’influenza dell’Ottocento, un baratto cinico sulla pelle dei venezuelani e degli ucraini.

Il multilateralismo è morto. Sono tornate le grandi sfere di potere.

L’ALBA DEL NUOVO ORDINE. IL MONDO AL BIVIO DEL 2030

La crisi venezuelana non è un evento isolato. È il sintomo più acuto della febbre che sta consumando l’ordine globale.

UN MONDO DI CONFLITTI CRESCENTI: LA GRANDE FRAMMENTAZIONE

Stiamo entrando in un’era di “disordine ordinato”.

La fine del predominio unipolare USA ha creato un vuoto di potere e, in quel vuoto, emergono attori regionali e super-potenze rivali che competono per stabilire nuove sfere di influenza.

Il Venezuela è il primo campo di battaglia di questa nuova era. Ma non sarà l’ultimo.

Guardate all’Ucraina, al Mar Cinese Meridionale, alla Libia, alla Siria. Lo schema è identico: pressione ibrida, guerra economica, guerre per procura e, infine, l’uso della forza militare mascherata da altre motivazioni (lotta al terrorismo, peacekeeping, intervento umanitario).

OLTRE IL VENEZUELA: I PROSSIMI CAMPI DI BATTAGLIA

Dove si replicherà questo schema?

L’Africa è il candidato principale. Un continente ricco di risorse naturali, con stati fragili e una presenza sempre più assertiva di Russia (con il Gruppo Wagner) e Cina (con la Belt and Road Initiative).

Il prossimo scontro per le risorse critiche – terre rare, cobalto, litio… – avverrà lì e userà lo stesso copione: destabilizzazione, intervento per “riportare l’ordine”, controllo delle risorse.

DOMANDE APERTE: SULL’ORLO DEL BARATRO IN VENEZUELA?

L’operazione porterà a un’invasione diretta?

Probabilmente no. Un’invasione sarebbe un pantano logistico e umanitario senza fine. Perciò, l’obiettivo è più sottile: un blocco navale de facto, un lento strangolamento che porti a una rottura interna dell’esercito venezuelano e a un colpo di stato.

Il punto di non ritorno sarà superato quando la prima nave petroliera iraniana o russa cercherà di forzare il blocco per portare aiuti a Caracas.

Quel giorno, nei Caraibi, non si tireranno più i grilletti per colpire dei narcos, ma per dare il via alla Terza Guerra Mondiale, combattuta a pezzi, un conflitto per procura alla volta.

La partita a scacchi giocata con portaerei e sottomarini nucleari nei Caraibi non deciderà solo il destino del Venezuela, ma sta già decidendo il futuro del pianeta.

E, per ora, lo sta decidendo senza il nostro consenso.