ELISABETTA FRANCHI: UNA VOCE FUORI DAL CORO. SARA’ L’UNICA?

Fra i vari articoli sulla moda che incontriamo con una visione aperta e onesta oltre che sul suo stato di salute, ho scelto questo che illustra il pensiero di Elisabetta Franchi.

È una soddisfazione per me vedere che la pensiamo nella stessa maniera.

Non mi illudo di essere un vate del settore, ma semplicemente uno che ha il coraggio di pensare con la propria testa dopo essersi informato.

Sullo stato dell’arte delle maisons, in generale, in questo pezzo si trovano molte somiglianze con le mie analisi.

In generale gli articoli che ho scritto sul tema, dove veniva descritto il gran cambio di rotta e di guida per i brand da parte dei nuovi o riciclati stilisti che sono ormai diventati più manager che non generatori di stile e design, risalgono al dicembre 2024, a mio parere l’anno della svolta.

Godetevi questa splendida intervista: https://www.leggo.it/schede/13_novembre_2025_elisabetta_franchi_outlet_eta_abiti_borse_saldi_intervista_cosa_dice-sull_addio_a_marco_bizzarri-4-9186694.html

Dott. Danilo Preto

Giornalista pubblicista, Scienze Politiche, Esperto di Comunicazione e arte concettuale.

I GABINETTI D’ORO DELLA GUERRA. MENTRE L’UCRAINA SANGUINA, I NOSTRI MILIARDI FINANZIANO L’ABISSO DELLA CORRUZIONE

Il fango di Pokrovsk racconta una storia fatta di morti e distruzione, ma un gabinetto d’oro massiccio in una villa di Kiev ne racconta un’altra, completamente diversa.

Sono entrambe frutto dei miliardi dell’Occidente.

Da una parte, soldati mandati al macello senza uno scopo chiaro, intrappolati in sacche mortali mentre i generali millantano vittorie sbugiardate dai fatti. Dall’altra, un’élite che, al riparo dal fronte, sguazza in un lusso osceno, pagato con i fondi e le armi che noi inviamo senza alcun controllo.

Noi, in Europa, guardiamo con incredulità, ma, solo un po’ imbarazzati, promettiamo altri soldi.

GUERRA E PARADISI FISCALI

La propaganda è la prima arma di ogni conflitto. E noi abbiamo contribuito a costruirne una potentissima.

Volodymyr Zelensky è stato eletto a icona: il “nuovo Churchill”, il “De Gaulle ucraino”, persino.

Un baluardo “incorruttibile” della democrazia, scrivevano i nostri eroi del mainstream. E, quando dalla Russia si puntava il dito sulla corruzione di Kiev, ecco che era propaganda becera di Mosca.

Eppure, questa statua eroica mostra da tempo delle crepe profonde, crepe che abbiamo scelto deliberatamente di non vedere, perché, altrimenti, dovremmo ammettere che quella di Mosca non era affatto becera propaganda, ma la realtà.

Eppure, sarebbe bastato leggere.

Bastava ricordare l’inchiesta internazionale “Pandora Papers” del 2021, molto prima che l’invasione su larga scala iniziasse. Lì emergeva già il ritratto di un uomo d’affari abilissimo, creatura dell’oligarca Ihor Kolomoisky, noto finanziatore di milizie controverse come il battaglione Azov.

Lì si scoprivano le società offshore a Cipro e nelle Isole Vergini, i conti nei paradisi fiscali e una lussuosa villa con piscina a Forte dei Marmi, acquistata per quasi 4 milioni di euro e mai dichiarata prima della sua elezione.

Non proprio il comportamento di un uomo democratico e incorruttibile.

Oggi, mentre il suo popolo muore, Zelensky è costretto a una purga teatrale, sacrificando ministri e sanzionando il suo ex socio e amico intimo, Timur Mindich. Lo stesso Mindich fotografato con credenze piene di mazzette di banconote e, appunto, sanitari d’oro.

Un uomo esentato dalla leva e fuggito all’estero grazie a una soffiata, sospettato di essere il regista di un sistema che scremava fino al 15% su ogni appalto energetico.

È davvero credibile che Zelensky non sapesse nulla?

LA CORRUZIONE COME ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA

L’annuncio di Zelensky di una “riforma” e di un “audit completo” è un capolavoro di gestione della percezione. È un messaggio diretto non ai cittadini ucraini, ma ai suoi finanziatori a Bruxelles e a Washington.

È il tentativo di mettere una pezza, di nascondere la polvere sotto un tappeto sempre più logoro, per non interrompere il flusso vitale degli aiuti.

Ma la legge che doveva garantire l’indipendenza degli organi anti-corruzione è stata emendata proprio da Zelensky per porli, di fatto, sotto il controllo del suo stesso governo. Si indaga, ma solo fin dove il potere permette, insomma.

A quanto emerge, in Ucraina il furto non è un’eccezione, è la regola.

Cento milioni di dollari spariti solo nel settore energetico. Soldi per le uniformi dei soldati, svaniti.

Persino i 170 milioni versati dalla NATO per costruire trincee di legno, sono stati intascati. Ogni proiettile, ogni giubbotto antiproiettile, ogni euro che inviamo transita attraverso questo sistema malato.

Come può un soldato al fronte, in attesa di una ritirata che non arriva mai, combattere con il morale alto sapendo che la sua stessa leadership si arricchisce sulla sua pelle?

Questa non è una “guerra ibrida” russa che diffonde disinformazione, purtroppo, ma è la cruda verità che emerge dalle inchieste di queste ultime settimane e la nostra riluttanza ad accettarla ci rende complici.

IL PREZZO FINALE È POVERTÀ, INSTABILITÀ E IL MERCATO NERO

La questione, ovviamente, non è soltanto di ordine morale, ma riguarda la sicurezza dell’intero Occidente, perché il fallimento non è solo etico, ma anche strategico.

L’economia di guerra che stiamo sostenendo non sta solo impoverendo i nostri cittadini e le nostre imprese, non sta solo prolungando un conflitto senza una via d’uscita militare, ma sta creando il più grande mercato nero di armamenti della storia recente.

Mezzo milione di armi, secondo alcune stime, sono già “fuori controllo”.

Dove sono? Chi le userà domani? Chi si sta preparando davvero a una guerra contro di noi, mentre noi puntiamo il dito contro Mosca?

Stiamo armando una nazione perché possa difendersi o stiamo inavvertitamente rifornendo i conflitti del futuro in Africa, in Medio Oriente, forse persino nelle nostre stesse città?

Le conseguenze geopolitiche di questo lassismo, di questa miopia dei vertici europei, saranno devastanti e durature.

Mentre i governi europei tacciono, paralizzati dall’imbarazzo, qualcuno si distingue per un cinismo quasi comico.

Antonio Tajani, ministro degli Esteri italiano, si affretta ad annunciare “un nuovo pacchetto di aiuti nelle prossime ore”.

È la sintesi perfetta della nostra tragedia politica: di fronte alla prova schiacciante che il sistema è marcio, la risposta non è fermarsi a riflettere, ma raddoppiare la scommessa. Casomai non sapessero più cosa rubare.

Volendo escludere che si tratti di gravi problemi cognitivi, naturalmente.

Siamo a un bivio, dunque.

Possiamo continuare a finanziare questa illusione, raccontandoci la favola della democrazia incorruttibile, oppure possiamo affrontare la realtà. La realtà di un popolo meraviglioso e coraggioso tradito dal suo nemico, certo, ma, forse, anche da una parte della sua stessa leadership.

Continuare a inviare armi e denaro senza condizionalità ferree e una supervisione spietata non è aiutare l’Ucraina.

È finanziare un abisso in fondo al quale ci sono due immagini: il volto di un soldato nel fango e il riflesso accecante di un gabinetto d’oro.

Noi stiamo pagando per entrambi.

E il dramma è che in tanti se ne vantano.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

ATTRAZIONE ASTRALE, L’UMANITÀ SUSSURRATA DI MARALBA FOCONE

Cremona non è solo la capitale mondiale della liuteria. Non è solo la città di Stradivari, dove il suono prende forma nel legno. Non è nemmeno la città con il museo del violino numero uno al mondo.

Per qualche settimana, è stata anche il portale verso un’altra dimensione, un luogo dove la forma si dissolve per rivelare il suono dell’anima.

Questo portale ha un nome: “Attrazione Astrale”, la mostra personale di Maralba Focone, ospitata negli spazi di Gabetti Arte, in Piazza Stradivari. Un evento che, visto il notevole successo di pubblico e le richieste di tanti cremonesi, si è guadagnato una proroga fino al 14 novembre, con ben due settimane di mostra in più rispetto a quanto previsto.

Il giorno dell’inaugurazione, non è stato un vernissage come tanti, perché è cominciato con uno splendido concerto di Aurelia Macovei, che ha incantato il pubblico al Museo del Violino di Cremona, suonando il Vesuvio di Stradivari.

Poi, una visita alla basilica di Cremona, infine il vernissage in Gabetti, dove non c’è stata solo arte visiva, ma anche un momento di pura emozione, grazie alle note del violino di Paola Tezzon e del pianoforte di Giovanni Guerretti.

Un intervento musicale che è stata una chiave d’accesso a un mondo pittorico che esige un ascolto profondo, quasi quanto una visione: il mondo di Maralba Focone, perché la sua arte non è un’esperienza puramente visiva, ma un’immersione sinestetica che coinvolge gli altri sensi e il linguaggio dell’anima.

IL VIAGGIO OLTRE IL VELO DELLA SUPERFICIE

Il titolo completo, “Attrazione astrale. Il viaggio di Floriana, oltre il velo della superficie”, non è un mero orpello, ma è il manifesto di una visione, di un’analisi del nostro tempo, di un progetto itinerante che vedrà nuove tappe nel 2026.

Delinea un percorso, una narrazione attraverso Floriana, una alter ego dell’artista e, al tempo stesso, un archetipo universale.

Perché Floriana siamo tutti noi, nel momento in cui decidiamo di smettere di guardare e iniziamo a vedere. E no… non sono la stessa cosa.

Le opere di Focone, infatti, incarnano questo viaggio. Sono immagini rarefatte, quasi in dissolvenza incrociata, come in una sequenza cinematografica che sfuma dal ricordo al sogno. Un visitatore drlla msotra ha giustamente notato un richiamo alla “settima arte”, ed è una percezione acuta.

L’artista lavora per sottrazione, con spatola e pennello piatto, scarnificando la materia pittorica per estrarne l’essenza. Le figure e i paesaggi non si impongono con la prepotenza del dettaglio, ma emergono dalla tela come apparizioni, spettri di sentimento.

È una pittura che non descrive il mondo, ma evoca mondi. Quelli interiori, quelli “astrali” appunto, che giacciono appena sotto la pelle della quotidianità.

GRAMMATICA DEL SENTIMENTO: COLORE E FORMA

Osservando il corpus delle opere esposte, si delinea una grammatica visiva di straordinaria coerenza e profondità. La palette cromatica si muove tra due poli emotivi: da un lato i viola, i lilla, i blu, colori dell’introspezione, della spiritualità, dell’inconscio, talvolta di una malinconia picassiana che ricorda il Periodo Blu; dall’altro, gli aranci, le terre calde che narrano di un’umanità carnale, di luoghi che, pur essendo “luoghi che non ci sono”, conservano il calore di un vissuto tangibile.

Le figure umane sono il fulcro di questa narrazione. Spesso ritratte di spalle, “spersonificate”, diventano icone universali.

Non vediamo un volto specifico, ma riconosciamo un’età, una postura, un sentimento, un tormento, una sensazione, un’emozione: la tenerezza protettiva di una madre, la disperazione di un abbraccio che è al contempo appiglio e addio, la solitudine meditativa di una figura isolata.

I colli allungati e gli occhi indecifrabili, di eco modiglianesca, e le mani che si trasformano in artigli non sono vezzi stilistici, ma metafore potenti: sono il tentativo di afferrare, di trattenere, di connettersi a un altro essere umano in un mondo che spinge all’isolamento.

Come ha sottolineato il critico d’arte internazionale, Pasquale Di Matteo, questa pittura richiede “capacità di analisi, sensibilità e cultura”, perché non si ferma all’estetica, ma interroga l’osservatore sulla condizione di una “umanità spesso dimenticata”.

L’ARTE COME INVESTIMENTO DELL’ANIMA (E DEL PORTAFOGLIO)

Da analista dei flussi economici e culturali, la domanda “Perché investire su Maralba Focone?” trova una risposta su due livelli complementari, entrambi solidi.

Il primo, e più nobile, è l’investimento nell’anima. Acquistare un’opera di Focone significa portare a casa un frammento di storia, un pezzo di narrazione autentica del nostro tempo che continuerà a dialogare con noi negli anni a venire.

Non è un semplice oggetto d’arredo, ma un catalizzatore di riflessioni, un bene rifugio per lo spirito in tempi di assordante superficialità.

Il secondo livello è prettamente economico e, per questo, non meno rilevante.

Il mercato dell’arte premia la coerenza, l’identità e la storicizzazione. Maralba Focone non è un’artista emergente sulla cui evoluzione si possa solo scommettere, ma, con una carriera di oltre quarant’anni, una presenza costante in cataloghi di riferimento, e un linguaggio pittorico unico e immediatamente riconoscibile, rappresenta un valore consolidato.

Un collezionista avveduto non cerca l’artista che copia la tendenza del momento, ma chi crea un linguaggio.

Focone lo ha fatto.

In un’epoca che ha visto il tracollo di investimenti apparentemente sicuri – pensiamo ai famigerati bond argentini di vent’anni fa – un’opera d’arte di un’artista storicizzata come lei rappresenta una delle forme di investimento più sicure. Nella peggiore delle ipotesi, il suo valore si manterrà stabile nel tempo. Nella più probabile, è destinato a una crescita costante e significativa.

UN’EREDITÀ A CREMONA

La mostra “Attrazione Astrale”, curata con sensibilità da Daniela Belloni e Pasquale Di Matteo, ha offerto a Cremona molto più di una semplice esposizione. Ha creato un momento di aggregazione culturale, un dialogo tra pittura, musica e persone. Ha acceso un riflettore su un’umanità dolente ma dignitosa, fragile ma tenace.

Maralba Focone ci insegna che il viaggio più importante non è verso stelle lontane, ma dentro il nostro stesso universo interiore. Le sue tele sono mappe di questo cosmo, inviti a guardare oltre il velo per riscoprire ciò che ci rende, nel profondo, irripetibilmente e meravigliosamente umani. E questo, oggi più che mai, è un messaggio di valore inestimabile.

Potete scoprire di più su Maralba Focone al suo sito web: maralbafocone.eu

e sulla pagina dedicata alla mostra: Attrazione Astrale di Maralba Focone.

PERCHÉ LA MANCATA INTERVISTA A LAVROV È IL VERO FALLIMENTO DEL CORRIERE DELLA SERA

Il silenzio è un’arma diffusa in Cina, Russia, Corea del Nord.

E il Corriere della Sera, nel gestire la mancata pubblicazione dell’intervista a Sergey Lavrov, ha scelto di puntarsela alla tempia, infrangendo il contratto di fiducia con i suoi lettori, perché ora tutti sono consapevoli del fatto che i vertici del Corriere vogliono decidere cosa debbano pensare quei lettori, cosa debbano leggere.

Questo non è informare, ma somiglia molto a indottrinare.

Quello che è accaduto non è un semplice incidente di percorso editoriale, ma una capitolazione etica, un sintomo profondo e allarmante della malattia che affligge gran parte del giornalismo occidentale, soprattutto in Italia, ovvero la devozione alla propria bolla narrativa e la negazione di chi la pensi diversamente.

Un giornalismo che ha smesso di cercare la verità per limitarsi a certificare la propria.

L’INTERVISTA CHE NON DOVEVA ESSERE LETTA

Analizziamo i fatti.

Il Corriere della Sera chiede un’intervista al Ministro degli Esteri di una delle maggiori potenze mondiali, un attore centrale nel più grande conflitto sul suolo europeo dal 1945.

Accetta la formula delle domande e risposte scritte, una prassi comune in diplomazia, che per sua natura implica un controllo del messaggio da parte dell’intervistato.

Poi, una volta ricevute le risposte, le giudica “pura propaganda” e, di fatto, le cestina, pubblicando un articolo che spiega perché non le pubblica.

È un atto intellettualmente disonesto. E pericolosamente ingenuo.

Cosa si aspettavano a via Solferino? Che Lavrov, uno dei diplomatici più scafati e longevi del pianeta, usasse le loro colonne per fare autocritica e lodare le politiche della NATO? Si aspettavano che annunciasse un pacchetto di sanzioni dirompenti contro Mosca e aiuti per Kiev?

La sorpresa del Corriere è una recita ad uso e consumo di chi ha già deciso da che parte stare. È la performance di chi, invitato a un duello, si lamenta che l’avversario si sia presentato.

Il punto non è difendere Lavrov. Il punto è difendere il giornalismo da chi ha scelto di fare solo propaganda, come denuncio nel mio libro LA FABBRICA DELLA PAURA.

Ma immaginiamo lo scenario a parti invertite.

Un giornale russo chiede un’intervista scritta a Zelensky, a Trump, a Macron.

Riceve le risposte e poi scrive: “Non le pubblichiamo, sono propaganda occidentale”.

Verrebbero invocati, a ragione, i principi sacri della libertà di stampa. Principi che, a quanto pare, per alcuni valgono solo quando le risposte coincidono con le proprie tesi.

Ebbene, questo non è giornalismo, ma un servizio di validazione per la propria comfort zone ideologica. È mera propaganda.

IL GIORNALISTA CANCELLATO: IL CASO ELISEO BERTOLASI

Ma il Corriere non si è limitato solo a censurare l’intervistato, ma ha nascosto ai suoi lettori persino l’esistenza di voci dissonanti citate da Lavrov stesso. Di giornalisti italiani che dissentono.

Nella sua risposta, il ministro russo menziona il giornalista Eliseo Bertolasi, analista italiano, autore di un libro sul conflitto ucraino, che scrive anche per Il Fatto Quotidiano.

Una voce che offre una prospettiva diversa, che documenta, che argomenta. Un libro scritto in lingua russa – Eliseo è un linguista specializzato in lingue russa e araba – per spiegare l’affare ucraina visto da un giornalista italiano.

Perché nascondere questo nome?

Perché menzionarlo avrebbe significato ammettere che esiste un dibattito, una complessità, una pluralità di letture al di fuori del monolite narrativo “aggressore-aggredito”.

Avrebbe costretto il lettore a porsi una domanda, forse la più sovversiva di tutte: “E se ci fosse altro?”.

Il Corriere, invece di aprire una finestra, ha tirato una tenda. Ha negato ai suoi lettori non solo le parole del nemico, ma anche l’esistenza di un connazionale che quel nemico lo studia da una prospettiva non allineata.

Un giornalista serio e preparato come Bertolasi, che scrive anche sul Fatto Quotidiano.

Questa non è una svista, ma la decisione cosciente di mantenere il pubblico all’oscuro, di proteggerlo da informazioni che potrebbero incrinare le certezze preconfezionate.

È l’atto supremo di paternalismo intellettuale: “Non ve lo facciamo leggere, perché non siete in grado di capirlo. Ci pensiamo noi a dirvi cosa è giusto pensare”.

In pratica, Il Corriere della Sera ritiene i suoi lettori dei perfetti idioti.

QUANDO IL GIORNALISMO DIVENTA PROPAGANDA DI STATO (INCONSAPEVOLE)

Un giornalista serio non censura. O pubblica l’intervista, corredandola di tutte le analisi critiche e il fact-checking del caso, o non la chiede affatto.

Pretendere che le risposte siano quelle desiderate è il modus operandi dei regimi totalitari, non di un quotidiano che si vanta di essere un pilastro della democrazia liberale. È una logica da Corea del Nord, dove l’intervista è solo la celebrazione di una verità già decretata dal potere.

Il Corriere, agendo in questo modo, si è trasformato nello specchio di ciò che afferma di combattere. Ha usato un metodo dispotico per difendere un presunto ordine democratico. Invece di illuminare, ha scelto di oscurare. Invece di informare, ha preferito indottrinare.

Il vero giornalismo non ha paura delle parole del nemico.

Anzi, le cerca, le sbatte in prima pagina, le analizza, le smonta pezzo per pezzo con le argomentazioni e così facendo espone la loro eventuale falsità.

Si fida dell’intelligenza del proprio pubblico, fornendogli tutti gli strumenti per formarsi un’opinione autonoma.

La propaganda, invece, teme il confronto. Dimostra che argomentazioni valide per controbattere non ce ne sono. Perciò ha bisogno del silenzio dell’altro per poter urlare più forte la propria versione.

E la propaganda considera i propri lettori dei menomati mentali.

LA FIDUCIA TRADITA: UN PATTO CON IL LETTORE INFRANTO

Ogni mattina, un lettore compra un quotidiano sulla base di un patto non scritto: tu, giornalista, mi darai i fatti, le opinioni, il quadro completo, e io, lettore, userò la mia testa per trarre le mie conclusioni.

Il Corriere della Sera ha stracciato questo patto. Ha detto ai suoi lettori: “La vostra testa non serve. Vi diamo noi il risultato finale”.

Tutto ciò è osceno, nonché dimostrazione del fatto che molti giornalisti italiani non fanno più informazione da tempo, ma altro.

Questa è l’infantilizzazione del dibattito pubblico. È la resa della ragione alla comodità della tifoseria, del potere che comanda.

Ciò che resta è un vuoto. Il vuoto lasciato da un’informazione che non è stata data, da un punto di vista che non è stato ascoltato, da un nome che non è stato letto.

E, in questo vuoto, prosperano il sospetto, la disinformazione e la convinzione che, in fondo, “siano tutti uguali”.

Non pubblicando Lavrov, il Corriere non ha indebolito la propaganda russa. Paradossalmente, l’ha rafforzata, permettendole di recitare il ruolo della vittima di censura, e ha dimostrato, senza se e senza ma, come si faccia propaganda in Italia.

L’ECO DELLA VERITÀ RICHIEDE CORAGGIO, NON CENSURA

Un grande giornale non si misura dalla capacità di confermare i pregiudizi dei suoi lettori, ma dal coraggio di sfidarli.

Si misura dalla volontà di esplorare anche i territori più oscuri e sgradevoli del pensiero umano, perché è solo mostrando le argomentazioni del nemico che si può dimostrare la superiore validità delle proprie. Quando ci sono, ovviamente.

E, in questo caso, Il Corriere della Sera ha dimostrato di non averne, come intuisce chiunque abbia almeno due neuroni funzionanti nello spazio tra le orecchie.

Il Corriere ha scelto la via più facile. La via del silenzio. Come in Cina. Come in Corea del Nord. Come in quella Russia sempre additata come dittatura.

Ma la storia, quella vera, non è mai silenziosa. È un rumore assordante di voci contrastanti. Il dovere di un giornalista non è abbassare il volume, ma alzarlo perché tutti possano sentire per poter giudicare.

È fornire un buon paio di cuffie e gli strumenti per capire chi sta mentendo. E chi, forse, sta dicendo una verità che semplicemente non ci piace ascoltare.

PUOI LEGGERE L’INTERVISTA INTEGRALE A LAVROV (QUELLA CHE IL CORRIERE DELLA SERA HA CENSURATO) CLICCANDO “QUI

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

INTERVISTA INTEGRALE A LAVROV, CENSURATA DAL CORRIERE DELLA SERA

Di seguito, l’intervista diramata dal Ministero degli Esteri russo, quella che Il Corriere della Sera ha chiesto e poi non pubblicato.

INTERVISTA

Corriere: È stato riferito che il successivo incontro tra Vladimir Putin e Donald Trump a Budapest non ha avuto luogo perché persino l’amministrazione statunitense si è resa conto che non siete pronti per i colloqui sull’Ucraina. Cosa è andato storto dopo il vertice di Anchorage che ha alimentato la speranza per l’avvio di un autentico processo di pace? Perché la Russia rimane fedele alle richieste avanzate da Vladimir Putin nel giugno 2024 e su quali questioni potreste raggiungere un compromesso?

Sergey Lavrov: Le intese raggiunte ad Anchorage hanno rappresentato una pietra miliare importante nella ricerca di una pace duratura in Ucraina, superando le conseguenze del violento colpo di stato anticostituzionale a Kiev, organizzato dall’amministrazione Obama nel febbraio 2014. Le intese si basano sulla realtà esistente e sono strettamente legate alle condizioni per una risoluzione giusta e duratura della crisi ucraina, proposte dal presidente Putin nel giugno 2024. Per quanto ne sappiamo, tali condizioni sono state ascoltate e recepite, anche pubblicamente, dall’amministrazione Trump, in particolare la condizione che sia inaccettabile trascinare l’Ucraina nella NATO per creare minacce militari strategiche alla Russia direttamente ai suoi confini. Washington ha anche ammesso apertamente che non potrà ignorare la questione territoriale a seguito dei referendum nelle cinque regioni storiche della Russia, i cui residenti hanno scelto inequivocabilmente l’autodeterminazione, a prescindere dal regime di Kiev che li ha etichettati come “subumani”, “creature” e “terroristi”, e ha optato per la riunificazione con la Russia.

Anche il concetto americano che, su istruzione del Presidente degli Stati Uniti, il suo Inviato Speciale Steve Witkoff ha portato a Mosca la settimana prima del vertice in Alaska, era costruito attorno a questioni di sicurezza e realtà territoriale. Il Presidente Putin ha dichiarato a Donald Trump ad Anchorage di aver concordato di utilizzare questo concetto come base, proponendo al contempo un passo specifico che apra la strada alla sua attuazione pratica.

Il leader statunitense ha affermato che avrebbe dovuto consultarsi con i suoi alleati; tuttavia, dopo l’incontro con i suoi alleati, svoltosi a Washington il giorno successivo, non abbiamo ricevuto alcuna reazione alla nostra risposta positiva alle proposte che Steve Witkoff aveva presentato a Mosca prima dell’Alaska.

Nessuna reazione è stata comunicata durante il mio incontro con il Segretario di Stato Marco Rubio a settembre a New York, quando gli ho ricordato che la stavamo ancora aspettando. Per aiutare i nostri colleghi americani a decidere autonomamente, abbiamo esposto le intese per l’Alaska in un documento informale e lo abbiamo consegnato a Washington. Diversi giorni dopo, su richiesta di Trump, lui e Vladimir Putin hanno avuto una conversazione telefonica e hanno raggiunto un accordo preliminare per incontrarsi a Budapest, dopo un’accurata preparazione per questo vertice. Non c’era dubbio che avrebbero discusso le intese ad Anchorage. Dopo alcuni giorni, ho parlato con Marco Rubio al telefono. Washington ha descritto la conversazione come costruttiva (in effetti è stata costruttiva e utile) e ha annunciato che, dopo quella conversazione telefonica, un incontro di persona tra il Segretario di Stato e il Ministro degli Esteri russo in preparazione dell’incontro al massimo livello non era necessario. Chi e come abbia presentato rapporti segreti al leader americano, in seguito ai quali quest’ultimo ha rinviato o annullato il vertice di Budapest, non lo so. Ma ho descritto la cronologia generale basandomi rigorosamente sui fatti di cui sono responsabile. Non mi assumerò la responsabilità di notizie palesemente false sulla mancanza di preparazione della Russia ai colloqui o di aver sabotato i risultati dell’incontro di Anchorage.

Vi prego di rivolgervi al Financial Times che, per quanto ne so, ha diffuso questa versione fuorviante di quanto accaduto, distorcendo la sequenza degli eventi, per addossare la colpa a Mosca e deviare Donald Trump dalla strada da lui suggerita – una strada verso una pace duratura e stabile, piuttosto che verso un cessate il fuoco immediato, che i padroni europei di Zelensky stanno trascinando a causa della loro ossessiva intenzione di ottenere un po’ di tregua e iniettare al regime nazista più armi per continuare la guerra contro la Russia. Se anche la BBC avesse prodotto un video falso in cui Trump invocava l’assalto al Campidoglio, il Financial Times sarebbe capace di qualcosa di simile. In Russia, diciamo, “non si farebbero scrupoli a dire una bugia”. Siamo ancora pronti a tenere un altro vertice Russia-USA a Budapest, se si baserà realmente sui risultati ben elaborati del vertice in Alaska. La data non è ancora stata fissata. I contatti Russia-USA proseguono.

Corriere: Le unità delle Forze Armate russe controllano attualmente meno territorio rispetto al 2022, a diverse settimane dall’inizio di quella che definite un’operazione militare speciale. Se state davvero prevalendo, perché non riuscite a sferrare un attacco decisivo? Potreste anche spiegare perché non state rendendo pubbliche le perdite ufficiali?

Sergey Lavrov: L’operazione militare speciale non è una guerra per i territori, ma un’operazione per salvare la vita di milioni di persone che hanno vissuto su quei territori per secoli e che la giunta di Kiev cerca di sradicare – legalmente, proibendone la storia, la lingua e la cultura, e fisicamente, utilizzando armi occidentali. Un altro obiettivo importante dell’operazione militare speciale è garantire la sicurezza della Russia e indebolire i piani della NATO e dell’UE di creare uno stato fantoccio ostile ai nostri confini occidentali che, per legge e di fatto, si basa sull’ideologia nazista. Non è la prima volta che fermiamo aggressori fascisti e nazisti. Ciò è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale e accadrà di nuovo.

A differenza degli occidentali che hanno raso al suolo interi quartieri, noi stiamo risparmiando le persone, sia civili che militari. Le nostre forze armate stanno agendo con estrema responsabilità e stanno sferrando attacchi ad alta precisione esclusivamente contro obiettivi militari e le relative infrastrutture di trasporto ed energetiche.

Non è consuetudine rendere pubbliche le perdite sul campo di battaglia. Posso solo dire che quest’anno la Russia ha rimpatriato oltre 9.000 salme di personale ucraino. Abbiamo ricevuto 143 salme di nostri combattenti dall’Ucraina. Potete trarre le vostre conclusioni.

Corriere: La sua presenza al vertice di Anchorage con una felpa con la scritta “URSS” ha sollevato molti interrogativi. Alcuni l’hanno vista come una conferma della sua ambizione di ricreare, se possibile, l’ex spazio sovietico (Ucraina, Moldavia, Georgia, Paesi Baltici), se non addirittura di restaurare l’URSS. Era un messaggio in codice o solo uno scherzo?

Sergej Lavrov: Sono orgoglioso del mio Paese, dove sono nato e cresciuto, dove ho ricevuto un’istruzione dignitosa e dove ho iniziato e continuato la mia carriera diplomatica. Come è noto, la Russia è l’erede dell’URSS e, in generale, il nostro Paese e la nostra civiltà risalgono a mille anni fa. La Novgorod Veche è emersa molto prima che l’Occidente iniziasse a giocare alla democrazia. A proposito, ho anche una maglietta con lo stemma nazionale dell’Impero russo, ma questo non significa che vogliamo restaurarlo. Uno dei nostri più grandi beni, di cui siamo giustamente orgogliosi, è la continuità nello sviluppo e nel rafforzamento del nostro Stato nel corso della sua grande storia di unificazione e consolidamento del popolo russo e di tutti gli altri popoli del Paese. Il Presidente Putin lo ha recentemente sottolineato nel suo discorso in occasione della Giornata dell’Unità Nazionale. Quindi, per favore, non cercate segnali politici in questo. Forse il sentimento di patriottismo e lealtà verso la propria Patria sta svanendo in Occidente, ma per noi fa parte del nostro codice genetico.

Corriere: Se uno degli obiettivi dell’operazione militare speciale era quello di riportare l’Ucraina sotto l’influenza russa, come potrebbe sembrare, ad esempio, in base alla vostra richiesta di poter determinare la quantità dei suoi armamenti, non pensate che l’attuale conflitto armato, qualunque ne sia l’esito, conferisca a Kiev un ruolo e un’identità internazionale molto specifici, sempre più distanti da Mosca?

Sergey Lavrov: Gli obiettivi dell’operazione militare speciale sono stati definiti dal Presidente Putin nel 2022 e rimangono rilevanti ancora oggi. Non si tratta di sfere di influenza, ma del ritorno dell’Ucraina a uno status neutrale, non allineato e non nucleare, e del rigoroso rispetto dei diritti umani e di tutti i diritti delle minoranze nazionali russe e di altre minoranze nazionali: questi obblighi sono stati sanciti dalla Dichiarazione di Indipendenza dell’Ucraina del 1990 e dalla sua Costituzione, ed è stato proprio in vista di questi obblighi dichiarati che la Russia ha riconosciuto l’indipendenza dello Stato ucraino. Stiamo cercando e raggiungeremo il ritorno dell’Ucraina alle sane e stabili origini della sua statualità, il che implica che l’Ucraina non offrirà più servilmente il suo territorio alla NATO per lo sviluppo militare (così come all’Unione Europea, che si sta rapidamente trasformando in un blocco militare altrettanto aggressivo), spazzerà via l’ideologia nazista proibita a Norimberga, restituirà tutti i loro diritti ai russi, agli ungheresi e alle altre minoranze nazionali. È indicativo che, mentre trascinano il regime di Kiev nell’UE, le élite di Bruxelles rimangano in silenzio di fronte all’oltraggiosa discriminazione delle “etnie non indigene” (come Kiev chiama sprezzantemente i russi che vivono in Ucraina da secoli) e lodino la giunta di Zelensky per la difesa dei “valori europei”. Questa è solo un’ulteriore prova del fatto che il nazismo sta risorgendo in Europa. È qualcosa su cui riflettere, soprattutto dopo che Germania e Italia, insieme al Giappone, hanno recentemente iniziato a votare contro la risoluzione annuale dell’Assemblea Generale sull’inaccettabilità dell’esaltazione del nazismo.

I governi occidentali non nascondono il fatto che, in realtà, stanno conducendo una guerra per procura contro la Russia attraverso l’Ucraina e che questa guerra non finirà nemmeno “dopo l’attuale crisi”. Il Segretario Generale della NATO Mark Rutte, il Primo Ministro britannico Keir Starmer, i burocrati di Bruxelles Ursula von der Leyen e Kaja Kallas e l’Inviato Speciale del Presidente degli Stati Uniti per l’Ucraina Keith Kellogg ne hanno parlato in numerose occasioni. È evidente che la determinazione della Russia a proteggersi dalle minacce create dall’Occidente attraverso il regime sotto il suo controllo è legittima e ragionevole.

Corriere: Gli Stati Uniti forniscono anche armi all’Ucraina e di recente si è discusso della possibilità di consegnare missili da crociera Tomahawk a Kiev. Perché avete opinioni e valutazioni diverse sulla politica degli Stati Uniti e dell’Europa?

Sergey Lavrov: La maggior parte delle capitali europee costituisce attualmente il nucleo della cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, il cui unico desiderio è mantenere le ostilità in Ucraina il più a lungo possibile. A quanto pare, non hanno altro modo per distrarre i propri elettori dal forte peggioramento dei problemi socioeconomici interni. Sponsorizzano il regime terroristico di Kiev usando il denaro dei contribuenti europei e forniscono armi che vengono utilizzate nell’ambito di un’azione costante per uccidere civili nelle regioni russe e ucraini che cercano di fuggire dalla guerra e dagli scagnozzi nazisti. Minano qualsiasi tentativo di pace e si rifiutano di avere contatti diretti con Mosca; impongono sempre più sanzioni che hanno un effetto boomerang per le loro economie; stanno apertamente preparando l’Europa a una nuova grande guerra contro la Russia e stanno cercando di convincere Washington a rifiutare un accordo onesto ed equo.

Il loro obiettivo principale è compromettere la posizione dell’attuale amministrazione statunitense, che fin dall’inizio ha sostenuto il dialogo, ha esaminato la posizione della Russia e si è mostrata disposta a perseguire una pace duratura. Donald Trump ha ripetutamente affermato in pubblico che una delle ragioni dell’azione russa era l’espansione della NATO e l’avanzamento delle infrastrutture dell’alleanza fino ai confini del nostro Paese. È questo il motivo per cui il Presidente Putin e la Russia mettono in guardia da vent’anni. Ci auguriamo che a Washington prevalga il buon senso, che mantenga la sua posizione di principio e si astenga da azioni che possano spingere il conflitto a un livello di escalation superiore.

Considerando tutto ciò, per i nostri militari non fa alcuna differenza che le armi provengano dall’Europa o dagli Stati Uniti, e distruggono immediatamente tutti gli obiettivi militari.

Corriere: Lei è stato colui che ha premuto il pulsante “reset” insieme a Hillary Clinton, anche se poi gli eventi hanno preso una piega diversa. È possibile ripristinare i rapporti con l’Europa? La sicurezza comune può fungere da piattaforma per migliorare le relazioni attuali?

Sergej Lavrov: Lo scontro che è scaturito dalla politica sconsiderata e inefficace delle élite europee non è una scelta della Russia. La situazione attuale non soddisfa gli interessi del nostro popolo. Vorremmo che la consapevolezza di una politica così disastrosa si diffondesse tra i governi europei, la maggior parte dei quali persegue un’agenda ferocemente anti-russa. L’Europa ha già combattuto guerre [contro di noi] sotto le bandiere di Napoleone, e il secolo scorso anche sotto le bandiere e i colori nazisti di Hitler. Alcuni leader europei hanno la memoria molto corta. Quando questa ossessione russofoba – non riesco a trovare un’espressione migliore – svanirà, saremo aperti ai contatti, pronti a sentire se i nostri ex partner sono intenzionati a fare affari con noi. E poi decideremo se ci sono prospettive per costruire legami equi e onesti.

Gli sforzi dell’Occidente hanno completamente screditato e smantellato il sistema di sicurezza euro-atlantico nella sua forma precedente al 2022. A tal proposito, il Presidente Putin ha proposto un’iniziativa per istituire una nuova architettura di sicurezza equa e indivisibile in Eurasia. È aperta a tutte le nazioni del continente, compresa la sua parte europea, ma richiede un comportamento educato, privo di arroganza neocoloniale, basato sull’uguaglianza, sul rispetto reciproco e sull’equilibrio degli interessi.

Corriere: Il conflitto armato in Ucraina e il conseguente isolamento internazionale della Russia potrebbero avervi impedito di agire in modo più efficace in altre aree di crisi, come il Medio Oriente. È così?

Sergey Lavrov: Se l’”Occidente storico” decidesse di isolarsi da qualcuno, si chiamerebbe autoisolamento. Tuttavia, le sue fila non sono comunque solide: quest’anno, Vladimir Putin ha incontrato i leader di Stati Uniti, Ungheria, Slovacchia e Serbia. Chiaramente, il mondo di oggi non può essere ridotto alla minoranza occidentale. Questa è un’epoca passata da quando è emersa la multipolarità. Le nostre relazioni con i paesi del Sud e dell’Est del mondo, che rappresentano l’85% della popolazione mondiale, continuano a progredire. A settembre, il presidente russo ha effettuato una visita di Stato in Cina. Solo negli ultimi mesi, Vladimir Putin ha partecipato ai vertici della SCO, dei BRICS, della CSI e della Russia-Asia centrale, mentre le nostre delegazioni governative di alto livello hanno partecipato ai vertici dell’APEC e dell’ASEAN e ora si stanno preparando per il vertice del G20. Vertici e riunioni ministeriali nei formati Russia-Africa e Russia-Consiglio di cooperazione del Golfo si tengono regolarmente. I paesi della maggioranza globale sono guidati dai loro interessi nazionali fondamentali piuttosto che dalle istruzioni delle loro ex potenze coloniali.

I nostri amici arabi apprezzano la partecipazione costruttiva della Russia alla risoluzione dei conflitti regionali in Medio Oriente. Le discussioni in corso all’ONU sulla questione palestinese confermano che le capacità di tutti gli attori esterni influenti devono essere messe insieme, altrimenti non ne uscirà nulla di duraturo se non cerimonie colorite. Condividiamo inoltre posizioni vicine o convergenti con i nostri amici del Medio Oriente, il che facilita la nostra interazione all’ONU e in altre piattaforme multilaterali.

Corriere: Non pensa che nel nuovo ordine mondiale multipolare da lei promosso e sostenuto, la Russia sia diventata più dipendente dalla Cina economicamente e militarmente, il che ha creato uno squilibrio nella sua storica alleanza con Pechino?

Sergey Lavrov: Non “promuoviamo” un ordine mondiale multipolare poiché la sua affermazione è il risultato di un processo oggettivo. Invece di conquista, schiavitù, sottomissione o sfruttamento, che è stato il modo in cui le potenze coloniali hanno costruito il loro ordine e hanno poi instaurato il capitalismo, questo processo implica cooperazione, tenendo conto degli interessi reciproci e garantendo un’intelligente divisione del lavoro basata sui vantaggi competitivi comparati dei paesi partecipanti e sulle strutture di integrazione.

Per quanto riguarda le relazioni Russia-Cina, non si tratta di un’alleanza nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto di una forma di interazione efficace e avanzata. La nostra cooperazione non implica la creazione di blocchi e non prende di mira paesi terzi. È abbastanza comune che le alleanze dell’era della Guerra Fredda siano composte da chi guida e chi è guidato, ma queste categorie sono irrilevanti nel nostro caso. Pertanto, speculare su qualsiasi tipo di squilibrio sarebbe inappropriato.

Mosca e Pechino hanno costruito i loro legami su un piano di parità e li hanno resi autosufficienti. Lo hanno fatto sulla base della fiducia e del sostegno reciproci, radicati in molti secoli di relazioni di vicinato. La Russia riafferma il suo fermo impegno al principio di non ingerenza negli affari interni.

La cooperazione tra Russia e Cina in ambito commerciale, di investimenti e tecnologico ha portato benefici a entrambi i Paesi e promuove una crescita economica costante e sostenibile, migliorando al contempo il benessere dei nostri cittadini. Per quanto riguarda gli stretti legami militari, essi garantiscono la reciproca complementarietà, consentendo ai nostri Paesi di affermare i propri interessi nazionali in termini di sicurezza globale e stabilità strategica, contrastando efficacemente le sfide e le minacce convenzionali e nuove.

Corriere: L’Italia porta con sé l’etichetta di Paese ostile, come lei ha ripetuto più volte, anche nel novembre 2024. Ha sollevato un punto particolare a riguardo. Tuttavia, negli ultimi mesi il governo italiano ha dimostrato la sua solidarietà all’amministrazione statunitense, anche sulla questione ucraina, mentre Vladimir Putin ha usato il termine “partner” per riferirsi agli Stati Uniti, pur non arrivando a definirli alleati. Considerando la nomina di un nuovo ambasciatore a Mosca, ci sono motivi per ritenere che Roma stia cercando una sorta di riavvicinamento. Come valuta il livello delle nostre relazioni bilaterali?

Sergey Lavrov: Per la Russia, non ci sono nazioni o popoli ostili, ma ci sono paesi con governi ostili. E poiché questo è il caso di Roma, le relazioni tra Russia e Italia stanno attraversando la crisi più grave della storia del dopoguerra. Non siamo stati noi a dare il via alla questione. La facilità e la rapidità con cui l’Italia si è unita a coloro che scommettevano sull’infliggere quella che definivano una sconfitta strategica alla Russia, e il fatto che le azioni dell’Italia siano contrarie ai suoi interessi nazionali, ci hanno davvero sorpreso. Finora, non abbiamo visto alcuna iniziativa significativa per cambiare questo approccio aggressivo. Roma persiste nel fornire il suo sostegno a tutto tondo ai neonazisti di Kiev. Il suo risoluto tentativo di recidere tutti i legami culturali e i contatti con la società civile è altrettanto sconcertante. Le autorità italiane hanno annullato le esibizioni di eminenti direttori d’orchestra e cantanti lirici russi e si sono rifiutate di autorizzare il Dialogo di Verona sulla cooperazione eurasiatica da diversi anni, nonostante sia stato istituito in Italia. Gli italiani hanno la fama di amanti dell’arte e di essere aperti a promuovere i legami interpersonali, ma queste azioni sembrano per loro piuttosto innaturali.

Allo stesso tempo, ci sono parecchie persone in Italia che cercano di arrivare in fondo alle cause della tragedia ucraina. Ad esempio, Eliseo Bertolasi, un importante attivista civile italiano, ha presentato prove documentali delle violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità di Kiev nel suo libro “Il conflitto in Ucraina attraverso gli occhi di un giornalista italiano”. Vorrei consigliarvi di leggere questo libro. In effetti, trovare la verità sull’Ucraina in Europa è diventato un compito piuttosto arduo al giorno d’oggi.

I popoli di Russia e Italia trarranno beneficio da una cooperazione paritaria e reciprocamente vantaggiosa tra i nostri due Paesi. Se Roma è pronta a procedere verso il ripristino di un dialogo basato sulla fiducia reciproca e sulla considerazione dei reciproci interessi, deve inviarci un segnale, poiché siamo sempre pronti ad ascoltare ciò che avete da dire, incluso il vostro ambasciatore.

L’ARMA SEGRETA DEI RUSSI NON È LA PALA, MA LA CARRIOLA

Archiviate i caccia di quinta generazione.

Dimenticate i missili ipersonici. Relegate il missile a propulsione atomica nei libri di storia.

La dottrina militare del futuro, il segreto dei russi che nessuno riusciva a scoprire, signore e signori, è stato finalmente svelato.

E non arriva dai laboratori del MIT o dai think tank della DARPA. No. Arriva direttamente dai campi fangosi del Donbass, spinta da mani callose e da una volontà ferrea che evidentemente i nostri analisti da salotto non avevano messo in conto. Una volontà contadina, campagnola, bucolica.

L’arma segreta definitiva dell’esercito russo che farà impallidire i miliardi di euro e di dollari del complesso militare-industriale occidentale, è lei: la carriola.

Un oggetto che puoi trovare in qualunque Brico center, perfino al supermercato.

Sì, avete letto bene. La carriola. Semplice. Geniale. Inarrestabile.

Mentre le nostre cancellerie si affannano a contare i proiettili e a incolpare la nebbia, mentre i nostri generali si perdono in power point colorati sulle meraviglie dell’intelligenza artificiale applicata al campo di battaglia, i russi hanno scoperto l’arma definitiva.

L’hanno epurata da ogni orpello tecnologico, riportandola a una purezza quasi zen. Una ruota, due manici, un cassone. E la vittoria è servita.

DALLA PALA DELL’800 AL CHIP DELLA LAVATRICE, CRONACA DI UNA DEBACLE ANNUNCIATA MA MAI AVVENUTA

Sia chiaro, l’avvento della carriola tattica non è un fulmine a ciel sereno. Fa parte di una narrazione che da oltre tre anni ci culla dolcemente, raccontandoci la favola di un esercito di straccioni tenuto insieme non si sa bene da cosa, prossimo al collasso ogni giovedì pomeriggio.

Un esercito che non dovrebbe neppure esistere più, visto che ci parlano di 1000 perdite al giorno dal 2022, cioè, almeno 1,3 milioni di morti su un esercito che, nel 2022, era stimato tra 1,2 e 1,5 milioni di uomini.

È una litania di mera propaganda che ormai conosciamo a memoria, un rosario di inettitudine strategica che recitiamo per auto-assolverci.

Prima furono le letali pale da fanteria l’arma segreta, strumento multiuso buono sia per scavare trincee a mani nude (perché ovviamente non avevano altro a causa delle nostre sanzioni dirmpenti) sia per assalti corpo a corpo degni di un film di serie B.

Poi arrivò la mirabolante saga dei chip per lavatrici, la panzana più divertente, chip trafugati dalle case ucraine per guidare missili di precisione e droni, in un capolavoro di ingegneria inversa che avrebbe fatto invidia a MacGyver.

Una trovata che negli USA ha mandato al collasso il flusso di miliardi spesi in ricerca e sviluppo per la Difesa, quando bastava rivolgersi alla Indesit o similari per chip a poco prezzo.

E come dimenticare il mistero irrisolto dei calzini spaiati e delle divise mancanti per un milione e mezzo di soldati che, nel frattempo, morendo 1000 al giorno, dovrebbero essersi estinti?

O le carovane di asini e muli che, secondo le fonti informatissime delle nostre testate più blasonate, avrebbero dovuto sostituire i blindati, ormai tutti distrutti dall’esercito ucraino?

Ogni settimana, una nuova, esilarante prova dell’imminente implosione russa. Ogni settimana, puntualmente, una nuova avanzata russa sul campo.

C’è una dissonanza, da qualche parte. Una sola?!

Un enorme, quanto incontrovertibile, cortocircuito tra la realtà che ci raccontano e quella che, banalmente, accade.

ANALISI GEOPOLITICA DELLA CARRIOLA MODELLO POKROVSK

Ma ora, con la carriola, siamo al livello successivo.

Non più un semplice attrezzo, ma una piattaforma logistica polivalente. Le agenzie, citando fonti di un’intelligence che evidentemente passa le sue giornate a spiare i cantieri edili, ci informano che questi avveniristici mezzi trasportano di tutto.

Caspita, che geni!

Droni. Munizioni. Generatori. Viveri.

Il tutto per chilometri, nella nebbia “putiniana” che, come è noto, ostacola la vista solo ai soldati e alle armi NATO.

È ovvio che non stiamo parlando di una carriola qualsiasi. Sarebbe un errore pensarla come quella di vostro nonno nell’orto.

Qui siamo di fronte a un sistema d’arma integrato, signori.

Immagino già le specifiche segrete: telaio in lega leggera, manopole ergonomiche riscaldate per l’inverno siberiano, ruota con pneumatico antiproiettile e, naturalmente, una suite di optional da far invidia a un’auto di lusso.

Fari antinebbia a LED (fondamentali a Pokrovsk), vernice mimetica cangiante a seconda del fango, e – tenetevi forte – uno scudo deflettore in plexiglass per proteggere il carico dai droni.

Magari con lo scarico in titanio e il parafango in carbonio per i modelli “sport” o “GT”, come si definivano un tempo.

È l’unica spiegazione logica. Altrimenti dovremmo ammettere che, forse, l’efficacia sul campo non dipende solo dall’ultimo gadget hi-tech, ma da fattori più prosaici.

Come la massa, la produzione industriale, la dottrina militare e la capacità di sopportare le perdite. Ma queste sono cose noiose, da libri di storia. Meglio la carriola.

PROPAGANDA, QUANDO LA REALTÀ DIVENTA UN OPTIONAL

Arriviamo al dunque. Perché questa narrazione? Perché si continua con la propaganda anziché raccontare i fatti?

Perché, mentre il conflitto sta ridefinendo gli equilibri mondiali, le nostre fonti di informazione si concentrano su dettagli che oscillano tra il comico e il patetico?

Beh, perché è un sedativo per le coscienze. Serve a costruire l’immagine di un nemico che non è soltanto malvagio, ma anche stupido e tecnologicamente inferiore.

Un cretino, goffo e prevedibile.

Questo “comfort narrativo” ha una duplice funzione.

Da un lato, rassicura l’opinione pubblica interna, con una carezza ideologica per cui “stiamo vincendo, è solo questione di tempo”; dall’altro, giustifica ogni fallimento strategico, perché, diciamocelo: “come potevamo prevedere che usassero le carriole?”.

È la stessa logica che porta a definire “non etica” ogni mossa efficace del nemico e “giusta e necessaria” ogni nostra azione, anche la più fallimentare. Le famose armi del nemico che uccidono e le nostre, intelligenti.

Si crea un mondo parallelo, una bolla mediatica in cui le nostre armi sono sempre infallibili, le nostre sanzioni sempre devastanti e il nemico è sempre a un passo dal baratro.

È una fiaba, naturalmente. Non perché lo sostenga io, ma perché ce lo sbatte in faccia il tempo. Ce lo raccontano i fatti sul campo di battaglia.

È una ninna nanna per adulti spaventati. Ma il problema è che le guerre non si vincono con le fiabe.

Mentre noi ridiamo delle carriole, chilometri di terra cambiano di mano. Mentre ci indigniamo per le pale, intere linee difensive russe vengono consolidate. Mentre contiamo i chip delle lavatrici, le fabbriche d’armi del nostro avversario lavorano su tre turni.

La propaganda è un’arma potente, certo. Ma ha un difetto fatale: non ferma i proiettili e non cambia i fatti.

Può distorcere la realtà per mesi, perfino per anni, ma poi il tempo passa e pone ogni pagliaccio nel suo circo.

E temo che quando, e se, decideremo di svegliarci da questo torpore autoindotto, scopriremo che la realtà, a differenza della nostra narrazione, non si spinge con una sola ruota.

Forse, serve davvero una riunione urgente tra i vertici della Difesa, perché, a furia di raccontare supercazzole di tali proporzioni, il livello cognitivo di certi italiani è sceso a livelli preoccupanti e il rischio è che, al circo, si sveglieranno in tanti.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’OMBRA DI EPSTEIN SU TRUMP, TRA RAGAZZE, BUGIE E SUSSURRI RUSSI, IL FANTASMA CHE LA CASA BIANCA NON PUÒ ESORCIZZARE

WASHINGTON. C’è un fantasma che si aggira per i corridoi del potere a Washington, avrebbero scritto quelli bravi qualche decennio fa.

Un fantasma che non ha catene, ma file criptati. Non emette lamenti, ma dispensa email al cianuro.

Il suo nome è Jeffrey Epstein e la sua ultima bordata rischia di lesionare le fondamenta della Casa Bianca.

Le email, rilasciate come schegge di mortaio dai Democratici della Commissione di Vigilanza, sono molto più di un’accusa. Sono un’architettura narrativa.

“Trump sapeva delle ragazze”. “Virginia Giuffre ha passato ore a casa mia con lui”.

Firmato, Jeffrey Epstein.

Parole scritte nero su bianco come un’epigrafe sulla presidenza Trump.

La reazione della Casa Bianca è stata immediata, quasi pavloviana: “Fango dei Dem”, “una bufala”.

Ma liquidare tutto come un semplice gioco di parti sarebbe un errore intellettuale imperdonabile.

Ebbene, non siamo di fronte a una schermaglia politica, ma ci troviamo a essere spettatori di una guerra combattuta con le armi della comunicazione di massa, dove la percezione del reale diventa più potente della stessa realtà.

LA GRAMMATICA DEL RICATTO AI PIANI ALTI DEL POTERE

Analizziamo i reperti.

Un’email a Ghislaine Maxwell. Un’altra allo scrittore Michael Wolff. Una, la più bizzarra, a se stesso.

Epstein, uomo dal quoziente intellettivo indiscutibilmente elevato e dalla morale inversamente proporzionale, non scriveva mai a caso. Ogni sua comunicazione era come una mossa da abile giocatore di scacchi.

L’apparente lapsus, “Non ha mai ricevuto un massaggio”, dopo aver affermato che Trump frequentava la sua casa, è una finezza sociolinguistica di rara perfidia. È una negazione che afferma e sottintende un universo di possibilità, lasciando all’immaginazione del lettore il compito di riempire gli spazi vuoti.

La difesa di Trump si basa sulla sua stessa versione dei fatti: allontanò Epstein da Mar-a-Lago perché “rubava” le impiegate. Una versione che, paradossalmente, la stessa email di Epstein a Wolff sembra corroborare: “Ovviamente sapeva delle ragazze perché ha chiesto a Ghislaine di fermarsi”.

Ma cosa sapeva esattamente? Che Epstein era un predatore o che era un criminale federale? La differenza non è semantica, è giuridica e morale. È l’abisso che separa un giudizio etico da una complicità penale dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

IL NODO GEOPOLITICO: DA PALM BEACH A MOSCA

L’errore più grande sarebbe confinare questa storia a Palm Beach.

Giugno 2018. Un mese prima che Donald Trump incontri Vladimir Putin a Helsinki, in un vertice che passerà alla storia per la controversa sottomissione del presidente americano all’ex uomo del KGB, Jeffrey Epstein tenta di inserirsi come intermediario. “Penso che potresti suggerire a Putin che Lavrov potrebbe ottenere informazioni parlando con me”.

Questa non è la millanteria di un playboy, come potrebbe pensare qualcuno, ma la mossa di un operatore di intelligence non statale.

Epstein non stava vendendo pettegolezzi, ma faceva leva su un presidente in carica degli Stati Uniti. Quali informazioni possedeva per ritenersi così credibile agli occhi del Cremlino?

La sua rete non era solo sessuale, era un ecosistema di potere globale. Nelle sue email compaiono i nomi di ex Primi Ministri, direttori della CIA, giganti della finanza come Peter Thiel e Larry Summers, e principi sauditi.

Epstein era un nodo in una rete dove il capitale finanziario, il capitale politico e il capitale segreto si fondevano. Definiva Trump “un demente borderline”, ma era un demente che, a suo dire, poteva essere “guidato”.

La domanda che terrorizza Washington oggi è: guidato da chi? E con quali segreti?

LA VERITÀ È L’ULTIMA VITTIMA

La figura di Virginia Giuffre, tragicamente scomparsa, è emblematica. Nelle sue deposizioni giurate ha sempre scagionato Trump da abusi diretti, pur confermando la sua presenza in quel mondo.

Ora, l’email di Epstein la usa come un’arma postuma. È la vittima usata due volte: prima dal suo aguzzino, adesso dal suo fantasma.

Mentre la Camera si prepara a votare sulla pubblicazione di tutti i 23.000 documenti, la politica si trasforma in un reality show macabro e i media sono pronti al Grande Fratello e al processo mediatico.

I Repubblicani pronti a votare con i Democratici non lo fanno per sete di giustizia, ma per calcolo politico, forse per liberarsi di un leader diventato troppo ingombrante.

Trump, dal canto suo, definisce chiunque voti a favore “molto cattivo o stupido”, un’estrema semplificazione che nasconde il terrore di ciò che potrebbe emergere.

Se non avesse nulla da nascondere e da temere, infatti, sarebbe lui il primo a chiedere di pubblicare ogni documento per dimostrare al mondo la sua estraneità.

E Ghislaine Maxwell?

È la custode vivente dei segreti.

La sua richiesta di grazia, unita al suo trasferimento in un carcere più “confortevole”, ci parla di un patto con qualcuno molto in alto. Moltissimo. Un silenzio comprato in cambio di clemenza?

È la variabile impazzita, la donna che sa se le affermazioni di Epstein fossero una polizza assicurativa, un’arma di ricatto o la cruda verità.

Alla fine, ciò che rimane non è la certezza di una colpa, che, allo stato attuale, non esiste, ma resta la corrosione di ogni fiducia.

Il suicido/omicidio di Jeffrey Epstein non ha solo dato il via a una scia di vite distrutte, uccise, suicidate, ma è qualcosa di più potente, un veleno inoculato nel sistema politico e mediatico che ci costringe a domandarci se esista ancora una verità o se tutto è solo la versione della storia raccontata dal vincitore dell’ultima battaglia.

In questa vicenda, temo che la risposta sia già stata scritta. Ed è la più desolante di tutte.

Le email di Epstein scuotono la Casa Bianca: accuse, legami con la Russia e il fantasma di un ricatto. Un'inchiesta tagliente sul potere, le bugie e i segreti che minacciano di travolgere la presidenza Trump.

UN CONTROLLO DELLA VERITÀ. COME IN COREA DEL NORD

Mentre la narrazione sulla vittoria ucraina e dei russi costretti dalle nostre sanzioni dirompenti a combattere solo armati di pale si scioglie nel fango del Donbas, a Bruxelles si lavora alla censura. Caduta la legge Chat Control, ora l’Europa cambia strategia, ipotizzando qualcosa di molto più pericoloso.

C’è un soldato, da qualche parte tra Kupiansk e Pokrovsk, che affonda gli stivali nel fango gelido. Gli avevano raccontato una favola. Quella di un nemico assopito dalle sanzioni dell’Occidente, che combatteva con le pale, senza calzini, guidato da un tiranno a cui mancavano pochi mesi di vita.

Gli avevano promesso una vittoria rapida, gloriosa. Oggi, quel soldato si ritira. Lo chiamano “riposizionamento strategico”. Una ginnastica semantica per mascherare una verità brutale. La Russia avanza.

Non è armata solo di pale e le sue truppe non usano muli al posto dei mezzi corazzati. Quelle erano balle raccontate dalla propaganda ucraina ed europea. Balle raccontate anche da larga parte della stampa italiana.

A migliaia di chilometri di distanza, nelle sale immacolate di Bruxelles, si pensa a una nuova arma.

Non di acciaio, ma di algoritmi, regolamenti e comitati di “esperti”.

Lo chiamano “Scudo Democratico”.

La sua missione ufficiale è proteggerci dalle stesse “interferenze” e “narrazioni ingannevoli” che per quattro anni ci hanno nutrito.

La connessione tra quel soldato in ritirata e il burocrate che scrive la nuova legge sulla censura non è casuale, ma un nesso di causa ed effetto.

È la storia di come una guerra persa sul campo si stia trasformando in una guerra per il controllo delle nostre menti, delle nostre idee. E, ancora peggio, per il controllo di cosa debba essere considerato vero e cosa no.

Perché hanno una paura fottuta a ogni elezione, visto che, a ogni elezione, chi non tifa per il pensiero unico, chi non tifa per il riarmo e nemmeno per le lobby della guerra, vince oppure ottiene risultati che inguaiano i vari Macron, Merz e chi sposa le politiche di von der Leyen.

IL TEATRO DELL’ASSURDO: CRONACA DI UNA VITTORIA ANNUNCIATA (E MAI ARRIVATA)

Per quasi quattro anni, ci hanno raccontato un copione meraviglioso. I missili russi erano finiti.

L’economia di Mosca era al collasso grazie alle nostre sanzioni dagli effetti dirompenti. L’esercito russo era una massa di ubriaconi raccattati per le strade, tant’è che disertavano a centinaia ogni giorno; la Russia non aveva più giovani da mandare al fronte perché erano già tutti morti in battaglia. I loro mezzi corazzati erano stati distrutti e sostituiti da muli. Le loro armi erano pezzi da museo e per armare i droni smontavano microchip dagli elettrodomestici ucraini.

Noi, intanto, inviavamo miliardi. Armi, munizioni, promesse, perché tanti di noi credevano a questo copione di falsità della propaganda.

Mentre questa narrazione monodirezionale veniva pompata a reti unificate, la realtà si mostrava su Telegram, sui blog indipendenti, tra gli analisti militari non allineati, un’alternativa ai media ufficiali, che ormai è l’ultima fonte di un’informazione non addomesticata.

Lì si vedeva l’avanzata russa, lenta ma inesorabile. E si vedeva quanto ciò che ci raccontavano i media ufficiali fossero fake news.

Si leggevano i resoconti sulla corruzione sistemica a Kiev, con centinaia di milioni di dollari dei nostri aiuti che svanivano in un buco nero di tangenti e appalti truccati, come sta emergendo pian piano oggi. Si scopriva di mezzo milione di armi “scomparse”.

Emergeva il dramma umano di una mobilitazione forzata, con giovani che fuggivano dal Paese per non finire al fronte a morire per una causa i cui obiettivi primari – la riconquista dei territori – apparivano, e appaiono tuttora, irraggiungibili.

Se oggi non siamo basiti di fronte al ritiro ucraino, se non ci chiediamo “Ma come? Non stavamo vincendo? I Russi non erano senza soldi e armati solo di pale?”, è solo grazie a queste voci libere e non serve della propaganda.

Voci che il potere ha sistematicamente etichettato come “filo-russe”, “disfattiste”, “putiniane”. Voci che hanno semplicemente raccontato i fatti.

Voci che l’Europa vorrebbe imbrigliare poiché scomode.

SE NON PUOI CAMBIARE I FATTI, CENSURA CHI LI RACCONTA E LI MOSTRA

Il crollo della narrazione ha creato un vuoto di credibilità tra i media tradizionali.

Nessuno sano di mente crede più a chi ha raccontato di pale, muli, microchip e soldati senza calzini né a chi giurava che Putin fosse in punto di morte.

Ma se i fatti non corrispondono più alla propaganda, tanto peggio per i fatti. La soluzione non è correggere la narrazione e licenziare chi ha raccontato panzane per mesi e mesi, allora, ma rendere obbligatoria la propaganda.

È qui che entra in scena Ursula von der Leyen con il suo capolavoro: una “rete europea indipendente di fact-checking”. Indipendente, certo.

Talmente indipendente da essere guidata direttamente dal suo ufficio, una sorta di CIA europea dell’informazione.

L’obiettivo dichiarato, come riportato dal Financial Times e dal Fatto Quotidiano, è “individuare e rintracciare l’utilizzatore dei social media” che diffonde “informazioni inaffidabili”.

E quando si attiverà questa santa inquisizione digitale?

Non sempre. Solo in momenti precisi, chirurgici: “elezioni, emergenze sanitarie o calamità naturali”.

Tradotto: si attiverà ogni volta che il consenso vacilla. Ogni volta che la gestione di una crisi (politica, sanitaria, economica) genera dissenso. Non serve a proteggerci dalle truffe online. Serve a proteggere il potere dalle nostre domande.

È una STASI al servizio del potere.

In Italia, mentre il Partito Democratico applaude, il partito di Calenda propone uno “Scudo Democratico” contro le “interferenze russe e cinesi”, e il Quirinale convoca il Consiglio Supremo di Difesa per discutere la “dimensione cognitiva”.

La parola chiave è sempre quella: cognitiva. Non si combatte più un nemico fisico, si combatte un’idea. Un pensiero. Un dubbio.

Il sistema combatte chiunque metta in discussione le supercazzole che la propaganda ha spacciato per vera: sanzioni dirompenti, microchip smontati dagli elettrodomestici, russi armati solo di pale e senza calzini, esercito di ubriaconi perché i giovani erano tutti morti, muli al posto dei mezzi corazzati, Putin prossimo a essere stroncato da uno, due, tre, quattro tipologie di cancro – perché la sfiga si incaponisce con l’orco russo.

IL PARADOSSO DELLA DEMOCRAZIA BLINDATA: IL MINISTERO DELLA VERITÀ È GIÀ QUI

La propaganda di questi quattro anni non è stata un errore di comunicazione, perché, se fosse stata un errore, il Presidente Mattarella avrebbe chiesto una riunione per verificare questa diffusione sistematica di fake news.

Invece, è stata una prova generale. Un test su larga scala per misurare la nostra capacità di assorbire una realtà artificiale, fatta di balle che il tempo e i fatti stanno rivelando essere tali.

Il test ha dimostrato che, senza un’informazione alternativa e robusta alle panzane di pale e microchip, la maggioranza della popolazione è disposta a credere a qualunque balla, anche la più inverosimile, perché tanti non hanno studi e cultura sufficienti, non si informano da più fonti e/o ragionano in base al tifo partitico, senza avere la mente aperta e spirito critico.

Ora, di fronte al fallimento della favola raccontata dalla propaganda, si passa alla fase due: l’istituzionalizzazione del controllo.

Ciò che prima era propaganda, ora diventerà “fact-checking” ufficiale. Un po’ come accaduto durante la pandemia Covid, quando sono stati censurati articoli, post e idee vere, reali e dimostrate da studi, fatti e tempo, solo perché erano contrari alla narrazione del pensiero unico.

La narrazione governativa non sarà più una “versione”, ma “la Verità”, l’unica verità a non essere reato di propaganda, l’unica verità certificata da un organismo che risponde direttamente a chi comanda.

Hanno creato il problema, cioè un’opinione pubblica disorientata da anni di menzogne, e ora ci offrono la loro soluzione: un’autorità centrale che ci dirà cosa pensare. Che cosa è vero e che cosa è falso.

È un circolo vizioso perfetto, un’architettura di potere che si autoalimenta.

È il sistema che cerca di salvare giornalisti e media che non informano più, ma hanno scelto di diventare megafoni del potere, motivo per cui la gente non li legge più.

Ci dicono che lo fanno per salvare la democrazia. Ma sono gli stessi che la democrazia l’hanno messa in soffitta con il green pass e con le supercazzole di pale e microchip.

Una democrazia vera e sana non ha bisogno di uno “scudo” per proteggere i cittadini dal pensiero critico. Quella è una dittatura, quella è la Corea del Nord.

Il problema semmai è chi o cosa difenderà la democrazia da questo “scudo” dal perfetto stile Pyongyang.

Proprio per spiegare come hanno costruito la propaganda, ho scritto un piccolo libro, disponibile in esclusiva su Amazon.

IL CROLLO DEL FRONTE E DELLA NARRAZIONE. TRA PROPAGANDA DI GUERRA E CENSURA “DEMOCRATICA”

La dissonanza cognitiva collettiva ha raggiunto il suo punto di rottura con la caduta delle città di Pokrovsk e Kupyansk, simboli di una narrativa che si sgretola sotto il peso dei fatti.

IL FRONTE MILITARE: LA SCONFITTA NEGATA

In Ucraina, i conti non tornano più.

La strategia della “difesa a oltranza”, imposta più per ragioni politiche che per saggezza tattica, si sta rivelando un suicidio.

I comandanti sul campo, quelli che vedono i volti dei loro uomini prima di mandarli a morire, lo dicono a mezza voce: continuare a difendere “calderoni” indifendibili, come la sacca di Mirnograd, serve solo a macinare le ultime, preziose vite rimaste.

La richiesta avanzata allo Stato Maggiore di un arretramento tattico per accorciare il fronte di 1.300 chilometri non è un atto di codardia, ma l’unica mossa razionale rimasta su una scacchiera dove la partita è persa da mesi.

Eppure, pubblicamente, si nega.

Si nega l’accerchiamento, anche quando le mappe dell’Institute for the Study of War – un think-tank tutt’altro che filo-russo – lo certificano.

Si parla di situazione “sotto controllo” mentre le truppe ucraine a est del fiume Oskol lottano disperatamente per coprire una ritirata senza più ponti sicuri.

Sembra di rivivere la follia dell’Asse sul Fronte Orientale, sacrificare tutto per non cedere un metro di terra, anche quando quella terra è già diventata la tomba dei suoi difensori.

È una logica che non porta alla vittoria, ma solo all’annientamento.

Intanto, i russi entrano a Pokrovsk. Sarebbero non meno di 300. Altri 10.000 sarebbero pronti a entrare, a Sud.

La città diventerebbe una conquista cruciale, il centro più grande conquistato da Mosca, dopo Bakhmut, nel 2023, e Avdiivka, nel febbraio 2024.

La sua caduta permetterebbe di consolidare il controllo russo sul Donetsk e l’esercito di Mosca sarebbe libero di avanzare verso la “cintura delle fortezze ucraine”, dislocate tra Kostyantynivka, Druzhkivka, Kramatorsk e Sloviansk.

IL FRONTE INTERNO: LA DISERZIONE E LA FUGA DI UN POPOLO

Forse la metrica più onesta per misurare la legittimità di una guerra non è il numero di chilometri conquistati, ma la direzione in cui corre la sua gente. E la gente, in Ucraina, sta correndo via.

Il racconto di un popolo unito e pronto al sacrificio si infrange contro due dati impietosi. Il primo è il record di diserzioni registrato a ottobre: oltre 21.000 uomini. E a dirlo non è un blog russo, ma l’ex parlamentare ucraino Igor Lutsenko.

Un esercito che si disgrega dall’interno, minato da una sfiducia che la propaganda non può più nascondere.

Il secondo dato, ancora più eloquente, è la fuga di massa dei giovani. L’impennata di espatriati nella fascia 18-22 anni, non appena le frontiere sono state riaperte in via eccezionale per loro, non è un’opinione, ma è un vero e proprio plebiscito contro la politica di Zelensky.

-Ricordiamo che, in virtù delle leggi marziali, gli ucraini dai 18 ai 60 anni non possono lasciare il Paese. Ai giovani tra i 18 e i 22 è stata data la possibilità dopo le forti pressioni dell’opinione pubblica ucraina.-

Questi ragazzi non fuggono per codardia. Fuggono perché, a differenza dei “guerrieri da salotto” di Bruxelles, Roma, Parigi, Berlino e Varsavia, sanno cosa li aspetta.

Vedono le ronde di reclutamento forzato per le strade. Sentono le storie, sussurrate e mai ufficiali, di battaglioni con perdite del 70% mai rimpiazzate.

Sanno che la domanda non è più “se” andranno al fronte, ma “quando”.

E si chiedono per cosa andranno a morire vista la sconfitta sempre più inequivocabile.

LA GUERRA DELL’INFORMAZIONE: DAL PENSIERO UNICO ALLO “SCUDO DEMOCRATICO”

Di fronte al fallimento della propria narrazione, incapace di reggere l’urto della realtà, l’establishment europeo non fa autocritica. Raddoppia, in perfetto stile orwelliano.

Prima, con la solita strategia mediatica: negare la sconfitta fino all’ultimo, per poi minimizzarne l’importanza strategica ed esaltare le “enormi perdite” del nemico.

Ma ora si prepara il passo successivo, quello più pericoloso. La Commissione Europea, come riportato da N-TV, progetta uno “Scudo Democratico”.

Il nome è nobile, ma si tratta di un pacchetto di misure per contrastare la “guerra di influenza” e le fake news, finanziando ulteriormente i media allineati.

Solo che le fake news, per l’Europa, non sono le panzane raccontate per quattro anni su pale dell’800, soldati russi a dorso di muli perché i mezzi corazzati erano tutti annientati e altre sciocchezze della propaganda diffusa dal mainstream, ma fake news sono i fatti.

Chiamiamolo con il suo vero nome, allora: un Ministero della Verità.

Se un’idea è forte, non ha bisogno di censurare quelle opposte; le smonti con la forza degli argomenti e dei fatti.

Ma quando i fatti diventano scomodi, allora l’opinione è additata come “disinformazione”, l’analisi critica è “propaganda nemica”, il dubbio “ingerenza straniera”.

Il vero pericolo per la democrazia non è chi esprime un’opinione diversa, ma chi, detenendo il potere, ha certezze assolute e una paura fottuta che qualcuno possa metterle in discussione.

Questi personaggi, che si ergono a difensori della libertà auspicando la censura, non stanno costruendo uno scudo per la democrazia, ma stanno instaurando una dittatura, un pezzo alla volta.

LA SOSTENIBILITÀ DI UNA GUERRA PERSA

L’ostinazione europea a prolungare il conflitto si schianta contro la matematica e la realtà sul campo di battaglia.

La Russia ha tempo, uomini reclutati su base volontaria e una macchina industriale bellica a pieno regime. La sua strategia di logoramento funziona; ‘Ucraina, al contrario, ha finito gli uomini, le munizioni e presto finirà anche l’elettricità, con un sistema energetico sistematicamente smantellato.

In tale scenario, il piano di pace europeo in 12 punti appare come il delirio di chi ha già perso, ma non vuole ammetterlo.

Chiedere un cessate il fuoco sull’attuale linea del fronte e pretendere che la Russia paghi le riparazioni di guerra è un insulto all’intelligenza e alla storia, che insegna come le riparazioni le paghino gli sconfitti. E l’Ucraina, insieme all’Europa, questa guerra la sta perdendo.

Il fronte ucraino sta crollando. E con esso, l’intera impalcatura narrativa che ha giustificato per anni questa politica scellerata. Il rumore delle bombe a Pokrovsk è assordante, ma quasi quanto il silenzio dei media europei, che distolgono lo sguardo dalla sconfitta.

Il vero scudo di cui la democrazia ha bisogno non è contro le idee altrui, soprattutto contro la realtà, ma contro chi ha una paura fottuta della verità.

Per combattere le fake news e la disinformazione, non servono ministeri, intelligence, nuove norme restrittive. Basterebbe solo raccontare la verità e osservare i fatti portati dal tempo.

Basterebbe non seguire più chi ha raccontato di pale, muli e microchip, chi ha raccontato che Mosca stava crollando nel 2022 per le nostre sanzioni dirompenti, chi ha raccontato che era stato Putin a danneggiare il Nord Stream.

Insomma, basterebbe volere la verità e non tifare per la propaganda.

Solo che la propaganda serve a creare un nemico. E, senza nemico, gli europei non accetterebbero lacrime e sangue per il riarmo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

È STATA L’UCRAINA, QUINDI TUTTI ZITTI. SILENZIO SU MIG-31 E NORD STREAM

Ci sono verità che fanno rumore, quando fai comunicazione e il tuo scopo è informare, ma se fai propaganda e il tuo scopo è creare nemici perpetui, allora certi fatti vanno silenziati.

Ecco perché certi fatti emergono silenziosi, tra le pieghe di un’inchiesta giornalistica o nelle righe di un comunicato dei servizi segreti, eppure hanno la potenza di un’onda d’urto capace di frantumare l’intero paradigma narrativo su cui si regge l’attuale conflitto europeo e la sua propaganda.

La verità, oggi, ha il volto scomodo di un’Ucraina non solo vittima, ma anche attore spericolato e cinico, un giocatore d’azzardo che gioca il tutto per tutto per scatenare una guerra mondiale.

LA MASCHERA CADE: IL CASO NORD STREAM E IL CAPRO ESPIATORIO PERFETTO

Il sabotaggio del gasdotto Nord Stream è stato il più grande attacco a un’infrastruttura critica europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Un colpo chirurgico che ha reciso l’arteria energetica della Germania, che ha messo in ginocchio l’economia europea e ha ridefinito gli equilibri geopolitici per i decenni a venire.

La narrazione iniziale, immediata e martellante, puntava il dito contro Mosca, in un coro quasi unanime che non ammetteva repliche, nonostante l’idea che fosse stato Putin a distruggere un’infrastruttura fondamentale per la Russia fosse idiota.

Ma la verità e i fatti si presentano sempre, prima o poi.

A supporto delle indagini della magistratura tedesca, che ha già emanato mandati d’arresto per diversi ucraini, sono arrivate le rivelazioni del Wall Street Journal, corroborate da molteplici indagini, ad indicare una direzione diversa e sconvolgente: Kiev.

L’operazione, complessa e costosissima, sarebbe stata pianificata ed eseguita da un gruppo d’élite delle forze speciali ucraine.

Ora, essendo impossibile che un uomo solo, l’ex Comandante in Capo delle forze armate ucraine, il generale Valerii Zaluzhnyi, potesse disporre di somme ingenti di denaro e potesse orchestrare un’operazione simile in solitudine è evidente il coinvolgimento del governo ucraino.

Anche l’essere stato spedito a fare l’ambasciatore a Londra, sembra la chiusura di un cerchio, per allontanarlo dal luogo del delitto.

Ma le notizie emergono e il Nord Stream si conferma sempre più un attentato ucraino agli europei.

Immaginate se fosse emerso che era un commando russo?

Titoli di giornale, intere puntate dedicate nei talk show, invocazione dell’articolo 5.

Invece, cosa fanno Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni? Tacciono per una chiara scelta politica.

È l’accettazione passiva di un affronto senza precedenti a un partner europeo, un atto di sottomissione strategica che rivela la fragilità e la mancanza di sovranità di un’Unione incapace persino di chiedere conto a chi sabota le sue fondamenta economiche.

Un silenzio per nascondere il fallimento di quasi quattro anni di scelte sbagliate e miliardi dei contribuenti sperperati a difendere chi ci danneggia.

OLTRE IL BALTICO ENNESIMO TENTATIVO DI DISASTRO

Se il caso Nord Stream rivela un’inquietante spregiudicatezza, la notizia sventata dai servizi segreti russi (FSB) dipinge uno scenario da incubo, un gioco ai confini della follia, che dimostra quanto Zelensky sia pronto a tutto.

Secondo Mosca, i servizi segreti di Kiev, con il presunto appoggio britannico, avrebbero tentato di corrompere piloti russi per dirottare un caccia MiG-31, un intercettore armato con missili ipersonici Kinzhal.

Lo scopo era quello di dirigersi contro una base NATO in Romania.

Ora, immaginate un aereo da combattimento russo, con capacità quasi nucleari, che viola lo spazio aereo di un paese NATO per atterrare in una sua base?

Cosa sarebbe successo?

L’operazione, fortunatamente sventata, non può essere solo un tentativo di una nazione che si difende disperatamente, ma è la follia di pazzi disperati e disposti a tutto, anche a rischiare l’apocalisse.

Ma chi stiamo armando a nostre spese?!

Certo, qualcuno potrebbe far notare che è quanto affermato da Mosca, ma si tratta degli stessi che puntavano il dito contro Kiev per il Nord Stream. Perciò, sono certamente fonti più attendibili di chi gridava “è stato Putin”, raccontandoci panzane di pale e microchip.

FINANZIARE CHI CI SABOTA E IGNORARE UN POPOLO IN FUGA

In comunicazione, la percezione è spesso più potente della realtà. La realtà, però, ha il vizio di presentare il conto.

L’Europa oggi paga il prezzo di un’equazione insostenibile. La Germania, la nazione più colpita economicamente dal sabotaggio ucraino, si appresta ad aumentare i suoi aiuti militari a Kiev fino a 11,5 miliardi di euro, trasformando al contempo il proprio esercito nel più grande del continente.

Cosa che dovrebbe far venire i brividi a chiunque non nutra idiosincrasie nei confronti della Storia.

È un paradosso che sfida ogni logica, se non quella di un vassallaggio strategico ormai palese. Mentre le nostre economie soffrono e le nostre industrie chiudono, continuiamo a foraggiare un apparato bellico la cui leadership dimostra di non avere scrupoli, nemmeno nei confronti dei propri benefattori.

E il popolo ucraino cosa pensa?

La narrativa occidentale ce lo descrive come un monolite compatto, unito nella volontà di combattere fino all’ultimo uomo.

Eppure, dall’apertura delle frontiere, si è assistito a una fuga di massa di giovani che non vogliono essere mandati al fronte, dato incontrovertibile che dimostra come il popolo ucraino scappi dalla guerra, un popolo sottomesso da una classe politica che la impone, sacrificando una generazione sull’altare di obiettivi che appaiono sempre meno chiari e sempre più pericolosi per tutti.

L’Occidente ha scelto di non vedere, di non sentire.

Ma siamo davvero disposti a finanziare chi è disposta a trascinarci in una guerra atomica a ogni costo?

La prima vittima di ogni guerra è la verità. La seconda, se non iniziamo a porci le domande giuste, potrebbe essere tutto il resto. Dove per tutto il resto s’intende le nostre vite e quelle dei nostri figli.

FONTI

Il Fatto Quotidiano, WSJ, Il Manifesto.