MENTRE L’EUROPA PAGA PER L’APOCALISSE, I GIGANTI SI SPARTISCONO LA PACE

È più fitta la nebbia della dissonanza cognitiva europea o quella che avvolge le trincee del Donbas?

Se si osserva lo scenario attuale con il cinismo necessario a chi conosce i flussi del denaro, appare evidente che stiamo assistendo a due rappresentazioni simultanee, recitate su palcoscenici adiacenti, ma totalmente scollegati.

Da una parte c’è Washington, pragmatica e brutale, che ha riaperto i canali della diplomazia con Mosca; dall’altra c’è Bruxelles, avviluppata in una spirale di riarmo compulsivo e retorica bellicista, che sembra prepararsi a un conflitto epocale proprio mentre gli altri cercano di spegnere l’incendio.

IL PARADOSSO POLACCO E I MILIARDI DELLA PAURA

Il primo atto di questa commedia dell’assurdo si svolge a Varsavia.

L’Unione Europea, con una rapidità di esecuzione che fa invidia ai tempi biblici delle sue burocrazie sanitarie o infrastrutturali, ha trovato 44 miliardi di euro.

Non per gli ospedali, non per adeguare i salari reali che in paesi come l’Italia sono in caduta libera da un ventennio, ma per il riarmo della Polonia.

Intanto, anche la Moldavia parla di sconfinamenti nel proprio spazio aereo, perché i miliardi fanno gola, vuoi mettere?

Stiamo finanziando quello che viene pomposamente chiamato “Scudo Orientale”, un muro di droni, fortificazioni e tecnologia militare al confine con la Bielorussia.

La narrazione ufficiale ci dice che queste sono “scelte sofferte”, dettate dalla necessità di difendere la democrazia dalla Russia alle porte. Ma analizzando i fatti, si nota come stiamo assistendo al più grande trasferimento di ricchezza pubblica verso il complesso militare-industriale dai tempi della Guerra Fredda.

E lo facciamo mentre il Parlamento Europeo, in un impeto di zelo che rasenta il grottesco, sdogana l’utilizzo di armamenti controversi, spingendo l’acceleratore verso un’escalation che la stessa popolazione, impoverita e stanca, non ha mai richiesto.

C’è un’isteria quasi artificiale riguardo ai droni e alle presunte violazioni dello spazio aereo in Romania o Moldavia; incidenti che, in un contesto normale, verrebbero gestiti con telefonate tra diplomatici, oggi diventano il carburante per giustificare spese faraoniche.

Se un treno deraglia o un sito web va offline, la colpa è automaticamente di Mosca, una scusa perfetta che assolve le classi dirigenti da ogni incompetenza gestionale interna.

IL REALISMO DI TRUMP E LA DISCESA A PATTI DEL CREMLINO

Mentre l’Europa scava trincee finanziarie, a migliaia di chilometri di distanza la politica reale ha ripreso a respirare.

Le notizie che filtrano dagli Stati Uniti e dalla Russia delineano un quadro radicalmente diverso da quello dipinto da Kaja Kallas, l’Alto Rappresentante UE che continua a ripetere il mantra delle sanzioni e della guerra a oltranza.

Donald Trump ha cestinato i vecchi ultimatum. Il nuovo piano in 28 punti non è più un diktat, ma una mappa flessibile.

Si parla di un esercito ucraino ridimensionato, ma non annientato (800.000 effettivi, una cifra che ha trovato il consenso di Kiev per quanto ridicola, considerando che la Francia ne conta 200.000), e di concessioni territoriali dolorose inevitabili visto l’esito della guerra.

Vladimir Putin non ha sbattuto la porta.

Anzi, ha definito le proposte americane una “buona base di partenza”.

Mosca aspetta gli USA e i canali di intelligence ad Abu Dhabi sono roventi. Persino Zelensky, in un messaggio che tradisce un realismo sopravvenuto, ringrazia Trump e parla di “obiettivi comuni” per una pace dignitosa.

È il crollo della narrazione manichea: il nemico non è più assoluto, ma un interlocutore con cui trattare il prezzo del gas e i confini sulle mappe.

MA CI SONO INTRIGHI INTERNAZIONALI: CHI VUOLE SABOTARE LA PACE?

Eppure, in questo ingranaggio che tenta di riallinearsi verso la stabilità, qualcuno ha gettato della sabbia.

Il leak della telefonata tra l’inviato Witkoff e il consigliere russo Ushakov non è un incidente di percorso, come si potrebbe pensare, ma un atto di guerra ibrida tra alleati.

Le analisi più raffinate, che incrociano fonti disparate come il giornalismo dissidente americano e le inchieste italiane di alto profilo, puntano il dito verso Londra.

L’intelligence britannica, e forse quella francese, terrorizzate dall’idea di un accordo russo-americano che le tagli fuori dai giochi e renda inutile il loro posizionamento oltranzista, potrebbero aver usato la rete Five Eyes (un’alleanza di intelligence formata da Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti) per intercettare e bruciare il canale diplomatico.

Siamo di fronte a una frattura transatlantica senza precedenti.

Mentre l’amministrazione americana cerca di chiudere il fronte per concentrarsi sulla Cina, una parte dell’Europa, guidata da un asse franco-britannico e sostenuta dalla burocrazia di Bruxelles, gioca al “tanto peggio tanto meglio”, sabotando le trattative pur di non ammettere il fallimento della propria strategia.

L’EPILOGO: I CITTADINI COME SPETTATORI PAGANTI

La sintesi logica di questi elementi è impietosa. L’Europa è governata da una classe politica che, per non perdere la faccia, è disposta a sacrificare il portafoglio e la sicurezza dei propri cittadini.

Mentre a Mosca e a Washington si discute di come spartirsi le sfere di influenza e si abbozzano i confini del dopoguerra, noi stiamo ancora firmando assegni in bianco e usando fondi russi sequestrati per costruire linee Maginot di polistirolo e droni, inseguendo il fantasma di una vittoria totale che nessuno, nemmeno il Pentagono, ritiene più possibile.

Il rischio, concreto e imminente, è che quando la musica della diplomazia si fermerà e l’accordo verrà siglato sopra le nostre teste, l’Europa si ritroverà sola, armata fino ai denti contro un nemico che ha già fatto pace con il nostro protettore, e con un buco di bilancio che pagheranno le prossime tre generazioni.

Non è difesa della libertà, ma la più costosa presa in giro e dimostrazione di incompetenza politica della storia contemporanea, ma edulcorata dai racconti della propaganda delle pale, dei microchip, dei droni, dei muli e delle tante sciocchezze inventate da chi doveva fare informazione, invece ha scelto di diventare megafono del potere.

IL TEATRO DELL’ASSURDO DI UN’EUROPA CHE HA PERSO LA GUERRA E ANCHE LA RAGIONE

Se esistesse un Ministero della Verità orwelliano a Bruxelles, probabilmente sarebbe gestito da uno stagista al secondo anno di Scienze della Comunicazione in evidente stato di ebbrezza.

Non c’è altra spiegazione logica, né sociologica, per la dissonanza cognitiva che l’Occidente ci sta propinando da due anni a questa parte.

Viviamo in una narrazione schizofrenica per cui la Russia è, nello stesso istante, un gigante terrificante pronto a marciare su Lisbona e invadere la Moldavia con orde di droni inarrestabili, e, contemporaneamente, un esercito di straccioni armati di pale, che combatte per conquistare un pollaio nel Donbass esaurendo i missili per acciuffare niente o quasi.

E mentre noi ci perdiamo in questo labirinto di specchi deformanti, la realtà, quella cosa fastidiosa che tende a non curarsi dei comunicati stampa dei grandi giornalisti delle pale e dei microchip, bussa alla porta con la delicatezza di un missile ipersonico Kinzhal.

URSULA SU MARTE E IL PICCOLO NAPOLEONE: QUANDO LA POLITICA DIVENTA PSICOPATOLOGIA

Osservare Ursula von der Leyen e Emmanuel Macron oggi è come guardare due generali che spostano bandierine su una mappa di Risiko mentre la loro casa sta bruciando.

Vivono su Marte. O forse in una bolla di irrealtà così spessa che nemmeno il boato delle bombe sulle infrastrutture energetiche ucraine riesce a penetrarla.

La Presidente della Commissione, con la faccia di chi non ha mai dovuto fare i conti con la bolletta del gas di un operaio di Brescia, continua a ripetere che la pressione e le sanzioni sono l’unico linguaggio che Mosca capisce.

Magnifico. Peccato che le sanzioni abbiano isolato l’Europa, non la Russia. E gli operai italiani se ne sono accorti da tempo. Lei no.

Abbiamo spinto Mosca tra le braccia di Pechino, abbiamo devastato la nostra competitività industriale e ora ci troviamo a elemosinare gas liquefatto agli americani a prezzi da gioielleria.

Ma Ursula insiste: non bisogna legittimare i confini cambiati con la forza.

Un concetto nobile, se non fosse che la storia militare non si scrive con i sentimenti, ma con l’acciaio e il sangue degli sconfitti. E l’Ucraina sta finendo entrambi.

E poi c’è Macron, il Napoleone dei nostri giorni, che parla di inviare truppe di “rassicurazione”, mentre gli alti vertici del suo esercito dicono ai francesi di prepararsi a perdere i loro figli.

Rassicurazione per chi? Per i cittadini francesi che vedono il loro potere d’acquisto eroso? O per un establishment terrorizzato dall’idea che la guerra finisca e si debba presentare il conto all’elettorato dei loro disastri?

Questi leader si comportano come se avessero vinto. Dettano condizioni al vincitore. È un livello di idiozia che i greci antichi avrebbero punito con un fulmine di Zeus, ma che noi ci limitiamo a subire con rassegnata apatia.

LO SCANDALO CHE NON C’È: SE IL NEGOZIATORE PARLA CON IL NEMICO

In questo circo, l’ultima performance dei nostri media “liberi e indipendenti” è stata l’indignazione per i contatti tra Steve Witkoff, l’inviato speciale di Trump, e il Cremlino. Repubblica e Bloomberg urlano allo scandalo: “Si sono parlati! Hanno concordato i punti!”.

Fatemi capire: siamo arrivati al punto in cui la diplomazia è considerata tradimento?!

Un mediatore, per definizione, deve parlare con entrambe le parti. Se Witkoff non parlasse con i russi, con chi dovrebbe negoziare la pace? Con lo specchio?!

La verità, quella che fa male ai “pigiamati mimetici” da tastiera, è che Trump, piaccia o non piaccia al salotto buono del progressismo europeo, ha capito il gioco. Sa che l’Ucraina ha perso. Sa che non riavrà la Crimea, né il Donbass, e probabilmente nemmeno la fascia costiera sud-orientale.

Il piano di pace di cui tutti si scandalizzano perché “sembra scritto dai russi” è semplicemente una fotografia della realtà. Se perdi una guerra, fai concessioni territoriali.

Se perdi una guerra, accetti la neutralità. Non è “filo-putinismo”, è realismo politico. È cultura della Storia, quella che né von der Leyen né Macron, tanto meno i nostri illustri giornalisti da pale e microchip, dimostrano di avere. È l’ABC delle relazioni internazionali che chiunque abbia studiato qualcosa oltre ai tweet di Zelensky dovrebbe conoscere.

Ma l’Europa sta cercando disperatamente di sabotare questo processo. I suoi leader vogliono vincolare il futuro, inviare armi a lungo raggio, rubare gli asset russi congelati (un suicidio finanziario per l’Eurozona, ma chi se ne importa?), tutto pur di impedire che la guerra finisca con una sconfitta formale sotto la loro sorveglianza.

IL PREZZO DELLE MENZOGNE: POVERI MA “GIUSTI”

Mentre a Bruxelles giocano alla guerra totale con i soldi degli altri, diamo un’occhiata a cosa succede nel mondo reale, quello dove la gente deve fare la spesa e cambiare le gomme all’auto.

I dati sono impietosi, una sentenza inappellabile contro la nostra classe dirigente.

Negli ultimi vent’anni, mentre in quasi tutta Europa i salari reali crescevano (in Romania del 140%, in Polonia dell’80%), l’Italia è l’unico Paese, insieme alla Grecia, ad avere il segno meno.

Meno quattro per cento. Abbiamo perso potere d’acquisto mentre il costo della vita esplodeva, trainato da quelle sanzioni “intelligenti” che dovevano mettere in ginocchio Putin e invece hanno messo in ginocchio la partita IVA di Mantova.

Ci chiedono 6.800 miliardi per il riarmo entro il 2035. Ci chiedono di sacrificare il nostro benessere sull’altare di una guerra persa, per difendere i confini di un paese che non è nella NATO e non è nella UE, governato da un’élite che si è arricchita mentre mandava al macello una generazione.

La verità è che non stiamo difendendo la democrazia. Stiamo difendendo l’orgoglio ferito di una classe politica europea mediocre, incapace di ammettere l’errore, terrorizzata dall’asse Trmp-Putin e disposta a combattere fino all’ultimo ucraino e fino all’ultimo euro dei nostri risparmi, pur di non dover dire: “Abbiamo sbagliato”.

Il nemico avanza nel Donbass. I droni russi colpiscono quando e dove vogliono. E noi ci indigniamo perché qualcuno ha osato alzare il telefono per cercare di fermare il massacro.

Se non fosse tragico, sarebbe la sceneggiatura perfetta per una commedia di basso livello. Ma purtroppo, i biglietti per questo spettacolo li stiamo pagando noi, e costano carissimo.

IL GRANDE ESODO DALLE URNE. A STRAVINCERE È IL NON VOTO E A PERDERE SONO SINISTRA, CENTRO E DESTRA

Non serve un microscopio per analizzare il cadavere della partecipazione democratica in Italia; basta guardare i numeri delle amministrative.

Nelle regioni chiamate al voto, Campania, Veneto e Puglia, il vero trionfatore non ha volto, non ha simbolo e non ha comizi. Non è di centro, di sinistra o di destra. È il Partito dell’Astensione.

Un gigante silenzioso che ha divorato la legittimità delle istituzioni, che rappresentano solo una minima parte degli italiani.

In Campania, si è presentato ai seggi un misero 44,06% degli aventi diritto. Un crollo vertiginoso dell’11,5% rispetto al 2020. Il Veneto, un tempo roccaforte della partecipazione civica, ha risposto con un’alzata di spalle ancora più netta: 44,64%, lasciando sul terreno oltre 16 punti percentuali. La Puglia segue a ruota, fermandosi al 41,83%.

Il Partito dell’Astensione ottiene tra il 56 e il 59% dei voti. Un plebiscito che indica come i vincitori di questa tornata elettorale rappresentino soltanto un italiano su quattro, spesso addirittura meno.

Il 60% di Fico, ma sul 44% di campani aventi diritto, indica che il nuovo governatore è stato votato da un campano su quattro. Il suo risultato reale è il 26,4% degli aventi diritto.

Stesso discorso vale per gli altri “vincitori” di queste elezioni.

Non è solo un’anomalia statistica, ma un cancro che ha già metastatizzato in Valle d’Aosta, Marche, Calabria e Toscana, dove le percentuali di affluenza sono scivolate inesorabilmente verso il basso, con picchi negativi che sfiorano i 15 punti percentuali di emorragia. L’astensione non è più soltanto un segnale d’allarme, ma la normalità.

DAL VOTO DI OPINIONE AL VOTO DI RELAZIONE: LA FINE DELL’IDEOLOGIA

Le elezioni politiche o europee sono il regno dell’astrazione: si vota un simbolo, una visione, talvolta un risentimento. Il più delle volte, si vota qualcuno per non votare l’altro. Si vota per tifo familiare.

È un voto “di pancia” più che “di testa”.

Alle amministrative non si vota l’ideologia, o, almeno, non si dovrebbe. Si dovrebbe scegliere la “persona”, il volto noto, l’amico dell’amico, il cugino, il professionista che ti ha stretto la mano al bar.

In teoria, questo dovrebbe essere il sale della democrazia rappresentativa: il legame diretto, il controllo immediato, la possibilità per il cittadino di guardare negli occhi l’eletto e chiedergli conto del suo operato.

Dovrebbe.

Ma la realtà è che questo meccanismo si è inceppato da tempo.

Il consigliere locale, un tempo cinghia di trasmissione tra i bisogni del territorio e l’amministrazione, è diventato un simulacro.

Privo di una vera visione del mondo, o pronto a tradirla per un salto della quaglia verso partiti opposti pochi giorni dopo l’elezione, il politico locale non trasforma più il territorio, ma si limita a occuparlo per il partito di appartenenza.

LA CRISI DEL CLIENTELISMO: QUANDO MANCANO LE BRICIOLE

Per decenni, il sistema ha retto su un patto tacito, spesso inconfessabile: il voto di scambio.

Non scandalizziamoci, siamo uomini di mondo. Il sistema clientelare, nella sua perversione, aveva una sua efficienza funzionale, perché il voto garantiva una “pagnotta”. Un posto di lavoro, una licenza, un piccolo appalto.

Oggi, questo meccanismo si è rotto per un motivo puramente economico: la cassa è vuota. Non ci sono più soldi. Non c’è più grasso che cola.

Le amministrazioni locali sono state svuotate di potere reale. Le decisioni strategiche non si prendono nei consigli comunali, ma in Europa, nelle commissioni tecniche, nei board finanziari sovranazionali.

Il politico locale non è più il fornaio che distribuisce il pane, ma è diventato un cameriere che non ha nemmeno accesso alla cucina.

Il voto non si scambia più con un favore reale, ma con la *speranza* di un favore futuro che, con ogni probabilità, non arriverà mai.

Il grande appalto del PNRR o la riqualificazione urbanistica diventano miraggi per tenere l’elettore incatenato in uno stato di perenne attesa, una forma di schiavitù psicologica: l’uomo che dipende dalla promessa di un altro uomo non sarà mai davvero libero.

E l’elettore, stanco di essere preso in giro, ha smesso di credere alla favola. Ha smesso di esprimere un voto per qualcuno o per un partito che sa già che, alla fine, disattenderà le promesse e governerà come chi c’era prima o come avrebbe fatto il suo avversario, perché a decidere l’agenda politica è l’Europa e i politici italiani, dal sindaco del piccolo borgo al Presidente del Consiglio, sono passacarte e meri esecutori.

La gran parte degli italiani l’ha capito e vota in massa: vota per non votare.

Certamente, ci sarà qualche assenteista fisiologico. Nessuna nazione al mondo vanta il 100% di affluenza, ma la gran parte di chi non vota lo fa consapevolmente, per protesta.

IL TEATRO DELLE OMBRE: LA DEMOCRAZIA COME RITUALE SVUOTATO

Ciò a cui assistiamo è la trasformazione della democrazia in uno show costoso dove la sceneggiatura è già scritta. Cambiano i personaggi, ma le storie si ripetono. Come in una soap opera.

Non sono i cittadini a decidere. Il vero potere è in mano agli stakeholder, alle lobby, ai gruppi di interesse che muovono i fili dietro le quinte delle stanze del potere a Bruxelles.

 Le elezioni sono diventate concorsi pubblici truccati, formalmente ineccepibili, sostanzialmente inutili.

E a vedere come Meloni governa, contrariamente alla sua campagna elettorale, tutto è dimostrato. Il PD deluse i propri elettori, poi il Movimento Cinque Stelle.

Non perché i politici italiani siano tutti incompetenti, ma perché non possono fare nulla di quanto promesso in campagna elettorale semplicemente perché non possono decidere nulla. Persino se inviare o non inviare armi in Ucraina è deciso dai ricatti dell’Europa.

E davvero credete che se un governo paventasse una lotta contro la Commissione europea, come cantava una delle promesse in campagna elettorale della Lega, per esempio, il Presidente della Repubblica non interverrebbe?

Nessun governo nazionale è libero di governare. Può soltanto amministrare e mettere in atto le decisioni di Bruxelles. Figuriamoci il governo di una Regione.

L’apparato democratico si regge ormai solo su inerzia, machiavellismo da quattro soldi e una narrazione mediatica sempre più scollegata dalla realtà.

Le maggioranze che escono dalle urne sono “bulgare” solo sulla carta, perché le percentuali sono tra chi ha votato. In realtà rappresentano una minoranza esigua della popolazione reale. Perciò, anche chi comanda non conta niente. Ha un potere vuoto. Finto.

Siamo governati da rappresentanti scelti da nessuno, che rispondono a logiche che nulla hanno a che fare con il bene comune.

Sono una finzione tenuta insieme con le graffette del buonsenso, ma che potrebbe essere spazzata via se solo il Partito dell’Astensione trovasse un leader capace di convogliare quella netta maggioranza del Paese.

VERSO UNA NUOVA CONTRATTUALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI

Chi non va a votare non è un ignavo. Spesso è un attore razionale che ha compreso il gioco e ha deciso di non sedersi al tavolo, perché sa che le carte sono segnate. Sono truccate.

Si sa già chi deve vincere. Una volta destra, altre volte sinistra, ma l’agenda sarà quella. E se arriva un Savona a rompere il gioco, ci pensa il Presidente della Repubblica a ricordare che il voto sovrano degli italiani non è più sovrano se all’Europa non piace.

Chi resta a casa lo fa perché ha capito che non ci sono più “pagnotte” da spartire e che le relazioni personali, svuotate di potere economico e politico, non valgono il tempo di una domenica ai seggi.

Lungi dal fare moralismi da salotto, dobbiamo prendere atto di questo fenomeno con freddezza.

L’astensione di massa non è una malattia da curare con appelli accorati alla “responsabilità civica”, ma un sintomo terminale. Forse è arrivato il momento di smettere di recitare in questo teatrino.

Se la democrazia rappresentativa non riesce più a intercettare né gli ideali né gli interessi concreti, visto che non può farlo perché nessun politico è più libero di governare davvero, ha senso continuare a fingere di essere in una democrazia dove il popolo decide?

Potrebbe essere più onesto, e persino più efficace, togliere la maschera ipocrita del suffragio universale e immaginare nuove forme di gestione della res publica.

Magari attraverso una contrattualizzazione diretta degli interessi, assemblee specifiche, o sistemi che riconoscano la realtà delle forze in campo senza nascondersi dietro il velo pietoso di un’urna sempre più vuota.

Fino ad allora, il silenzio degli elettori continuerà a urlare più forte di qualsiasi comizio. E questo urlo, piaccia o no, è la cosa più vera che resta in questo Paese.

Nella speranza, o nella paura, che il Partito dell’Astensione non si renda conto della propria forza rivoluzionaria, l’unica che potrebbe ribaltare i tavoli del gioco e far scappare chi comanda davvero in Italia.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’ECLISSI DELL’EUROPA, TRA VASSALLAGGIO AMERICANO E IL SUICIDIO GEOPOLITICO IN UCRAINA

C’è un’ipocrisia di fondo, quasi commovente, che serpeggia tra le cancellerie del Vecchio Continente.

Un parlamentare tedesco, di recente, ha definito “insolito” il modo in cui gli Stati Uniti ci stanno trattando.

Insolito?

Permettetemi di correggere il tiro: non è insolito. È semplicemente esplicito.

Donald Trump non ha cambiato la sostanza del rapporto transatlantico, semmai ha solo strappato via il velo di cortesia diplomatica che lo copriva.

Per settant’anni, Washington ci ha trattato come vassalli. La differenza è che le amministrazioni precedenti ci accarezzavano la testa in pubblico, come si fa con i cagnolini, lodando la nostra “partnership” mentre nel retrobottega ci imponevano le loro direttive.

Trump, imprenditore prestato alla politica, ci sbatte in faccia la realtà: siamo servi. E, tragicamente, ci meritiamo questo trattamento. Perché abbiamo accettato la servitù volontaria in cambio di una protezione che ora ci viene presentata con il conto da pagare.

LA NATO COME SUCCURSALE E IL FALLIMENTO DELLA STRATEGIA BELLICA

Guardiamo i fatti.

La NATO non è un’alleanza tra pari, ma un meccanismo di controllo geopolitico e, soprattutto, un gigantesco hub commerciale per il complesso militare-industriale statunitense.

Noi compriamo, loro vendono. Noi paghiamo, loro decidono. Punto.

Nel piano di pace abbozzato dall’entourage di Trump, l’Alleanza Atlantica viene trattata come un corpo estraneo, un’entità a cui gli USA “vendono” sicurezza, non come un partner con cui la costruiscono.

E non c’è da scandalizzarsi, ma solo da capire la realtà dei fatti.

E mentre noi europei ci stracciamo le vesti per le maniere forti di Trump, fingiamo di non vedere la sporcizia di casa nostra: la strategia bellica occidentale in Ucraina è un fallimento totale.

Siamo al quarto anno di guerra. Abbiamo inviato miliardi, tank, missili, intelligence. Abbiamo imposto sanzioni che dovevano mettere in ginocchio la Russia già nel 2022 e che invece hanno devastato la nostra economia, portando la crescita europea allo “zero virgola” e regalandoci una crisi energetica strutturale.

E il risultato sul campo?

L’Ucraina arretra e la Russia vince.

I confini si muovono con la forza, smentendo anche la retorica di Ursula von der Leyen secondo cui “nel 2025 i confini non si toccano”. Si toccano eccome, se hai i carri armati e l’avversario ha finito gli uomini.

E, malgrado la propaganda occidentale abbia raccontato che a perdere 1000 uomini al giorno erano i russi – cioè oltre 1,2 milioni dal 2022 – a non avere più uomini è l’Ucraina. Tant’è che dalla Francia si comincia a dire alla gente che dobbiamo abituarci all’idea di perdere anche i nostri figli in questa guerra.

Vi suggerisce qualcosa o vi serve un disegnino?!

IL TEATRINO DELL’ASSURDO: LA CONTROPROPOSTA EUROPEA

Di fronte a questo disastro, la risposta dell’Europa è puro delirio da centro psichiatrico.

Bruxelles tenta di avanzare una “controproposta” al piano Trump che ha del surreale. Si parla di imporre all’Ucraina un limite di 800.000 soldati attivi. Un limite?

Ma ci rendiamo conto che l’esercito francese, il più potente dell’UE, conta a malapena 200.000 effettivi?

Parlare di “limitare” Kiev a una cifra che è quattro volte superiore alle nostre capacità è la prova che i leader europei vivono in una realtà parallela.

L’Europa, in questo negoziato, è quel convitato di pietra che parla a voce alta mentre gli altri commensali, USA e Russia, continuano a mangiare ignorandolo.

Mosca ha già respinto al mittente le nostre proposte, definendole “non costruttive”.

E perché dovrebbe ascoltarci? Non abbiamo un esercito federale, non abbiamo più soldi da spendere (dopo esserci dissanguati per obbedire a Washington) e non abbiamo la volontà politica di inviare truppe a morire nel Donbass, a parte Macron, che accarezza l’idea di una guerra per sospendere le elezioni.

IL CANCRO DELLA CORRUZIONE A KIEV: L’AFFARE YERMAK

Ma c’è un livello ancora più inquietante in questa tragedia, che i media mainstream faticano a raccontare perché darebbero ulteriormente ragione a noi di Tamago e a chi ha raccontato la verità dal 2022 e non le panzane su democrazia, microchip e pale ottocentesche.

Mentre i soldati ucraini muoiono al fronte, a Kiev si consuma una guerra interna tra le istituzioni. Fonti dirette e rapporti investigativi puntano il dito contro Andrij Yermak, il potentissimo capo dell’ufficio presidenziale.

Una sorta di braccio destro di Zelensky.

La situazione è grottesca: gli organi anti-corruzione ucraini (NABU e SAPO), creati e addestrati con i soldi dei contribuenti occidentali per ripulire il Paese, sono ora sotto attacco.

Yermak, identificato in alcune indagini con pseudonimi pittoreschi come “Alibaba”, starebbe utilizzando i servizi di sicurezza per perseguitare i detective che osano indagare sul cerchio magico del potere.

Questo è il quadro: l’Occidente finanzia la resistenza di un Paese dove l’apparato statale combatte chi cerca di fermare i ladri perché gran parte dei ladri si trovano al potere.

È una contraddizione insostenibile, che erode ogni residua legittimità morale del nostro intervento in Ucraina. Come sosteniamo dal 2022, da quando tanti altri ci davano dei putiniani.

IL TRISTE DILEMMA DI ZELENSKY

Zelensky si trova stretto in una morsa mortale, perché, da una parte c’è Donald Trump, con un piano di pace brutale, transazionale, che probabilmente costringerà l’Ucraina a ingoiare rospi territoriali e una neutralità parziale; dall’altra ci sono gli “amici europei”.

Amici inaffidabili, impotenti, che promettono sostegno “finché serve,” ma che contano come il nulla elevato alla potenza dello zero poiché hanno i magazzini vuoti e le economie in stagnazione.

L’Europa si è auto-esclusa dalla storia per colpa di leader incompetenti e folli.

Abbiamo obbedito ciecamente, tagliando i ponti con l’energia a basso costo russa per comprare gas liquefatto americano a prezzi maggiorati, distruggendo la nostra competitività e salvando l’America da un disastro economico che incombeva e che, invece, Biden prima e Trump poi hanno trasferito sulle nostre imprese e sul nostro futuro.

Abbiamo perso la nostra credibilità diplomatica trasformandoci in semplici esecutori di ordini altrui.

La verità, tagliente come una lama, è che l’unica via d’uscita per l’Ucraina oggi passa per un accordo sporco tra Washington e Mosca.

L’alternativa europea, cioè continuare una guerra senza mezzi, basandosi su principi astratti mentre la realtà sul campo crolla, non è una strategia, ma un suicidio assistito.

E nessuno, a parte i nostri leader da clinica psichiatrica, sembra più disposto a finanziarlo.

IL 25 NOVEMBRE E LA RIVOLUZIONE ROSSA DI ELINA CHAUVET

Oggi è il 25 novembre. Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Come ogni anno, i governi snocciolano statistiche che sanno di fallimento e le aziende si tingono di rosso per un marketing della coscienza spesso effimero.

Ma ci sono le scarpe. Sono scarpe rosse. Centinaia. E sono vuote.

È “Zapatos Rojos”, l’opera d’arte pubblica più politicamente devastante del nostro secolo.

DALLA POLVERE DI JUÁREZ ALLA COSCIENZA GLOBALE

Per comprendere la potenza comunicazionale di questa installazione, non devo indossare le vesti del critico d’arte, ma quelle dell’analista di geopolitica.

Perché di questo si tratta. Si tratta di una guerra asimmetrica, silenziosa, combattuta sui corpi delle donne.

Elina Chauvet, artista e architetto messicana, non ha creato quest’opera in un atelier asettico per una mostra importante, ma l’ha concepita nel 2009 a Ciudad Juárez, una città di frontiera che per decenni è stata un macabro laboratorio del femminicidio.

Un luogo dove il deserto inghiotte i corpi e le istituzioni fagocitano le denunce, che, il più delle volte, non portano a niente.

Tutto nasce da un dolore privato che diventa politico.

La morte della sorella dell’artista, uccisa dal marito a soli 32 anni, è stata la scintilla.

Ma Chauvet, con una grande forza d’animo e con una visione sociologica fuori dal comune, ha capito che il lutto individuale, se isolato, è sterile. Non porta a niente, se non a metabolizzare la perdita. Invece, se collettivizzato, può diventare esplosivo.

Le scarpe rosse non sono solo un’istallazione e nemmeno sono soltanto un monito. Sono un esercito immobile, ma molto più pericoloso di tanti eserciti di soldati in carne e ossa, armati fino ai denti.

IL FALLIMENTO DELLO STATO E IL REGNO DELL’IMPUNITÀ

Il Messico, nazione in cui è nata l’installazione, è un caso studio terrificante sull’economia della violenza, perché il costo penale di un omicidio tende allo zero, con tassi di impunità che superano il 90%, e dove il corpo femminile viene declassato a bene sacrificabile. Spesso addirittura merce sacrificabile.

Lo Stato fallisce nel suo mandato primario di proteggere la vita dei suoi connazionali.

La definizione legale di “femminicidio”, introdotta formalmente in Messico nel 2012, doveva essere uno spartiacque. Doveva garantire pene più severe, indagini specializzate.

Invece ci ritroviamo, ancora oggi nel 2025, a parlare di femminicidio. Ci troviamo ad ascoltare gli stessi comizi, le stesse parole, a dare il contentino, ingannare con false promesse, girare a vuoto.

Le scarpe di Chauvet occupano lo spazio pubblico, come piazze, strade, palazzi del potere, proprio perché alle donne quello spazio è stato negato due volte: prima con la violenza, poi con l’oblio giuridico.

Ogni paio di scarpe rappresenta un fascicolo impolverato, una madre che invecchia cercando giustizia per la figlia, un sistema giudiziario che spesso colpevolizza la vittima.

IL SIMBOLISMO DEL ROSSO

Perché il rosso?

Beh, Chauvet ha compreso che siamo in un mondo che comunica per immagini, perciò ha scelto il colore più primordiale.

Il rosso è l’allarme, è il sangue versato sui marciapiedi. Ma attenzione a non cadere nella trappola del vittimismo passivo. Per l’artista, il rosso è anche l’energia vitale che continua a pulsare. È l’amore delle famiglie che non si arrendono. È la speranza. È vita.

L’installazione funziona perché è un “monumento partecipativo”. Non c’è una statua di marmo, ma ci sono scarpe donate, dipinte, posizionate da altre donne, da cittadini, da passanti.

È un rituale di guarigione collettiva in cui il pubblico diventa artista, realizzando parte dell’installazione.

Le scarpe sono vuote, sì, ma è proprio in quel vuoto che si trova l’assenza insopportabile di chi le indossava.

Camminare in mezzo a “Zapatos Rojos” significa camminare in un cimitero a cielo aperto, ma significa anche marciare a fianco di chi non può più farlo perché un altro essere umano ha deciso di eliminarla.

UN ALGORITMO UMANO CONTRO L’INDIFFERENZA

Oggi, 25 novembre 2025, mentre l’installazione si replica in decine di città nel mondo, dovremmo domandarci se sia cambiato qualcosa. Perché i numeri continuano a essere una condanna.

Ma la percezione è mutata. Elina Chauvet ha creato un linguaggio universale. Ha bypassato le barriere linguistiche e culturali ed è arrivata alla gente comune. Una scarpa rossa è leggibile ovunque.

È un “algoritmo analogico” che hackera la nostra indifferenza e non ha bisogno di sottotitoli o traduzioni.

La sua installazione parla una lingua universale, come un pentagramma.

Perciò, non possiamo più dire di non sapere o di non comprendere.

Quando vediamo quelle scarpe, vediamo una bambina di sette anni ritrovata in un sacchetto di plastica.

Vediamo le studentesse, le lavoratrici, le madri, le sorelle, le mogli, le fidanzate che non ci sono più.

L’ARTE COME ULTIMA TRINCEA

Non guardate Zapatos Rojos come un’opera d’arte uguale a tante altre, ma guardatela come un atto di accusa formale contro un patriarcato che si rifiuta di morire.

Elina Chauvet non chiede ammirazione, ma azione, intervento, interessamento.

Il 25 novembre non serve a nulla se è solo una data sul calendario, se è solo occasione per qualche politico di dire tante belle parole a cui non seguono fatti.

Serve se diventa il giorno in cui il peso di quelle scarpe vuote diventa insostenibile per la nostra coscienza, costringendoci a riempirlo con una giustizia efficace, reale e immediata.

Il silenzio di quelle scarpe urla più forte di qualsiasi slogan politico di oggi.

Sta a noi, ora, decidere se ascoltare le scarpe o continuare a essere complici di chi, al più, dirà le solite belle parole.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’EUROPA STA SACRIFICANDO KIEV SULL’ALTARE DELLA RETORICA

Mentre nei salotti climatizzati di Bruxelles, si parla di “resilienza democratica” e di “pace giusta”, in un triste festival di ipocrisia, nel Donbas, il fango si mescola al sangue dei tanti, troppi ucraini mandati a morire in battaglia.

C’è una dissonanza cognitiva assordante, quasi patologica, tra la narrazione che scorre sui feed di Twitter dei burocrati europei e la realtà, sporca, disperata del fronte.

L’ARCHITETTURA DELL’INGANNO: I PIANI DI PACE E IL LEGALESE DELLA SCONFITTA

In queste ore, sul tavolo della diplomazia internazionale ci sono due documenti.

Il primo è il piano di Trump: 28 punti che sanno di ultimatum. Il secondo è la risposta dell’Europa, una maldestra fotocopia sbiadita del primo, infarcita di quel “legalese” che serve a salvare la faccia dei burocrati europei.

Il piano europeo promette l’adesione alla NATO, ma la vincola al “consenso di tutti i membri”. È un assegno a vuoto. Sappiamo tutti che quel consenso non esiste. Perciò è solo un modo per dire la stessa cosa di Putin, senza ammettere di dirlo.

Ancora più grottesco è il punto sulle truppe dell’Alleanza: non stazioneranno in Ucraina in maniera “permanentemente” in “tempo di pace”. Un giurista alle prime armi smonterebbe queste clausole in un nanosecondo.

Cosa significa “permanente”? Due anni? Dieci? E soprattutto, definire il “tempo di pace” in un’area che sarà instabile per decenni è un esercizio di pura fantasia. Una scusa per lasciare lì le truppe comunque.

Zelensky, stretto tra l’incudine del realismo americano, che minaccia di chiudere i rubinetti dell’intelligence e delle armi, e il martello dell’avanzata russa, sta lentamente scivolando via dalla sua retorica della vittoria totale.

Sta preparando il suo popolo all’amaro calice del compromesso, mentre l’Europa applaude ancora a uno spettacolo che è finito da un pezzo con la sconfitta dell’Ucraina e, soprattutto, della stessa Europa.

IL MITO DELLA CONQUISTA E LA REALTÀ DEL RULLO COMPRESSORE

L’errore macroscopico dell’Occidente è stato confondere il Risiko con la dottrina militare russa.

Per mesi, i talk-show ci hanno venduto la favola di una Russia che voleva dipingere la mappa d’Europa del suo colore, ma fallendo miseramente perché la sua economia era stata annientata nel 2022 dalle nostre sanzioni dirompenti e il suo esercito combatteva solo armato di pale ottocentesche. E tante altre sciocchezze da propaganda pura.

La verità è infinitamente più cinica. Mosca non cerca la conquista territoriale rapida in un ambiente ostile; applica la dottrina storica del “rullo compressore”.

È una guerra di attrito, non di movimento.

L’obiettivo del Cremlino non è occupare Kiev domani, ma macinare l’esercito ucraino oggi, domani e dopodomani, fino a quando non rimarrà nulla da opporre.

E lo fanno trincerati in un sistema difensivo che, per densità e complessità ingegneristica, fa impallidire la Linea Maginot, costruito meticolosamente in dieci anni di guerra, dal 2014, mentre noi guardavamo altrove per non intervenire contro l’Ucraina.

Pensare di sfondare queste linee con qualche carro armato occidentale è delirante.

L’IMPLOSIONE DI UNA NAZIONE: SOCIOLOGIA DEL CROLLO

Ma la tragedia vera, quella che i nostri media “mainstream” si rifiutano di indagare, è interna.

L’Ucraina sta morendo da dentro. Non è solo una questione di linee del fronte che si spostano, ma una questione demografica ed esistenziale. I giovani e meno giovani fuggono. Chi resta, diserta. La fiducia nel contratto sociale si è spezzata.

Mentre Zelensky invoca la democrazia sui palchi internazionali, a Kiev esplodono scandali di corruzione che farebbero impallidire una repubblica delle banane: forniture militari gonfiate, miliardi di aiuti volatilizzati, cerchie ristrette che si arricchiscono mentre la generazione Z ucraina viene mandata a morire perché qualcuno possa acciuffare qualche soldo e regalarsi cessi d’oro.

Un popolo può resistere alle bombe, ma non può resistere alla sensazione di essere usato come pedina sacrificabile dalla propria leadership e dai propri presunti alleati.

La coesione sociale è il vero carburante della resistenza, e quel serbatoio è ormai vuoto.

IL SUICIDIO GEOPOLITICO DELL’EUROPA

Intanto, l’Europa è il passeggero che riordina le sdraio sul ponte del Titanic, lamentandosi per il disordine.

Abbiamo reciso i legami energetici con la Russia, suicidando la nostra competitività industriale, per legarci mani e piedi alle forniture americane pagate a prezzo d’oro.

Ma il re è nudo. Se domani il conflitto dovesse allargarsi, le nostre scorte militari, svuotate per sostenere una guerra per procura ormai persa, durerebbero forse una settimana.

Non abbiamo un’industria bellica, non abbiamo una visione comune, non abbiamo la capacità di proiettare forza.

Siamo un ex gigante economico (in declino) e un nano politico e militare. Totalmente inutili a livello geopolitico.

Negli Stati Uniti, scottati dai deserti dell’Iraq e dalle montagne dell’Afghanistan, l’elettore medio non ha alcuna intenzione di morire per il Donbas, facendo la stessa misera fine.

E noi europei, intrappolati nella nostra “dimensione onirica” fatta di “sanzioni dirompenti” e sciocchezze veicolate dall’informazione mainstream, infarcita di valori astratti e zero pragmatismo, stiamo spingendo un popolo allo sfinimento totale pur di non ammettere il nostro fallimento.

L’IMPERATIVO DEL REALISMO

Possiamo continuare a negare la realtà ed essere complici di una carneficina inutile. La “pace giusta” è un concetto teologico, non politico. Antistorico e anche un po’ idiota, perché è irrealizzabile e, nella sua attesa, la gente continua a morire inutilmente.

In geopolitica esiste solo la pace possibile. E oggi, la pace possibile è brutta, sporca, ingiusta. È un accordo capestro. Ma è la classica pace di ogni conflitto della storia.

Significa congelare il conflitto sulle linee attuali. Significa accettare che diversi territori sono persi, forse per sempre. Significa ingoiare il rospo della neutralità o di una sovranità limitata.

Ma significa salvare vite. E l’alternativa non è la vittoria, ma il collasso totale dello stato ucraino e la devastazione definitiva di una generazione.

L’intelligenza, quella vera, sta nel capire quando la storia ha preso una direzione che non si può più invertire con la sola forza di volontà. L’Europa deve smettere di drogarsi delle sciocchezze della propaganda e guardare in faccia la Realpolitik.

Meglio un accordo imperfetto che salva ciò che resta dell’Ucraina e degli ucraini di oggi, piuttosto che un funerale di stato celebrato domani sulle macerie di una nazione che abbiamo illuso di poter salvare con la sola forza della nostra retorica.

Non comprenderlo non significherebbe essere soltanto complici di ulteriori morti. Ma i veri colpevoli.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’ECO DEL SILENZIO. ANATOMIA DI UN SUCCESSO SUSSURRATO

Maralba Focone a Cremona, dove l’arte è diventata specchio di una società afona.

Cremona non è una città abituata al silenzio, ma al vociare e al chiacchiericcio tra le sue strade medievali.

È una città di liutai, di vibrazioni, di archi che accarezzano le corde di un’anima di legno per farla cantare.

È la culla di un suono perfetto, cercato per secoli.

Eppure, per settimane, la città ha ospitato un’arte che del silenzio ha fatto la sua cattedrale, un’arte abitata da figure esili, introverse, piegate da un dolore composto, quasi liturgico. Le opere di Maralba Focone.

La mostra, inizialmente prevista fino a fine ottobre, è stata prorogata fino a metà novembre. Una decisione dettata da un’inattesa risposta di pubblico, dalla gente che ha continuato ad arrivare per visitare la mostra.

Le tele di Focone, con la loro emanazione quasi monocromatica e la loro materia pittorica densa, quasi un bassorilievo dell’angoscia, non hanno semplicemente decorato le pareti di Gabetti Arte, ma hanno veicolato sentimenti ed emozioni con prepotenza.

In un’epoca definita dalla performance obbligatoria, dalla comunicazione incessante e dalla felicità come imperativo categorico, l’opera di Focone ha offerto la legittimazione radicale del diritto alla fragilità, all’angoscia, alla tribolazione.

Il diritto al silenzio per riflettere.

Le sue figure allungate, che evocano la sintesi formale di un Modigliani, filtrata attraverso la cruda empatia di una Kathe Kollwitz, non sono ritratti di individui, ma archetipi della nostra condizione post-pandemica, della precarietà economica che si fa esistenziale, dell’isolamento che persiste nonostante l’iperconnessione che ci rende impossibile nasconderci agli altri.

L’artista non dipinge persone, ma mette in scena la distanza che c’è tra loro.

Ma l’analisi non può e non deve fermarsi qui. Un fenomeno di questa portata non si spiega solo con l’esegesi critica.

Si comprende ascoltando.

E durante le settimane di apertura, gli operatori della mostra hanno raccolto una serie di pensieri lasciati dai visitatori. Non critiche d’arte di esperti, ma le confessioni reali di persone comuni che hanno fruito della mostra.

Frammenti di un dialogo muto tra l’osservatore e la tela.

Questi commenti, provenienti da persone di ogni estrazione sociale e professionale, costituiscono il dato più rilevante di questa operazione culturale. Sono la prova empirica che l’arte, quando è onesta, cessa di essere un oggetto e diventa un’esperienza, un luogo di incontro. Un confessionale, persino.

Per comprendere l’impatto di Maralba Focone, dobbiamo cedere la parola a chi ha guardato e si è sentito guardato.

IL CORO MUTO: VOCI DALLA MOSTRA

Le prime voci a emergere sono quelle allenate a decifrare i codici umani, a leggere tra le righe del non detto.

Lucia, insegnante: «In questi volti e in queste posture c’è tutta la fragilità dell’adolescenza. Mi ricordano alcuni miei studenti, quelli più silenziosi, che portano dentro un mondo intero che non riescono a esprimere. C’è un grande rispetto per la vulnerabilità umana.»

Sabrina: «Un’incredibile esplorazione dell’inconscio. Le figure allungate sono la rappresentazione perfetta di come il dolore psichico si somatizzi. Le mani, sempre in primo piano, sono il centro dell’azione o della non-azione. È un’arte che non ha paura di guardare dentro l’abisso interiore.»

Ferdinando: «Mamma mia! Qui c’è del colore, e tanto. Mi piace come lo lavora, si vede che non ha paura di usare la spatola, di lasciare il segno. In certi punti è quasi un bassorilievo. Ha un gran mestiere, non c’è che dire.»

Simona, pittrice: «C’è un coraggio notevole nel lavoro di Focone. La sintesi formale è estrema, ma non perde mai il contatto con l’umano. Si sente l’eco di Modigliani, ma la sintesi è del tutto personale. Il gesto pittorico è viscerale, onesto. Si sta mettendo a nudo sulla tela.»

Luca: «Trovo affascinante la struttura di queste opere. C’è una geometria del dolore. Le linee dei corpi creano delle tensioni che guidano l’occhio. Nei paesaggi, poi, la tecnica è quasi scultorea, un approccio quasi architettonico al sentimento.»

Paola, musicista: «Ogni quadro è una melodia. I lavori monocromatici sono come un “adagio” da suonare con il violino. Il ritmo delle pennellate, a volte spezzato, a volte lungo e fluido, è una vera e propria partitura visiva. C’è un silenzio assordante.»

Angelica, fotografa: «La luce in questi quadri è tutta interiore. La composizione è superba, le figure spesso riempiono l’inquadratura, creando un senso di claustrofobia emotiva. È come se l’artista avesse usato un fuoco sull’emozione.»

Anna: «Vedo persone che portano un peso. Le schiene curve, le teste chine… sono posture che conosco bene. Sono i gesti di chi ha subito un trauma, di chi si sente sconfitto. Non c’è rabbia, però. C’è una rassegnazione dignitosa.»

Alberto, agente immobiliare: «Interessante… soprattutto i quadri con gli edifici. Quel borgo con i tetti rosa ha un potenziale enorme, mi trasmette un’idea di “luogo dell’anima”. Creano un’atmosfera, per chi non cerca solo “il bello” ma qualcosa che faccia pensare.»

Carlo, ristoratore della zona: «Questa è una cucina dell’essenziale. Pochi ingredienti, ma di una qualità assoluta. L’ingrediente principale è l’emozione cruda. C’è un sapore agrodolce in quasi tutte le opere, una malinconia che ti resta sul palato. Non è un’arte facile o consolatoria, ma ti nutre in profondità.»

L’ARTE COME NECESSITÀ SOCIALE

Cosa ci dice questo coro di voci? Ci dice che ogni visitatore ha proiettato sulle tele la propria sensibilità, il proprio vissuto, trovando non una risposta, ma qualcosa di molto più prezioso: una domanda condivisa.

Il successo di questa esposizione non è un mero evento artistico. È un sintomo. Un segnale potentissimo che la società, al di là del rumore di fondo, ha un disperato bisogno di spazi di decompressione emotiva, di luoghi dove la tristezza non sia un bug da correggere ma una parte legittima dell’esperienza umana.

L’arte di Focone è diventata un servizio pubblico non dichiarato.

L’esigenza di prorogare la mostra ha dimostrato l’esistenza di un bisogno tra le persone, un bisogno di comprendere la fragilità che oggi è vista come una devianza.

Cremona, la città del suono, ha dato voce al silenzio grazie all’arte di Maralba Focone e il pubblico, inaspettatamente, si è fermato ad ascoltare. Forse perché, in un mondo che urla, la cosa più rivoluzionaria è imparare di nuovo a sussurrare?

RT

LA FORZA DELLA TENEREZZA. DANIELA BUSSOLINO E LA NOSTRA SOPRAVVIVENZA EMOTIVA

Viviamo una carestia in questa nostra era frenetica.

Una carestia che non è segnata dagli indici di borsa né monitorata dalle banche centrali, eppure è la più pervasiva del nostro tempo: una carestia di intimità autentica, di relazioni, di emozioni, di empatia.

Siamo connessi H24, ci è impossibile diventare irraggiungibili, eppure abbiamo paradossalmente ingegnerizzato la solitudine di massa.

Le nostre interazioni sono diventate transazioni, i legami sono fluidi fino all’evaporazione e il nucleo familiare, un tempo santuario sociologico, è un arcipelago di isole monadiche che condividono lo stesso tetto e la stessa connessione Wi-Fi, tant’è che è diventata consuetudine persino lasciarsi tramite un messaggio sullo smartphone.

È un fallimento di sistema. Un deficit del capitale empatico che genera instabilità sociale con la stessa certezza con cui un deficit di bilancio genera declassamento del rating sovrano.

Lo so, sembra un paragone brutale, eppure è così. Anzi, è addirittura peggio. Perché non si perdono soldi, ma pezzi di cuore e di anima.

Tuttavia, come un raggio di sole dopo la tempesta, a volte arriva un segnale. Un dato anomalo, un debole impulso controcorrente che suggerisce una via d’uscita. Uno spiraglio per nutrire una speranza.

Questo segnale, oggi, ha la forma di un libro senza pretese, scritto in punta di piedi, intitolato “Una storia d’amore a quattro zampette”.

L’autrice, Daniela Bussolino, non è un’economista né una sociologa di cattedra. Non è una letterata e nemmeno una psicologa, ma è qualcosa di più necessario: una donna con un vissuto profondo, autentico, a tratti intenso, che ne fanno una custode dell’anima, un’artista che, con la doppia sensibilità di pittrice e narratrice, percepisce e registra i nostri bisogni di affetti più profondi.

E ce li restituisce in una forma disarmante: la storia di un animaletto indifeso, una coniglietta.

Non commettete l’errore di archiviarlo come letteratura per l’infanzia. Sarebbe un errore analitico grossolano.

Il lavoro della Bussolino è, a tutti gli effetti, un trattato di ricostruzione sociale condensato in un micro-cosmo affettivo.

La protagonista, Cristal, non è semplicemente un animale da compagnia, ma è il “paradigma dell’Altro”: il diverso, il reietto, il silenzioso.

L’essere che, privo di parola, ci costringe a dismettere l’arroganza del nostro linguaggio verbale per apprendere di nuovo la grammatica primaria degli sguardi, della pazienza, della fiducia, del contatto reale. Del calore di un corpo che unisce, da anteporre al gelo della tecnologia che divide.

“A volte, l’anima gemella arriva… Su quattro zampette.” Una frase che non è uno slogan, ma una tesi sociologica.

In un’epoca in cui i patti sociali si sfaldano e i legami familiari tradizionali vengono rinegoziati fino alla loro essenza, Daniela Bussolino suggerisce che il “familiare” non è più un dato anagrafico, ma un atto di scelta radicale.

È la decisione consapevole di creare un legame di cura, per cui la famiglia diventa un ecosistema di responsabilità emotiva e chiunque, umano o meno, può esserne un membro se partecipa a questo patto.

Ecco il punto.

Il libro non parla di animali. Parla di noi.

Parla del nostro disperato tentativo di ricostruire porti sicuri in un mare di incertezza.

La storia di Cristal è il manuale d’istruzioni per un nuovo modello di famiglia post-moderna, non soltanto fondata sul sangue o sul contratto, ma sulla scelta irrevocabile di prendersi cura di un’altra vita.

È un’economia della tenerezza. Un modello di crescita che non si basa sul profitto, ma sul dividendo emotivo generato da un legame autentico e faticosamente costruito, senza badare troppo a che cosa avere in cambio, perché dare e darsi vale molto di più di quanto si possa ricevere.

È un antidoto omeopatico, ma potente, alla nostra carestia di sentimenti, emozioni e valori.

UN DIALOGO TRA ARTE E PAROLE: L’EVENTO DI CREMONA

Non è un caso che un’opera di tale densità trovi la sua cassa di risonanza in un contesto altrettanto significativo.

Il prossimo 7 dicembre, Daniela Bussolino dialogherà con il pubblico negli eleganti spazi di Gabetti Arte a Cremona, in Piazza Stradivari. L’occasione è la mostra-evento dal titolo emblematico: “E SE FOSSE NATALE TUTTO L’ANNO?”.

Un’iniziativa a numero chiuso, curata dalla Prof.ssa Daniela Belloni e dal Dott. Pasquale Di Matteo, che pone una domanda fondamentale alla nostra civiltà del consumo.

La presentazione del libro della Bussolino sarà il giusto corollario per la mostra, in cui 12 artisti proporranno le loro idee di mondo migliore, per mostrarci “come sarebbe se?”

Il libro di Daniela Bussolino sembra essere una risposta del tipo “ecco come si fa”.

In un mondo che ci chiede di essere perfetti, impeccabili, bellissimi, più veloci, più efficienti, più connessi, un libro come “Una Storia d’Amore a Quattro Zampette” ci chiede una cosa sola, ma che è diventata rivoluzionaria: ci chiede di tornare a essere umani.

E questo, oggi, non è solo un atto d’amore, ma è una dimostrazione di intelligenza per la nostra stessa sopravvivenza.

Una Storia d’Amore a Quattro Zampette è ordinabile in tutte le librerie tradizionali ed è disponibile su tutte le piattaforme online, da Mondadori a Feltrinelli.

Cliccando QUI lo troverai su Amazon.

Redazione Tamago.

PERCHÉ L’EUROPA NON VUOLE DAVVERO CHE LA GUERRA FINISCA

A Ginevra sembrerebbe andare in scena una farsa.

Si parla di pace, eppure, un brivido di panico percorre le cancellerie europee. Un terrore freddo, poiché il piano di pace proposto dall’amministrazione Trump, pur con tutte le sue brutali imperfezioni, rappresenta un’uscita di emergenza da un edificio in fiamme, il cui incendio è stato provocato dall’incompetenza di tanti che ora temono di doverne pagare il conto.

Perciò l’Europa, invece di correre verso l’aria, sembra impegnata a sbarrare la porta dall’interno perché qualcuno resti tra le fiamme.

LA SINDROME DI GINEVRA E LA SPERANZA CHE DIVENTA MINACCIA

La reazione europea al vertice svizzero è pura dissonanza cognitiva.

Per due anni, l’intero apparato mediatico e politico occidentale ha costruito una narrazione monolitica, per cui la guerra è necessaria per arrivare alla pace.

Ora che una via d’uscita, per quanto impervia e sgradevole, si materializza, quella stessa architettura narrativa crolla, rivelando un’inquietudine profonda dei nostri leader belligeranti.

Non si tratta solo di contestare i dettagli del piano, come se nella storia ci fosse mai stato un piano di pace incontestabile.

La cessione di territori è una pillola amara, la limitazione delle forze armate è umiliante, ma queste sono le cicatrici che ogni guerra lascia sul corpo dei vinti.

Basta aprire un qualunque libro di storia per scoprire che non è mai esistita nessuna pace giusta, ma solo imposizioni dei vincitori ai vinti. Sempre e comunque. Vi sembra giusta la pace imposta al Giappone nel 1945? E quella alla Germania dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale?

L’agitazione febbrile, le contromisure affannose, le lettere di “perplessità” firmate da leader che fino a ieri non avevano un piano alternativo se non quello di fornire armi fino all’ultimo ucraino, non nascono dalla preoccupazione per Kiev, ma dalla paura di perdere il controllo della narrazione. E, con essa, il potere.

Il dialogo tra Stati Uniti e Russia, con l’Ucraina costretta a un ruolo da comprimaria, taglia fuori l’Europa. La rende irrilevante.

Un tweet in maiuscolo di Donald Trump, che accusa Zelensky di “zero gratitudine”, è sufficiente a gelare i “progressi enormi” decantati dal Segretario di Stato Rubio, perché l’Europa non ha ancora compreso che questo non è un negoziato tra pari, ma una dimostrazione di forza in cui l’Europa è semplicemente lo spettatore che pagherà il conto dello spettacolo, chiunque vinca.

Ed è solo questione di tempo. O con questa pace o con un’altra, più avanti, ma a un prezzo ancora più alto, proprio come quello di oggi è molto più elevato di quello della trattativa del 2022.

LA “PACE GIUSTA”: IL PIÙ NOBILE DEGLI ALIBI

Sentiremo ancora parlare, fino alla nausea, di “pace giusta”.

È l’alibi più nobile, la scusa più spendibile per giustificare l’inazione diplomatica. Una scusa che funziona con chi nelle ore di storie giocava a tris con il compagno di banco, perché la storia non conosce paci giuste, ma solo accordi dettati dai rapporti di forza sul campo.

La pace è sempre stata la firma apposta dal vincitore su un documento che il perdente è costretto a subire per non perdere molto più di quanto ha già perso.

Pretendere il contrario significa vivere in un mondo di fantasia. E, quando a vivere in un mondo di fantasia, è un leader a capo di una nazione europea, la cosa è preoccupante.

Perché tale fantasia ha un costo reale, misurabile in vite umane. Ogni singolo giorno in cui si procrastina un accordo in nome di una ridicola “pace giusta”, si aggiorna una contabilità macabra sui campi di battaglia ucraini.

Si aggiungono nomi a una lista infinita di giovani strappati per le strade e mandati a morire al fronte.

L’unica pace giusta è quella che ferma questo massacro in qualunque modo e a qualunque prezzo. Oggi. Non domani.

Tutto il resto è retorica sporca di sangue, una speculazione filosofica sulla pelle degli ucraini.

L’alternativa a una pace imperfetta non è una pace perfetta, che non è mai esistita e mai esisterà, ma la continuazione della guerra fino alla distruzione totale dell’Ucraina.

IL NEMICO NECESSARIO: L’ECONOMIA DI GUERRA COME NUOVO WELFARE

Perché, dunque, questa ostinazione degli europei?

La risposta segue il flusso del denaro e del potere.

La fine della guerra farebbe crollare il paradigma che l’élite europea ha faticosamente costruito negli ultimi due anni: l’esistenza di un grande e temibile nemico alle porte.

Questa narrazione non serve solo a compattare l’opinione pubblica, ma è il motore di un gigantesco progetto di riconversione industriale e sociale.

Giustifica il riarmo europeo. Permette di deviare miliardi di euro, che un tempo erano destinati a sanità, istruzione, pensioni e welfare, verso le industrie della difesa.

Non ci sono soldi per mettere in sicurezza scuole fatiscenti e ponti pericolanti, né per assumere più poliziotti e più infermieri e medici, ma si mandano miliardi in Ucraina e si spende fino al 5% in armamenti.

La guerra è diventata il nuovo, perverso, modello di sviluppo economico. Un’opportunità per ristrutturare le economie nazionali sotto la bandiera dell’emergenza securitaria, mettendo a tacere ogni dissenso interno.

Un’arma per rimettere in carreggiata il settore dell’automotive mandato a morire con le irresponsabili politiche green di von der Leyen, che hanno prodotto la cancellazione di 48.700 posti di lavoro in Germania solo nei primi nove mesi del 2025 e in gran parte proprio nel settore auto.

Se la minaccia del nemico alle porte svanisce, come si giustificheranno i tagli futuri?

Come si spiegherà ai cittadini che le loro pensioni sono a rischio mentre i bilanci militari esplodono?

La pace, per questi leader, non è la fine di un problema, ma l’inizio di un problema ben più grande: dover rispondere delle proprie scelte ai propri elettori.

L’Europa è già la grande sconfitta di questo conflitto. Si è privata dell’energia a basso costo russa per legarsi mani e piedi al più costoso gas liquefatto americano. Si è disarmata, svuotando i propri arsenali per riempire quelli ucraini.

E ora, mentre Washington e Mosca disegnano i contorni del futuro, si ritrova a discutere di come finanziare una ricostruzione che, in gran parte, arricchirà le multinazionali americane.

Il dramma non è solo la brutalità della guerra, ma l’ipocrisia di chi, pur avendone il potere, sceglie di non fermarla, perché, mentre a Ginevra si discute di virgole e si esprimono “perplessità”, sui campi dell’Ucraina si continuano a contare le croci.

Questa è l’unica verità che conta. E nessuno, in Europa, sembra avere il coraggio di dirla.

Né i politici né i tanti giornalisti che per quasi quattro anni ci hanno raccontato di pale, muli, sanzioni dirompenti e soldati russi senza calzini.

ZELENSKY IN TRAPPOLA, L’EUROPA IN SCACCO E IL GRANDE BLUFF OCCIDENTALE

Sei giorni. È il tempo concesso a Zelensky per scegliere tra due abissi.

Da una parte, la resa mascherata da accordo, una pace in cambio della perdita di sovranità e di dignità.

Dall’altra, la continuazione di una guerra ormai insostenibile, senza il respiro artificiale del suo alleato più potente.

Volodymyr Zelensky è inchiodato al centro di una morsa stretta da Washington e Mosca, con l’Europa a balbettare incredula.

Come abbiamo già scritto, si tratta della liquidazione di un conflitto diventato troppo costoso per l’America, di una strategia di uscita che Donald Trump, con la brutalità pragmatica che lo contraddistingue, ha imposto come farebbe un amministratore delegato che taglia un ramo secco dell’azienda.

Il documento in 28 punti, trapelato con chirurgica precisione e poi confermato con un ultimatum, è un capolavoro di Realpolitik che svela il grande bluff dell’Occidente: la sua presunta unità non era altro che una dipendenza strategica, e ora che il padrone ha deciso di chiudere la partita, i vassalli sono nel panico.

LA MORSA DELL’ULTIMATUM

“Zelensky dovrà farselo piacere” ha detto Trump. Non è un suggerimento, dunque.

È un ordine esecutivo mascherato da consiglio paternalistico. La semantica è tutto: l’ultimatum scade il giorno del Ringraziamento, un simbolismo quasi crudele che invita Kiev a essere “grata” per l’opportunità di sopravvivere, seppur mutilata.

Le opzioni sul tavolo sono inesistenti. L’alternativa all’accettazione non è la vittoria, ma “continuare a litigare”, come ha detto Trump, sapendo perfettamente che senza l’intelligence e le armi americane, “litigare” significa semplicemente scegliere un modo più lento e sanguinoso di perdere.

Di mandare altri ucraini a morire al fronte, di regalare altro territorio ai russi.

La cessione di Crimea, Donetsk e Luhansk è la ratifica di una conquista militare. Il ridimensionamento dell’esercito ucraino e la rinuncia alla NATO sono la demilitarizzazione imposta a uno stato sconfitto. Come ci insegnano i libri di storia, d’altronde, sulle pagine dei quali non esiste la fantomatica “pace giusta” venuta in mente ai leader europei, veri sconfitti di questa guerra. Commercialmente, industrialmente e geopoliticamente.

La concessione all’Ucraina dell’ingresso nell’UE è il contentino, una caramella offerta a un bambino a cui è stata appena sottratta la casa, utile soprattutto a scaricare sull’Europa il fardello economico e sociale di una nazione da ricostruire e sostenere per decenni.

E c’è ancora qualche giornalista che non comprende la genialità di Trump. Brutale, da elefante in una cristalleria, ma per gli americani è manna dal cielo: gli USA hanno incassato miliardi e miliardi per vendere armi, hanno annientato i competitor industriali europei, hanno spezzato i contatti commerciali dell’Europa con la Russia e limitato quelli con la Cina e hanno siglato contratti per vendere energia al Vecchio Continente a prezzi anche quadrupli rispetto a quanto ci faceva spendere Mosca.

E ora, anche i costi della ricostruzione saranno a carico dei leader europei, quelli che ancora non vogliono sentir parlare di pace. Quelli che ancora vorrebbero più guerra, per giustificare il piano di riarmo europeo.

IL SILENZIO ASSORDANTE DELL’EUROPA

L’Europa si credeva protagonista e si scopre comparsa.

Il panico che serpeggia tra Berlino, Parigi e Bruxelles non è dovuto alla preoccupazione per l’Ucraina, ma alla terrificante presa di coscienza della propria irrilevanza. Della sconfitta netta e inequivocabile.

Per anni, i leader europei hanno interpretato il ruolo dei “volenterosi”, spingendo Kiev verso il baratro della guerra totale, sabotando ogni timido tentativo di negoziato, e promettendo un sostegno incrollabile che si è rivelato essere solo un assegno staccato sul conto corrente americano per acquistare armi.

Ora, esclusi dal tavolo dove si decide il destino del loro continente, balbettano ancora, come malati di mente, chiedendo una “pace giusta” e di essere coinvolti.

È un lamento patetico di chi non ha esercitato la propria influenza quando poteva, perciò non ha il diritto di parola quando le decisioni vengono prese.

L’Europa ha scelto di essere un protettorato e ora ne paga il prezzo. Ha rinunciato alla propria energia a basso costo per legarsi mani e piedi al GNL americano, ha svuotato i propri arsenali, si è indebitata per finanziare una guerra per procura e ora, come beffa finale, i miliardi che verserà per la ricostruzione andranno in gran parte a rimpinguare le casse delle multinazionali americane che gestiranno i lavori.

È un cappio economico e politico che si stringe, ed è stato tessuto con le stesse mani dei leader che oggi si dicono “spiazzati”.

Gli americani hanno un presidente a cui dire grazie, noi leader che entreranno nei libri di storia come il più grande fallimento politico del nuovo millennio.

IL REALISMO DI MOSCA E WASHINGTON

In questo teatro dell’assurdo, gli unici attori razionali, nella loro spietatezza, sono Trump e Putin.

Entrambi hanno compreso che la partita si giocava su un piano diverso da quello della retorica sui “valori”.

Putin, definendo il piano una “base per la pace”, accetta di buon grado di formalizzare le sue conquiste, come qualunque vincitore ha sempre fatto in passato.

Ha raggiunto i suoi obiettivi militari minimi, ha dimostrato la debolezza strutturale della NATO e ha accelerato la frattura del blocco occidentale.

Ora può permettersi di sedersi al tavolo, da vincitore di fatto. La sua minaccia di conquistare altri territori non è un bluff, ma la logica conseguenza di un eventuale rifiuto di Zelensky: se la guerra deve continuare, sarà una guerra di logoramento che la Russia, a questo punto, sa di poter vincere.

E i fatti, al di là della becera propaganda di pale ottocentesche, microchip delle lavastoviglie, muli e mancanza di calzini, lo dimostrano senza se e senza ma.

Trump, dal canto suo, chiude una partita che non ha mai voluto giocare, ereditata dall’Amministrazione Biden e considerata un cattivo investimento.

Il suo obiettivo non è una pace giusta, ma una pace rapida che gli permetta di concentrarsi sui veri avversari strategici e di presentarsi agli elettori come l’uomo che ha fermato una guerra infinita. Ha trattato direttamente con l’unica controparte che riconosce come pari, perché è l’unica che ha armi come le sue: la Russia.

L’Europa e l’Ucraina, in questa equazione, sono semplici variabili dipendenti.

L’ULTIMO ATTO: LA TRAGEDIA DELLA DIGNITÀ

Alla fine, tutto converge sulla figura tragica di Zelensky.

Nel suo discorso alla nazione, ha elencato ciò che era in gioco: “la nostra sovranità, la nostra indipendenza, la nostra terra, il nostro popolo”.

È un lapsus freudiano di straziante onestà che il “popolo” arrivi per ultimo, dopo i concetti astratti e il territorio fisico. È la sintesi di una guerra in cui la vita umana è diventata l’ultima delle priorità.

E visti quanti ucraini ha fatto rastrellare per le strade per mandarli a morire al fronte, quando poteva trattare tre anni fa, si capisce quanto gli stia davvero a cuore il suo popolo.

La sua scelta tra “perdita della dignità” e “perdita di un partner chiave” è la confessione di un fallimento che non è solo suo, ma soprattutto di un’intera generazione di leader occidentali.

La dignità è già stata persa nel momento in cui si è accettato di combattere una guerra senza comprendere che non si aveva la forza di vincerla e senza la saggezza di negoziarla.

Una sconfitta che è anche di tantissimi giornalisti italiani che hanno raccontato fake news e narrazioni irrealistiche e che ora devono fare i conti con la realtà che dimostra la loro colossale incompetenza.

Leader che hanno accettato l’attentato al Nord Stream continuando ad appoggiare l’esecutore. Che hanno tentato più volte la carta dello sconfinamento russo, con i droni, i missili in Polonia, con l’invenzione dell’attacco all’aereo di von der Leyen e altre sciocchezze prive di fondamento.

Tutto per orientare l’opinione pubblica a favore della guerra. E la cosa triste è che tanti sono convinti ancora che siano fatti veri e non fake news, come dimostrato dai fatti.

Perciò, in un mondo giusto e onesto, il minimo sindacale sarebbe le dimissioni in blocco degli attuali leader europei e dei direttori dei quotidiani per manifesta incompetenza.

Ora, a Zelensky non resta che scegliere quale tipo di sconfitta amministrare.

Questo piano non è la fine della storia, ma è solo la fine del racconto che ci siamo narrati per anni.

Perché che la Russia avrebbe vinto noi, e pochi altri, lo scrivevamo già nel 2022, quando i grandi quotidiani parlavano di sanzioni dagli effetti dirompenti, di pale, microchip e muli, dandoci dei putiniani e dei complottisti.

La verità è che erano solo degli sciocchi incompetenti o delle voci al soldo dei potenti. Quale delle due ipotesi vi sembra più corretta?

Il mondo multipolare è qui, ed è un luogo molto più freddo e pragmatico.

E ci dice che se gli accordi si fossero firmati nel 2022, migliaia di famiglie ucraine non avrebbero sedie vuote intorno al tavolo. Milioni di ucraini non sarebbero fuggiti all’estero. Kiev non sarebbe indebitata in maniera insostenibile.

E per cosa? Per giungere tre anni dopo a essere costretti a firmare trattati ancora più stringenti, ma, peggio, con la consapevolezza di una NATO molto meno forte di quanto tutti immaginavano tre anni fa.

La pace di Trump, se mai si realizzerà, non porterà giustizia. Porterà silenzio. E in quel silenzio, l’Europa dovrà finalmente fare i conti con i fantasmi della propria impotenza.

Se la pace non si realizzerà, ci saranno altre settimane, forse mesi, di morti e di territori ucraini conquistati dai russi, fino a quando non si arriverà comunque a una resa.

Zelensky può solo scegliere quale livello di fallimento accettare. L’Europa può solo osservare la sua misera irrilevanza.

Noi possiamo renderci conto di quante boiate ci hanno raccontato i “giornalisti accreditati”. Per scegliere da chi informarci in futuro. Da chi ha scelto di raccontarvi balle o da chi vi ha raccontato ciò che il tempo e i fatti hanno certificato?