IL PAPA SFASCIA LA FAKE NEWS DEL RIARMO.

“LA PACE? NON SI COSTRUISCE CON LA GUERRA”. L’ANALISI IMPIETOSA DI LEONE XIV SULLA FOLLIA BELLICISTA EUROPEA

di Pasquale Di Matteo

QUANDO IL BUONSENSO SBANCA LA PROPAGANDA

Mentre i leader europei si affannano a firmare contratti da miliardi per carri armati e droni, Papa Leone XIV ha sparato un j’accuse che, se fossimo ancora nell’era del giornalismo dell’informazione – e non in quello della propaganda – dovrebbe far tremare i palazzi del potere.

Il discorso del Papa è un caso studio sulla decostruzione della narrazione tossica.

Il Pontefice non ha usato mezzi termini: il riarmo è una “vana illusione” alimentata da fake news, e chi lo promuove tradisce l’umanità. Ecco perché dovremmo studiarlo come un manuale di sopravvivenza civile.

1. IL RIARMO? UNA FABBRICA DI FAKE NEWS

Il Papa ha inchiodato la verità alla croce dell’ignoranza: l’aumento delle spese militari è figlio di una propaganda cinica, costruita per vendere morte come fosse un detersivo.

“False propagande”, le chiama. Sociologicamente, è un capolavoro di fabbrica del consenso: crei nemici inesistenti, spargi notizie tossiche e voilà, i popoli abboccano.

Intanto, i “mercanti di morte” – citazione testuale – si riempiono le tasche.

Mentre i nostri governanti parlano di “sicurezza”, Leone XIV ricorda che la gente muore per colpa di queste menzogne.

E i giornali mainstream?

Distratti a contare i dividendi degli azionisti della Difesa, a contare le sparate di Trump, che non sono segni di squilibrio – purtroppo, – ma il cinico capolavoro mediatico di quel guru della Comunicazione professionale che è Steven Cheung, non a caso soprannominato “Bestia Social”.

2. “SI VIS PACEM, PARA BELLUM”? UNA BALLA STORICA

“Se vuoi la pace, prepara la guerra”.

Massima latina amata da generali in cerca di gloria. – Peccato, però, che i Romani non avessero a che fare con missili ipersonici e bombe atomiche.

Il Papa, con la pacatezza di un bisturi, la sbriciola: “Come si può credere, dopo secoli di storia, che le azioni belliche portino la pace?”

Domanda retorica che suona come uno schiaffo ai salotti buoni di Bruxelles.

Perché la deterrenza? Un mito che produce solo odio e vendetta, spiega.

E i dati sociologici gli danno ragione: dal Vietnam all’Afghanistan, nessuna guerra ha mai costruito stabilità e laddove i marines hanno posato i loro scarponi, il mondo è diventato più instabile, fino alla polveriera pronta a scoppiare che è oggi.

Ma i nostri leader sono sordi, fanno finta di nulla e vanno avanti a ordinare nuovi F-35.

3. LA LEGGE DEL PIÙ FORTE: REGRESSIONE ETICA DA BAR

Leone XIV definisce “vergognosa” e “indegna dell’uomo” la logica del più forte che sostituisce il diritto internazionale. Tradotto: se hai i missili e controlli lo spazio aereo di paesi sovrani adiacenti, puoi fare il bullo.

È la sociopatia elevata a dottrina di Stato.

Pensateci:

nel 2025, dopo la pandemia e la pantomima sul green, l’Europa sceglie l’inquinamento delle armi, la guerra, che provoca anche carestie ed epidemie, nonché la legge della giungla.

Il Papa quasi singhiozza: “Sostituiamo ospedali con cannoni?!”

Beh, sì, qualcuno li bombarda deliberatamente gli ospedali.

E i responsabili delle nazioni? Beh, se la guerra è un business, perché stupirsi se quelli che hanno il poster in camera di Draghi & Co. firmano accordi con la Lockheed Martin?

Perché scandalizzarsi se gli attuali leader europei, vicini al mondo delle banche e delle multinazionali delle armi tifano così tanto per la guerra?

4. LE CONSEGUENZE DEL RIARMO: RUBARE AI POVERI PER DARE AI SUPER RICCHI

Numeri alla mano, il Pontefice sferra il colpo più duro: gli armamenti sottraggono risorse a scuole e ospedali. Mentre un bambino in Africa muore di fame, noi compriamo sottomarini nucleari.

Ironia della sorte: quelle stesse bombe distruggeranno quei pochi ospedali che ancora finanzieremo. E anche quelli privati.

Sociologicamente, è un tradimento: “La corsa agli armamenti tradisce i desideri di pace dei popoli”.

Ma i governi? Fingono di non sentire. Preferiscono ascoltare i lobbisti delle armi, che pagano bene e finanziano le loro campagne elettorali.

5. COMPITI A CASA PER I SERVI

“Valutate le cause vere dei conflitti!”, urla il Papa.

Perché le guerre nascono da narrazioni emotive fabbricate ad arte: il nemico cattivo, la minaccia incombente, l’emergenza sicurezza.

Vi suona familiare?

È la stessa retorica usata per l’Iraq nel 2003.

E abbiamo anche la medesima fake news fabbricata per giustificare l’emergenza. Allora erano le armi chimiche, oggi è la bomba atomica.

Leone XIV invita a “rigettare le cause spurie”, cioè le bugie confezionate per giustificare il massacro.

Ai comunicatori dico: studiate questo punto perché è lì che i potenti fabbricano il consenso.

Peccato che a Palazzo Chigi preferiscano i comunicati stampa della NATO alle parole del Papa.

6. LA GUERRA AMPLIFICA I PROBLEMI? GRAZIE AL CXXXO, DICE TRA LE RIGHE IL SANTO PADRE

“Ogni conflitto è una voragine irreparabile”.

Il Papa lo dice con la pazienza di chi deve spiegare l’ovvio a deficienti: la guerra non risolve un bel nulla.

Crei solo ferite che durano generazioni.

La Libia, oggi è un inferno di milizie. L’Ucraina, è ridotta a un campo minato.

Ma i nostri leader continuano a inviare armi, convinti che la prossima sia quella buona. Come se versare benzina sul fuoco spegnesse l’incendio.

Sono sciagurati che la storia ricorderà per la loro scelleratezza.

7. L’APPELLO FINALE: FATE LA PACE, NON I MERCENARI

Il finale è un pugno nello stomaco – almeno per chi ha ancora uno stomaco e un’anima: “La diplomazia faccia tacere le armi!”.

Un invito alla responsabilità morale che suona come un’accusa a chi ha preferito accantonare la diplomazia e indossare l’elmetto per partecipare al banchetto dei miliardi di finanziamenti per le armi.

Mentre l’Europa si trasforma in un arsenale, il Papa chiede opere di pace.

Non statue di generali, ma scuole.

Non basi militari, ma ospedali.

Il suo è un monito potente: la violenza è un fallimento comunicativo. Se non sai risolvere un conflitto con le parole, sei un incapace. Punto.

In pratica, il Papa sta esortando i leader europei a dimettersi, per lasciare spazio a qualcuno che sia capace.

IL PAPA CONTRO I PAGLIACCI DEL RIARMO. CHI VINCE?

Leone XIV ha fatto più in un discorso che tanti politici messi insieme in 50 anni: ha smontato la fake news bellicista, denunciato i profittatori di morte, e ricordato che la pace si costruisce con la diplomazia e la giustizia, non con i missili.

Ma per avere giustizia e diplomazia, devi avere l’onesta intellettuale di ascoltare le ragioni dell’altro e di scendere a patti, rinunciando a sogni di allargamento a Est, maggior vendita di gas, accaparramento di materie prime a buon mercato, costruzioni di imperi in Medio Oriente…

I leader europei continuano a recitare la farsa del “riarmo difensivo”.

Ma il pubblico inizia a fischiare. Perché, come diceva Brecht, “il ventre che produce mostri è ancora fecondo”.

Tuttavia, il Papa gli ha appena dato un calcio.

Beh, se credi più alle tesi del Papa che ai signori della guerra, condividi questo articolo sui social.

IL GIRO DI VALZER DEGLI STILISTI DELLA MODA E LE PIROETTE DEI BILANCI DELLE GRANDI MAISON.

I DEBITI DEL MONDO DELLA MODA SONO STANDARD? 

L’ultima sfilata della stilista Maria Grazia Chiuri che ha guidato con le sue collezioni per 9 anni Dior, ispirata dall’artista Pietro Ruffo, a mio giudizio segna anche un cambio deciso di rotta. 

Oltre 10 miliardi di indebitamento presente nei bilanci di qualche maison, unitamente a cali significativi nelle vendite, non sono pochi da colmare.  

Per nessuno. E quindi bisogna, forse, provare intanto con la vendita dei gioielli di famiglia.

La prima cura per il tentativo di risanamento del bilancio, è quella di ridurre i costi, e in primis, di andare a vendere immobili prestigiosi di proprietà.

Magari acquistati l’anno precedente come quello nella Quinta Strada a New York appartenenti all’ impero Gucci.

I grandi immobili che hanno fatto la storia di alcune maison sono sempre stati presentati come simbolo di “imperialità” imprenditoriale.

Un simbolo di ricchezza in un mercato oggettivamente così effimero e complesso come quello della moda. 

Gli immobili saranno le prime vittime. Cosa che è capitata, – la notizia è proprio di questi giorni – ad esempio a Gucci. 

LA FUNZIONE DELLO STILISTA NEL MERCATO DI OGGI 

Ma, come avevamo anticipato in una nostra nota di pochissimi mesi fa, la funzione dello stilista così come è stata interpretata negli ultimi decenni, è cambiata.

Stilisti da propulsori di nuove collezioni e tendenze, e quindi di fatturati certi, a inseguitori di nuovi ricchi clienti.

Sì perché l’haute couture che avrebbe incontrato il gusto di pochi facoltosi eletti sembra essere definitivamente tramontata. 

Ora bisogna fare i conti con le nuove generazioni, con nuovi comportamenti in termini di gusto, di stile e di responsabilità ambientale.

MEGLIO L’AI O QUELLA DEGLI UMANI? 

Meglio se accompagnati da una sana dose di intelligenza. E non certo quella artificiale.

Quella la lasciamo a chi ne sente la necessità. A meno che non imponiamo un modello universale valido per tutti: quello della AI.

Come ad esempio era nella Cina di Mao dove tutti dovevano avere la stessa scodella, un vestito di un solo colore e nient’altro di diverso. 

Era come avere una intelligenza artificiale ante litteram generata dal capo supremo. Ma da allora anche in Cina è cambiato molto.

LA CINA È ANCORA VICINA? 

Forse la Cina di oggi sta pensando proprio ad un modello più conservativo e maturo e meno aperto a stranezze stilistiche all’occidentale fine a sé stesse.

Perché, se è ormai acclarata e anche acclamata una nuova tendenza nel mondo dello stile e della moda, poi bisogna capire quanti capi se ne possono vendere.

Cioè quale sarà il target. Sarà banale e scontato, ma vale anche per le grandi case di Moda. 

Se la collezione sarà solo bella, ma non si vende e appaga solo gli occhi dei critici di quel mondo dorato, sarà un disastro. Economico.

Se parla solo a se stesso piuttosto che a un mercato che non risponde più a quei dettami, quei modelli ce li ritroveremo fra molti anni in un museo celebrativo.

UN MODELLO SANO O FANTASIE ESTETICHE 

Il che dimostra la nostra capacità di generare situazioni improponibili o impraticabili.

Sembra si stia diffondendo una necessaria vicinanza fra arte, moda, mercato, marketing e valori espressi dal brand. 

Ma va riletto in un altro modo, perché tutto è stato stravolto, credo, proprio dopo la pandemia. 

RITMI MILIARDARI FORTEMENTE VARIABILI

Ma alla borsa poco importa di tutto questo. Gli analisti vogliono risultati e bilanci che mantengano fede alle previsioni.

Il giro d’affari dell’alta moda è molto importante. Con un ricambio di proposte che dura circa tre mesi dov’è chiaro che vi possano essere anche degli errori di valutazione. 

Errori che poi portano importanti cali di vendite e che possono spostare l’asse dei bilanci. 

I COSTUMI CAMBIANO 

Ma più in generale, al di là di tutto questo bailamme, va messo in conto un cambiamento di stili di vita.

Queste variazioni inevitabilmente si traducono in scelte estetiche che comportano una inevitabile modificazione dei mercati. 

Oltretutto, i grandi paesi dell’Asia, Cina in testa, hanno fortemente ridotto gli acquisti. 

TRUMP E I DAZI 

I dazi imposti da Trump c’entrano poco o nulla. Tutto va rivisto alla luce di un cambiamento globale. 

Disastri epocali, guerre, carestie e turbolenze geopolitiche.

È il mondo che cambia, baby. Sei pronto per il domani?

L’ASTENSIONISMO STRATEGICO È L’UNICA CAMPAGNA IN CUI TUTTI I PARTITI ITALIANI ECCELLONO. ABOLIRE IL QUORUM.

REFERENDUM: LA SCENA È NOTA, IL COPIONE MAI CAMBIA.

Quorum non raggiunto. Ancora.

Referendum sulla cittadinanza e sul lavoro, sepolti dall’indifferenza pilotata dalla campagna per l’astensione.

Un misero 30% ha varcato i seggi. E mentre i pochi coraggiosi (o testardi) esprimevano un chiaro 80% di SÌ sui temi del lavoro e un più tiepido 60% sulla cittadinanza, il vero vincitore è stato, ancora una volta, il CALCOLO POLITICO DELL’ASSENZA.

Un’arma bipartisan, affilata e spietata, usata con maestria da tutti, destra, sinistra e sostenuta persino dal Colle più alto.

LA STORIA DELLA POLITICA ITALIANA È UN MANUALE DI REALPOLITIK DELL’ASTENSIONE.

Da oltre vent’anni, non votare è diventato il voto più intelligente per chi punta sul NO.

Il socialista Craxi, nel ’91, invitò gli italiani ad andare al mare e non a votare.

I Democratici di Sinistra (l’attuale PD), nel 2003, sotto la regia di Piero Fassino, fecero campagna attiva per affossare il referendum sull’articolo 18. “Dannoso”, dichiarò il leader. “Rendiamolo inutile non votando”.

E il partito distribuiva locandine con uno slogan che non lasciava adito a dubbi: “… non votare è un diritto di tutti, lavoratori e non.”

Una lezione di cinismo applicato.

Rifondazione Comunista, nel 2009, non ebbe remore: chiamò esplicitamente a far fallire il quorum. Renzi, nel 2016 sul referendum “trivelle”, elevò l’astensione a diritto sacrosanto.

E persino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un’intervista a Repubblica nello stesso 2016, diede la sua augusta benedizione all’opzione del non voto: se il quorum è la regola, disertare le urne è un legittimo giudizio sull'”inconsistenza” dell’iniziativa.

Una giustificazione costituzionale per la diserzione di massa, firmata dal Garante Supremo della Carta. Capolavoro.

La cosa esilarante è che oggi qualcuno ha accusato la destra di negazione della democrazia.

Ma quel qualcuno, stando alla tesi per cui invitare al non voto ai referendum sia antidemocratico, è il primo dei nemici della democrazia, come ricordato poco sopra.

OGGI LA MUSICA È CAMBIATA? NO SOLO L’ORCHESTRA.

Questa volta il coro astensionista è partito dalle destre.

Risultato identico: deserto elettorale.

Ma ecco il secondo dato, TALMENTE EVIDENTE DA FAR RIDERE (AMARO): quel 30% che ha votato, spesso associato a posizioni progressiste, si è espresso solo timidamente a favore dell’accelerazione delle procedure di cittadinanza.

Il segnale inequivocabile di un Paese stremato, diffidente, che guarda con sospetto a facilitazioni percepite come ingiustificate.

Basti pensare che persino in Nigeria, per diventare cittadini, servono 15 anni, padronanza linguistica e culturale, nonché fedina penale immacolata. Mentre da noi, alcuni hanno pensato di regalarla anche a chi parla solo con i verbi all’infinito e a chi fa indossare veli e anche di peggio alle proprie donne.

Se avessero votato tutti, anche quelli per il No, sarebbe stato un NO fragoroso. Un plebiscito.

E la politica, se vuole essere credibile, non può non tenerne conto. Ammesso che ci siano ancora politici in grado di analizzare il voto.

SUL LAVORO, POI, IL TEATRO DELL’ASSURDO RAGGIUNGE VETTE INARRIVABILI.

I promotori del referendum erano gli stessi che quelle norme le avevano votate, approvate, o lasciate intatte per anni, al governo.

Un tentativo maldestro di rifarsi una verginità politica agli occhi di un elettorato che li ha abbandonati.

Il PD, da Renzi in poi, è percepito (a ragione o torto) come il braccio destro di Confindustria. Elly Schlein ha provato a riagganciare il treno della “sinistra” con referendum dal sapore anni ’70, con lotta tra tute blu e “padroni”. UN pellegrinaggio verso un passato che non c’è più.

E questo è il dato più allarmante: il fatto che il segretario del maggiore partito di sinistra viva indietro di trent’anni e non si accorga del presente, è drammatico.

PERCHÉ QUI ENTRIAMO NELL’IDIOZIA PURA.

Siamo nel 2025, signori miei!

L’Intelligenza Artificiale non è fantascienza, è la scure che sta già tranciando milioni di mansioni già oggi.

Facchini, operai di catena, commessi, addetti allo sportello, alle pulizie, segretari, autisti…

Qualsiasi compito meccanico, ripetitivo, prevedibile, sta per essere fagocitato da algoritmi e robot. In questo contesto, ossessionarsi sul “reintegro obbligatorio” è come discutere del colore delle poltrone sul Titanic mentre l’iceberg squarcia la chiglia.

OBBLIGARE UN’AZIENDA A MANTENERE UN ESSERE UMANO IN UN RUOLO OBSOLETO, mentre i competitor tagliano i costi del 90% con l’AI, non è solidarietà, ma è un suicidio collettivo.

Quell’azienda fallirà. Aprirà altrove. E a casa ci andranno TUTTI, non solo il “reintegrato” di turno.

Una politica miope, dannosa, figlia di un sindacalismo inutile, irreale, illogico, politicizzato, che combatte battaglie di ieri con gli strumenti dell’altro ieri.

LA SOLUZIONE? NON È NELL’IDIOZIA, MA NELLA REALTA’.

Non servono feticci sindacali antistorici, ma un ripensamento radicale del lavoro, del reddito, della formazione, della dignità umana nell’era post-lavoro.

Serve un nuovo patto globale per preferire uomini alle macchine e alle AI.

Ma chi lo propone seriamente? Chi ha il coraggio di sfidare il dogma del “lavoro a tutti i costi” e del “miglior prodotto al minor costo”?

Nessuno che riesca a entrare in Parlamento, ovvio. Ormai da anni, la vera politica è fuori, esiliata dal circo mediatico-partitico delle agende già scritte da chi sta al di sopra dei Parlamenti.

Motivo per cui, che vinca la destra o la sinistra, le azioni di governo e le scelte sono le stesse.

LA MORALE DI QUESTA TRISTE FIABA REFERENDARIA È UNA SOLA, E SI IMPONE CON LA FORZA DELL’EVIDENZA: IL QUORUM È MORTE.

È l’arma definitiva data nelle mani di chiunque voglia uccidere la democrazia diretta senza sporcarsi le mani in un dibattito sul merito. Trasforma la partecipazione nel suo contrario. Premia l’organizzazione del nulla.

E offre a chi è per il NO l’opportunità di spendere nemmeno un centesimo e neanche un briciolo della propria credibilità per fare campagna elettorale entrando nel merito delle questioni.

Basta dire “andate al mare”, come fece Craxi. O dire “non votare è un diritto”, come sostennero il PD di Fassino, poi di Renzi e lo stesso Napolitano.

Fino a quando esisterà, l’astensionismo strategico rimarrà la carta jolly più potente nel mazzo della casta. Usata da tutti, senza distinzione di colore.

ABOLIAMOLO. SUBITO.

Rendiamo ogni voto espresso decisivo.

Togliamo ai signori del cinismo lo strumento prediletto per soffocare nel silenzio le voci scomode, le domande imbarazzanti, le scelte difficili.

Altrimenti, continueremo a fare la fila al mare, su invito di Craxi, Fassino, Renzi, Salvini, Meloni e chiunque altro capiti voglia che vinca il NO.

Mentre il Paese affonda e i robot si preparano a prendere il posto di chiunque abbia competenze tecniche, meccaniche e ripetitive.

Con o senza referendum.

Ah… nello scorso millennio due referendum che, superato il quorum, abolivano la trattenuta automatica in busta paga a favore dei sindacati e prevedevano la responsabilità dei magistrati. Qualcuno ricorda se, come e quando sono stati tramutati in norme, leggi e regolamenti?

UNA SINESTESIA DELL’ANIMA: MURIEL VILLA E FERNANDO ANDREA MASSIRONI A VILLA TEODOLINDA. RIFLESSIONI DOPO L’INAUGURAZIONE

DOMENICA I GIUGNO, TRA LE ELEGANTI PARETI DI VILLA TEODOLINDA A VILLA D’ADDA (BG), HA PRESO AVVIO UN DIALOGO DI RARA CARATURA ARTISTICA.

La mostra bipersonale che unisce Muriel Villa e Fernando Andrea Massironi è un contrappunto studiato, un’esplorazione complementare delle profondità dell’esistenza e della percezione, declinato secondo due punti di vista differenti.

Onorato di aver preso parte alla presentazione, sviscerando l’arte di entrambi, sento il dovere di condividere la potenza di questo incontro.

MURIEL VILLA: L’EVOLUZIONE VERSO UMA MATURITÀ PLASTICA TRAVOLGENTE

Osservare il percorso di Muriel Villa in questi ultimi anni è stato assistere a una metamorfosi artistica di altissimo livello, grazie alla sua ricerca, già promettente, che ha subito una straordinaria accelerazione qualitativa.

Oggi, la sua pittura ha raggiunto una plasticità scultorea, una resa formale che ricorda la sintassi cromatica di grandi artiste del passato, prime fra tutte, Tamara de Lempicka, alla quale è vicina anche per l’attenzione alle dinamiche del mondo femminile e per quelle donne che sono estroflessione di sé stesse.

Per quella medesima capacità di fondere la precisione del segno con un’essenza magnetica, carica di un erotismo intellettuale e di una fierezza esistenziale che tanto affascinarono (e affascinano) i grandi collezionisti, da icone come Madonna a numerose star di Hollywood.

La de Lempicka non è un riferimento per Muriel Villa, ma un dialogo alla pari, avendo forgiato un linguaggio personale altrettanto riconoscibile e potente, fatto di mistero, erotismo raffinato, poesia, riflessione, senso di solitudine.

Ogni stesura di colore, ogni composizione, tradisce il desiderio bruciante della donna Muriel di esprimersi, di raccontare frammenti della sua storia interiore, di squarciare il velo per svelare la propria essenza più autentica.

C’è una ricerca di comprensione profonda, quasi un’invocazione silenziosa verso un’anima gemella capace di decifrare le vibrazioni cromatiche che diventano parole non dette.

La sua pittura è un atto di coraggio, un’offerta di sé al mondo. Plastica. Potente. Inesorabilmente sincera.

FERNANDO ANDREA MASSIRONI: UNA GRAMMATICA DEL CREATO

Se Villa conduce negli abissi dell’interiorità, Massironi offre uno sguardo rivelatore sul mondo esterno, sull’ambiente, sul pianeta. Ma quale esterno e quale ambiente? Per quell’esterno che è al di fuori di noi, quindi quel mondo delle relazioni, della socialità, oltre a quello strettamente paesaggistico.

La sua arte si caratterizza per un altissimo valore tecnico, frutto di un mestiere solido e raffinato, maturato in decenni di esperienza e messo al servizio di un approccio naturalistico che travalica il semplice senso visivo.

Osservando soprattutto le sue serie dedicate ai canneti e agli iris, non ci si trova di fronte a semplici rappresentazioni botaniche, ma a metafore dell’esistenza.

Si tratta di autentici capolavori di percezione. Massironi padroneggia una grammatica del colore complessa e sofisticata, che è una vera e propria sintassi cromatica che costruisce lo spazio e l’atmosfera con la precisione di un maestro giunto dall’antichità, ma con la sensibilità di un poeta moderno.

La costruzione è quella di una macro, che ingrandisce il particolare fino a farlo diventare universo.

Massironi possiede la rara capacità di sradicarci dal suolo consueto, per trascinarci fisicamente dentro quel microcosmo vegetale.

Ci obbliga a chinare lo sguardo, a mettere a fuoco l’infinitamente piccolo, per rivelare la magnificenza assoluta del creato. Trasforma l’ordinario e ciò che spesso consideriamo scontato – un gambo, un petalo, la luce che filtra tra le canne – in un evento quasi sacro, in un inno alla meraviglia del creato.

È un’arte che educa allo stupore in tempo come il nostro, in cui diventa difficilissimo stupirsi di cose che non siano digitali o super tecnologiche.

VILLA TEODOLINDA: LA CORNICE PERFETTA PER UN DIALOGO AULICO

La scelta di Villa Teodolinda come sede espositiva si è rivelata felicissima.

L’eleganza storica degli spazi e l’atmosfera raccolta, hanno offerto la cornice ideale per un dialogo artistico così intimo eppure così carico di espressività.

Un plauso alla gestione per gli orari di apertura individuati (1-2 e 7-8 giugno), che offrono diverse opportunità per immergersi in questa esperienza. Il percorso espositivo, studiato con cura, permette di cogliere appieno le peculiarità e le affinità elettive tra i due artisti, dislocati lungo le diverse sale della villa.

UN’ESPERIENZA CHE RIMANE

La mostra bipersonale di Muriel Villa E Ferdinando Andrea Massironi a Villa Teodolinda non è solo un evento che resterà sul calendario e nella memoria di chi l’avrà ammirata, ma un’esperienza di sensibilità, un’esperienza intellettuale capace di veicolare bellezza, dimostrazione di competenza e tante emozioni.

È la testimonianza di due percorsi artistici maturi, distinti, ma capaci di armonizzarsi in un linguaggio che arriva e pretende ascolto. L’introspezione esistenziale di Villa e la contemplazione meditativa della natura di Massironi, due modi complementari di indagare la bellezza e il mistero dell’esistenza.

NON PERDETE L’OPPORTUNITÀ DI VIVERE QUESTA SINESTESIA DELL’ANIMA.

La mostra, promossa anche dall’Associazione culturale PHAOS, rimarrà aperta fino all’8 giugno, nei giorni e orari indicati nella locandina.

Un appuntamento imperdibile per chi ama l’arte raffinata e ricca di pathos.

Visitarla è come accedere a due universi paralleli di eccelsa qualità, capaci di emozionare, spingere a interrogarsi sulla vita e sul mondo, in un momento culturale stimolante e in grado di arricchire come poche cose al giorno d’oggi.

IL DILEMMA ITALIANO DELL’ARTE DIGITALE. PERCHÉ QUESTO RIFIUTO CI COSTA IL FUTURO

L’arte digitale trasforma musei in metaversi e pennelli in algoritmi, eppure, in Italia, resta spesso relegata ai margini del dibattito culturale. Un paradosso stridente per il paese di Leonardo, dove l’innovazione estetica dovrebbe essere linfa vitale.

LA RESISTENZA DEI PITTORI TRADIZIONALI: UN ANALFABETISMO EMOTIVO?

«Non è vera arte», dichiarano molti maestri della pittura.

La loro obiezione è data dalla presunta assenza di un gesto fisico, l’effimero della creazione su schermo, ma è chiaro come vi sia un equivoco, perché confondono il mezzo con l’essenza, cioè confondono l’arte con l’atto fisico del dipingere. E non è affatto così.

L’arte non nasce dalla tela o dal mouse, ma dall’intenzione umana che dà forma al caos e, soprattutto, esiste nel momento in cui vi è un messaggio veicolato.

Non si può definire artista un ritrattista che puoi trovare in Piazza Duomo a Milano il sabato pomeriggio. Eppure si tratta di talenti con delle reflex al posto delle mani. Ma quella non è arte. È tecnica, spesso sopraffina, ma niente di più.

Non c’è nessuna possibilità di paragone tra un ritratto di Piazza Duomo e un Picasso, nonostante la perfezione tecnica del ritratto. Ma non ci sarebbe alcun paragone nemmeno con un Basquiat o con un Pollock. Perché il ritratto non dice niente, se non al committente, mentre un’opera d’arte è tale per il messaggio che veicola, per i concetti filosofici che affronta, per le domande esistenziali che suscita.

Banksy, con la sua arte distrutta dopo la vendita, ci ha insegnato che il valore non sta nemmeno nel supporto.

Perché, allora, rifiutiamo opere digitali che sfidano la percezione, come quelle di Refik Anadol, dove i dati diventano sinfonie visive?

È vero, non ci sono spatole e pennelli. Ma, allora, è come dire che David Garret non è un artista poiché non usa oli e acrilici, ma striscia un arco sulle corde del violino.

L’arte è lo spessore del prodotto finale, non i mezzi e le tecniche utilizzate.

LA GRANDE BUGIA: “TUTTA L’ARTE DIGITALE È COMMERCIALE E VUOTA”

Sì, esistono NFT banali e filtri Instagram spacciati per avanguardie. Ma questo accade ovunque: quanti quadri decorativi invadono le gallerie senza dire nulla? Quanti pittori domenicali non sono artisti?

La vera arte digitale italiana, pensate a Quayola o ad Andrea Mastrovito, gioca con il colore con maestria rinascimentale e riesce a stratificare simboli, per cui un pixel può essere più carico di significato di un’intera tela barocca.

I NUMERI CHE L’ITALIA IGNORA (A SUO DANNO)

Secondo diverse previsioni, il mercato globale dell’arte digitale varrà oltre 20 miliardi di dollari entro il 2030.

Musei come il MoMA e il Louvre dedicano mostre permanenti al digitale dal 2015. Dieci anni fa, mentre noi ancora perdiamo tempo a stabilire se quella digitale sia arte vera oppure no.

In Italia? Solo il 12% delle fondazioni artistiche investe in digital art (Rapporto Censis 2023).

LA RADICE DEL PROBLEMA: UNA SOCIOLOGIA DELLA PAURA

Il rifiuto italiano è sintomo di un trauma culturale più profondo. La nostra identità si aggrappa al passato come a una zattera. Temiamo che il digitale cancelli la genuinità dell’esperienza artistica, ma ci dimentichiamo che Caravaggio scandalizzò i suoi contemporanei con il realismo crudo. Oggi i “caravaggeschi digitali” subiscono la stessa condanna.

È ansia da sostituzione, perché crediamo che i pixel uccideranno la materia. Ma l’arte è un ecosistema in cui il nuovo non distrugge il vecchio, ma trasforma, innova, aggiunge.

COME ABBRACCIARE LA RIVOLUZIONE: QUATTRO PASSI URGENTI

EDUCAZIONE NELLE ACCADEMIE

Insegnare storia dell’arte digitale come si fa per il Rinascimento.

POLITICHE MUSEALI CORAGGIOSE

Il MAD di Milano deve diventare la nostra arca del futuro, non un esperimento.

DIALOGO GENERAZIONALE

Coinvolgere i pittori tradizionali in collaborazioni ibride, in un affresco che dialoghi con la realtà aumentata.

PATROCINI TRASVERSALI

Coinvolgere le aziende tech italiane in residenze artistiche: l’artigianato digitale come nuovo made in Italy.

LA SFIDA FINALE: RIDEFINIRE COSA SIGNIFICA “UMANO” E COSA ARTE

L’arte digitale non è fredda, ma è l’urlo di una generazione che vive sospesa tra atomi e bit, è un modo per domandarci dove finisca la natura e dove inizi la tecnologia.

Rifiutare questo dialogo significa imbalsamare la cultura italiana, nonostante siamo il Paese che ha rivoluzionato il mondo con prospettive artistiche innovative, durante il Rinascimento.

Dobbiamo scegliere se essere custodi di un museo dell’antiquariato o architetti di nuovi universi sensoriali aperti al futuro.

Il futuro dell’arte non si cancella con un clic. Si costruisce con la volontà di vedere oltre il visibile.

FOTOGRAFIA, UN MONDO DA SCOPRIRE. TRA IDEE, INVENZIONI E INNOVAZIONE.

Non gradisco che mi riprendiate nemmeno di schiena mentre sto copulando con Belen! Non è bello né elegante!

Lo so, non succederà mai, ma giusto per solleticare l’immaginario collettivo pruriginoso, parto così alla grande! E poi, quale Belen?

MA COS’È LA FOTOGRAFIA? 

La fotografia è come fermare un attimo. Ma è molto di più. È Arte, documento, informazione, denuncia, passione e pensiero.

Lo dice Giuseppe Santagata, che ne sa certo più di me, ma che mi piace condividere. La fotografia è arte e quindi la possiamo ospitare su TZ. 

E, sempre per citare Santagata, la fotografia è la fusione di due attimi indissolubili e distanti tra di loro. È forse la più coerente fra le varie spiegazioni.

NASCITA DELLA MACCHINA FOTOGRAFICA 

Era l’anno di grazia 1826 quando Joseph Nicephore Niepce scatta la prima fotografia della storia utilizzando una macchina primitiva. La fotografia si intitolava “vista della finestra di Le Gras”. 

In realtà era un foglio di peltro rivestito di bitume.  Per fare quella foto occorsero molte ore, ma era l’inizio di una nuova era. 

Nel XIX secolo però, tutto cambia: sia macchine fotografiche sia la produzione di pellicole evolvono. 

Nel 1888 Kodak inventa la prima fotocamera a rullino e così la fotografia diventa accessibile a un pubblico molto ampio e oggi, grazie agli smartphone, dove la fotocamera è digitale, la fotografia è diventata più accessibile che mai. 

Ma al di là della tecnica la fotografia è e resterà sempre una forma d’arte.

LA FOTOGRAFIA OGGI

Potrebbe essere facile a dirsi; è sempre una forma d’arte. Catturiamo momenti preziosi e li conserviamo per sempre.

La fotografia inizia con la cattura dell’immagine, magari rubata con un dispositivo smartphone, come elemento di base, poi può essere salvata ed elaborata.

Se vogliamo possiamo stamparla o digitalizzarla e ne facciamo una storia, magari da condividere on line. 

Ormai abbiamo abbandonato le belle stampe in bianco e nero e i bei racconti che si possono vedere quasi esclusivamente durante le mostre di settore o nei musei.

Più semplicemente, ma solo ultimamente, può essere che ci siamo abituati ad una comunicazione visiva legata al mondo della quotidianità che esprime le nostre sensazioni

Catturando le immagini in un editing fotografico in concomitanza con un software che ne modifica spesso contenuti, atteggiamenti, significati.

Cambiando e montando sfondi a secondo dell’occasione – o necessità – cioè mistificando la realtà dello scatto fotografico, raccontiamo un’altra storia.

I FOTOGRAFI E I LORO RACCONTI 

Chi ha fatto della fotografia la propria professione si è dedicato generalmente a settori specifici per raccontare una verità: la propria. 

Così esistono i fotografi specializzati nella moda, nel gossip, nello sport, nello spettacolo, nei ritratti, nella natura, nel raccontare la guerra…

E poi c’è chi intorno a quelle fotografie ricama le storie, i racconti, le tragedie, a volte le bugie.

Perché un gossip non è bello se non c’è un presunto fatto di corna (non di cronaca), una cena rubata clandestina, un bacio sulla guancia raccontato, presentato dalla foto come un prossimo abbandono di coppia.

Sì, perché così si interpretano meglio la foto e la notizia pubblicata.

Poi magari il tutto ha bisogno di smentite e quindi giù a scrivere e a farsi leggere.

C’È FOTO E FOTO

La foto di guerra non è significante se non c’è un cadavere (leggere: una persona morta) squartato dalle bombe del nemico, un bambino orfano da far vedere e poi sbattere in prima pagina, una esplosione accecante, un cannone fumante.

Ci sono le foto dei vincitori e dei perdenti nello sport (tutto) per alimentare cronaca e business.

Le foto raccontano le devastazioni delle guerre (deglutiamo più danni materiali che vite umane), le tragedie del mare, gli effetti dei terremoti, gli incendi delle foreste (e mai dei piromani), la natura violentata (mai i violentatori.

Sì, ci sono anche le foto dei reali d’Inghilterra, della nascita del leoncino allo zoo, del nuovo amore fra un ricco fortemente datato e la novella pulzella con la nuova travolgente storia d’amore (leggi: l’età di lei e la durata dell’innamoramento), e altre storie memorabili. 

Insomma ce n’è per tutti i gusti. Ricordando tra le tante anche le foto pubblicitarie dell’azienda dei maglioncini rigorosamente a tinta unita proposte dall’irriverente fotografo di turno.

DOVE E COME TI IDENTIFICHI IN QUESTE DEFINIZIONI?

Vorrei chiudere con una serie di citazioni di persone illustri, o meno, nelle quali potreste ritrovarvi o dissentire. Io ve le propongo. A voi la scelta.

Marcel Proust. La fotografia acquista un po’ della dignità che le manca quando cessa di essere una riproduzione della realtà e ci mostra cose che non esistono più.

Helmut Newton. Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare: tre concetti che io sono l’arte della fotografia.

Giorgio Rodger. Ogni cosa che vedi in basso, sul vetro della tua Rolleiflex è la realtà-le cose come sono. La fotografia è cosa deciderà di farne di tutto ciò.

Richard Avedon. Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia e come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi.

Robert Doisneau. Non mi sono mai chiesto perché scattassi delle foto. In realtà la mia è una battaglia disperata contro l’idea che siamo tutti destinati a scomparire. Sono deciso ad impedire al tempo di scorrere. È una pura follia.

Henri Cartier-Bresson. La fotografia può raggiungere l’eternità attraverso il momento.

Preda. La fotografia è un furto di identità. Riconoscersi in una foto scattata da altri fa venire i brividi rispetto alla conservazione di quel momento che vorresti fosse solo tuo. Ma, in fondo, ti piace.

DANZA. UN MONDO, UN CONCETTO, UNA FILOSOFIA

La danza non è il ballo. Il balletto non è la danza.

I movimenti del corpo sono danze? In discoteca si balla? C’è una danza dell’anima, della mente? Non vorrei aver contribuito ad affossare un concetto lirico per eccellenza.

Certo ha mille sfaccettature e molte proposte di lettura. Ecco, allora è meglio fare innanzitutto un po’ di chiarezza su cosa si intende per danza e recuperare qualche testo sacro.

Ma la danza è innanzitutto una forma d’arte e come tale, per noi, ha pieno titolo per essere ospitata in TZ (tamagozine.org). 

Nell’ immaginario collettivo ha sempre rappresentato una forma di espressione con dei significati molto diversi a seconda di chi la pratica, di chi la interpreta e del significato che vuole trasmettere.

Chiaro quindi anche che dobbiamo porci nell’aspettativa di chi vede, sente, interpreta o magari partecipa all’atto scenico. Ma il palcoscenico su cui si dipana la danza è il racconto dell’anima, delle relazioni, dei desideri, dell’io dei protagonisti. 

LEGGERE LA DANZA 

O può essere la rappresentazione della rabbia delle mie frustrazioni, delle mie incapacità, dei miei tormenti, dei miei fallimenti. Ma non è la stessa cosa di quando io provo a mettere per iscritto quello che ho già “descritto” sopra? No. 

Nella danza raggiungo qualcosa che deve essere immediatamente vista, recepita, interpretata, macerata, digerita. Pronta per un nuovo quadro.

È un momento, non ho il tempo per riflettere come quando sto leggendo e rileggendo una pagina di un libro di cui non ho compreso appieno il significato. Quel tempo è già passato e la pagina del libro della danza diventa un altro racconto.

Nessuna distrazione ammissibile. Nessun libretto accompagnatorio che ti indichi la via giusta per comprendere il significato. Devi essere tu a capirla. Altrimenti è meglio che resti a casa. Ci sono altri modi saggi per occupare il tempo. 

Ma se pensi che la danza sembra sia nata almeno 11.000 anni fa in India nelle incisioni rupestri di Bhimbetka e che poi ha subito tutte le variazioni e i suoi significati sono mutati a seconda delle interpretazioni, possiamo ben dire che ad essa vengono attribuiti molteplici e benefici fattori.

SOLO DANZA O ANCHE BENESSERE?

Contribuisce al benessere fisico, alle interazionI con il prossimo, fa rinascere nuove emozioni, ritma la vita, aiuta a liberare la mente…

Cioè è la terapia del benessere, e sembra l’antidoto a tutti i mali. 

Se fosse così non avremmo bisogno di altro. Ne di medicine, ne di stregoni, ne delle distorte relazioni moderne.

Si danza con riti propiziatori, invocando la pioggia, la salute, la maternità che non arriva o per invitare gli spiriti (buoni o cattivi) a compiere la loro missione.

“La danza nasce come momento sacro e di aggregazione divenendo nel corso del tempo una forma di intrattenimento e spettacolo sempre più compiuta”. Sembra essere questa la definizione che ho preso il prestito che forse più si adatta alla realtà.

Ma se facciamo un salto indietro verso il diciassettesimo secolo è proprio in Francia che la danza comincia ad assumere la forza che gli riconosciamo oggi.

Ma danza e musica sono un tutt’uno. La musica strumentale di quell’epoca si sposa perfettamente con le rappresentazioni esibite nelle corti europee e comincia a diventare raffinata ed esclusiva. Nell’Ottocento, in occidente, conobbe il massimo splendore. 

LA DANZA NEL TEMPO

La danza classica ad esempio ha origine nel 1661 in Francia quando Luigi XIV fondò a Parigi una delle più prestigiose accademie di danza per razionalizzare i movimenti e codificare le cinque posizioni che anche oggi si studiano nella danza classica. Si fissarono le regole dell’esecuzione dei principali passi con una denominazione in francese.

Ma ancora oggi esiste l’obbligo di un abbigliamento rigoroso imposto allora e valido anche come l’uso di scarpette a punta ed il tutù ad iniziare fin dall’età giovanile. 

La danza moderna invece esibisce un minor rigore e rappresenta quasi una sorta di ribellione ai rigidi dettami classici. Si danno più spazio alle sensazioni provate liberandole in un flusso di passione e armonia. 

E notevoli sono le coreografie e le improvvisazioni. In Europa in America chi non ricorda Isadora Duncan che ha definito la danza contemporanea. Era la fine della seconda Guerra mondiale e la definizione era proprio quella di una rivolta verso l’accademismo, liberando la filosofia del movimento, introducendo un’armonia del corpo lontano dal rigore formale.

Un’ampiezza di comportamenti favoriva e determinava il fluttuare del corpo sul palcoscenico. Era il corpo il centro della nuova dimensione della danza e l’improvvisazione era l’accompagnamento perfetto sottolineata dalla musica. Ecco il connubio perfetto: le musa ispiratrici intorno alla quale ruotava la performance.

E OGGI?    

Ma facciamo ancora un passo in avanti ricordando ad esempio la danza sportiva, le danze caraibiche latino americane, il jazz o più recentemente hip hop, break dance, la disco o la Urban dance che si riferisce a performance che danno origine a esibizioni fortemente coreografiche in spazi pubblici. 

La più famosa rappresentazione è della break dance nata nel Bronx intorno al 1975 ad opera dei giovani afroamericani che venivano emarginati dalla società.  Qui si entra in contatto diretto con lo spettatore ed è ormai diffusa in tutto il mondo con esibizioni sempre più spettacolari e quasi a diventare uno stile di vita. 

Particolare attenzione va forse rivolta alla musica latino americana con movimenti pittoreschi, taglienti e sessualmente coinvolgenti come samba, rumba, tango, paso doble o l’innovativa Kizomba che combina elementi della Samba con stili musicali derivati dalle Isole caraibiche francesi.

Queste danze sono un trionfo di bellezza e sensualità. Nel tango, ad esempio, sguardo e movimenti del corpo ipnotizzano e rendono palpabile l’alchimia che affascina i ballerini e chiunque ne ammiri la coreografia o semplicemente l’esibizione.

CORPO, AMORE, SANTI E MENTE

Quindi per ritornare all’incipit di questa divagazione sulla danza possiamo dire che è la forma d’arte che più si accosta all’assoluto, al Divino capace di abbattere i confini spazio temporali regalando attimi di eternità ed unendo l’anima esecutrice e quella spettatrice attraverso bellezza e amore.

Sembra esserci un binomio inscindibile tra danza e amore. A questa alleanza è stata dedicata anche una giornata mondiale, il 29 aprile, nell’intento di mettere insieme bellezza e amore che possono salvare al mondo. 

Ma prendiamo a prestito pure i santi. Sant’Agostino per esempio diceva “lodo la danza perché libera l’uomo dalla pesantezza delle cose e lega l’individuo alla comunità punto. Lodo la danza che richiede tutto, favorisce la salute e la chiarezza di spirito eleva l’anima”. 

Ed è certamente vero perché la danza è il connubio tra mente e corpo che dobbiamo sempre più coltivare. Il ballo può essere quindi uno strumento di esplorazione, indagine e comprensione del nostro mondo interno. 

Sempre per scomodare i saggi, nel 2017 uno studio ha dimostrato che chi esegue un programma di apprendimento di danza, aumenta in modo significativo la materia grigia fattore di crescita neuronale e il volume della regione dell’ippocampo. 

Quindi, secondo questo studio, danza e sviluppo del cervello sono fortemente interconnessi. Ma il movimento non propriamente inteso come danza produce cambiamenti nel cervello e viceversa. 

Leggendo il corpo si può risalire allo stato emotivo. Per chi sa leggere questi movimenti si possono riconoscere emozioni e i comportamenti illuminano il pensiero e lo traducono. Un esempio per tutti: quando un atleta vince una competizione, esulta in generale alzando le braccia al cielo godendo così di un momento magico mentre la classica postura di sconfitta si esprime con schiena curva che chiude il corpo. 

Qualcuno obietterà che tutto questo non c’entri nulla con la danza. Niente di più falso ed è stato dimostrato anche scientificamente: la danza può aiutare il corpo a comunicare con il cervello e gli effetti di questo connubio possono essere utili a implementare lo sviluppo intellettivo a proteggere, rallentare e migliorare le condizioni cognitive in alcune patologie degenerative (lo dicono i saggi). 

L’ANIMA DANZA? 

Ma c’è un’altra lettura olistica della danza chiamata Anima che avanza dove le braccia si muovono in maniera completamente indipendente dalla volontà del suo proprietario e sono loro che sentono le forze che lo avviluppano andando a caccia di nuove sensazioni. 

Non sono io a dirlo ma cito: “il corpo tutto si fonde con la musica e quando questo accade l’anima si accende e si connette con la fonte, con il tutto, con il divino. Comunque ti piaccia chiamarlo.”

In sostanza, secondo questa visione, i molti che animano la stanza in cui ci “esibiamo” non urtano da nessuna parte, arrivano vicinissimi a pareti, mobili ad altri che sono in compagnia ma non vanno mai a sbattere, non inciampano, non credono che quanto sembra che stia per accadere, all’ultimo istante il corpo scarta l’ostacolo e si rimette in equilibrio. Noi non vediamo ma lui quando siamo connessi vede per noi. 

Sempre secondo questa lettura ci sentiamo come se avessimo 4 anni e insieme quaranta anni. E insieme quattro secoli o millenni; ci sentiamo come se esistessimo da sempre e per sempre presenti in ogni istante del tempo. 

È l’anima che danza baby! E le virgolette danzano nella mente che non è un termine tecnico, specifico, rituale in un campo particolare come la danza ma può essere interpretata in diversi modi in base al contesto.  Generalmente si riferisce a un’esperienza di movimento mentale spesso associata alla creatività all’immaginazione alla consapevolezza e al flusso di pensieri.

NEUROSCIENZA E DANZA: UN’ ALTRA VISIONE

È una possibilità bella e seducente che può farci comprendere la dimensione dell’umanità per scoprire come da una sillaba nasca il suono guidata dal battito del cuore di una madre e le architetture nervose di un nuovo piccolo cervello lo condurrà fino alla gerarchia di valori dell’essere umano.

Un risultato scientifico della neuroscienza è che il rapporto tra significante e significato è il medesimo in qualsiasi lingua: ogni parola stimola le stesse aree cerebrali e l’incontro inaspettato della voce dell’arte e della poesia nel recinto della scienza, diventa una danza quindi di parole e semantica di un progetto che danza con le parole. 

Un sogno della scienza lungo come dodici volte la distanza tra la terra e luna. Perché ballare, danzare, muoversi anche in maniera scoordinata, al ritmo della vita è il meglio che possiamo fare. Se usiamo anche il cervello. Il ballo del qua-qua è un’altra cosa.

Non lo dico certo solo io ma lo ricordo.  Volentieri. 

Può essere? why not. 

L’ARTE È AZIONE. PAROLA DI PREDA

È dai primi anni del secondo decennio del XXI secolo che il mondo si confronta con esercizi di geopolitica che a volte sembrano fantapolitica.

Pandemie, guerre più o meno dichiarate, genocidi reali ma non dichiarati, mandati di cattura internazionale nei confronti di criminali di guerra mai eseguiti, caduta verticale della percezione di sicurezza, organi di rappresentanza collettiva incapaci di far rispettare le regole che loro stessi hanno dettato.

In questo terribile, ma autentico baillame, l’arte ha o deve ricavarsi un ruolo che la possa proiettare verso un palcoscenico di autenticità sociale.

Preda ritorna con una nuova serie che riflette sul rapporto contraddittorio tra soggetti e situazioni e sfrutta l’ironia per svelare le incongruenze del presente d’oggi. 

ARTE E FILOSOFIA.

Socrate diceva che l’ironia è “l’arte di fare domande” e come tale è uno strumento unico che permette agli uomini di avere uno sguardo più lucido e disincantato sulla realtà poiché è in grado di svelare anomalie e contraddizioni. L’arte è questo, pena la sua estinzione! 

Già il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (2016) individuava una possibilità di salvezza dell’arte esercitando un “destino ironico” e descriveva le nuove correnti artistiche come “un fenomeno di indole equivoca perché equivoci sono tutti i grandi fatti di questi anni in corso “. 

REALTÀ ED APPARENZA. 

Ma già agli inizi del XIX secolo qualcuno aveva dichiarato che l’ironia è la più alta categoria estetica ed aveva eletto il poeta moderno come l’ironista per eccellenza. Quest’ultimo infatti dopo aver sottoposto ad una attenta critica i materiali tradizionali prodotti (oggi frutto di un consumismo sfrenato) li utilizza e li trasforma radicalmente conducendo l’arte verso l’indistinzione fra apparenza e verità fra il serio e lo scherzoso. 

Nel suo perenne tentativo di creazione di un orizzonte reale, l’arte non si libera del suo concetto di verità ma questa viene semplicemente trasferita in un altrove cui si risale non già perché sia possibile raggiungerla ma perché il risalimento è compito fine a se stesso.

Ed è per questo che le persone che si rifiutano di riconoscere nella farsa l’essenziale vocazione dell’arte, sconcerta maggiormente la loro sensibilità. 

PREDA E LE NUOVE CONSAPEVOLEZZE

Spunto per queste riflessioni è la nuova serie di Preda che esercita un confronto fra opere di artisti famosi che hanno avuto felice accesso all’ironia e al sarcasmo messi a confronto con le sue realizzazioni che richiamano comunque l’originale di quell’artista. 

Così scomodiamo inizialmente Piero Manzoni, Arturo Carmassi, Neri Pozza giusto per iniziare. 

L’IRONIA DI PREDA 

Sia chiaro, nessun intento dissacratorio nei confronti di questi Maestri che sono e restano grandi ispiratori e i protagonisti del mercato, ma semplicemente la voglia di ironizzare giocando il ruolo del confronto fra le varie anime degli artisti che di volta in volta verranno presi come esempio di Alta arte messa a confronto con l’opera di Preda che ha il solo scopo di recuperare i valori degli autori originali riconoscendo il ruolo che hanno e continuano ad avere nel panorama artistico internazionale. 

Così come, per esempio, abbiamo sacrificato una autentica “Merda d’artista” di Piero Manzoni (n. 89 editata dalla Fondazione nel 2013 in occasione del 50° anniversario della morte), per passare ad un collage “BandPataBitte” opera autentica del Maestro Arturo Carmassi (archivio numero 0013/2015) e poi ad un altro collage, produzione poco nota, di Neri Pozza, incisore, scrittore, editore la cui opera più rappresentativa e nota è stata certamente quella dell’incisione. 

IL VALORE DELLE OPERE D’ARTE. 

Nulla togliamo al loro valore, alla loro impronta artistica, alla loro quotazione di mercato e alla simbologia che hanno rappresentato e che continuano a rappresentare. Perché sono tre Maestri indiscussi e particolarmente rappresentativi sul fronte dell’ironia e del sarcasmo con i loro trascorsi artistici ben definiti.  

Per ognuno di loro, è ben impressa la volontà di usare le armi proprie dello humor, muovendosi sul registro del grottesco e della caricatura. Così facendo invece viene delegittimata l’arte intesa come oggetto di mercato e quindi come semplice valore capitalistico. 

IO E PIERO (MANZONI). PROVOCAZIONE DI PREDA

Chi più irriverente di lui all’inizio del XX secolo. Sottratto alla vita troppo giovane, (aveva trent’anni) , dall’inizio della sua attività artistica fino alla sua morte ha saputo ricordarci quanto effimera sia l’esistenza e vuoto il nostro cammino. 

Meglio una forte ironia come ha potuto esprimere Arturo. Ma ancora più ironica sembra la caricatura di Preda che scaturisce dal confronto. “Cibo” e “Merda” hanno la stessa matrice

I TABÙ NELL’ARTE.

Rompiamo ancora più pesantemente e, speriamo, definitivamente il rapporto fra opera, firma, valore intervenendo su un’operazione artistica che di per sé è mistificatoria. 

LA PRODUZIONE IRONICA DI PREDA

Qui presentiamo inizialmente due opere per ogni artista sopra citato messe a confronto, consapevolmente diverse in termini temporali, di valore e con autori ovviamente diversi ma unite da un forte senso di irriverenza e sarcasmo. In tutti i casi sembra prevalere l’ironia. 

DISNEY E TOPOLINO. 

Epoche diverse, uguali nei confronti di un mondo consumistico dove gli oggetti dell’attenzione sono inizialmente i lettori più piccoli, i più esposti, manovrati inconsapevolmente dalla grande editoria e dal pensiero dominante di allora (anche di ora?).

DISNEY E LA RICCHEZZA

Disney imperava, Disney era il ricco zio d’America, Disneyland era il parco giochi più grande del mondo, era la ricchezza, il benessere! Per definizione. 

Ma se ci fermiamo su quello che è rappresentato dalle icone di Paperino, Pluto e soprattutto Paperone che popolano le superfici delle due opere, nulla ci sembra che sia cambiato e che in qualche maniera faccia riferimento ad un vissuto diverso: un distacco temporale così ampio non cambia il ritmo. 

ARTE E MERCIFICAZIONE.

La stessa mercificazione, spesso inconsapevole, attenta solo al lato estetico, induce a leggere solo questo conosciuto dimenticandosi di rappresentare lo stesso grido di facciata. 

IO E ARTURO.

Arturo Carmassi ha passato diverse fasi artistiche. Inquieto sperimentatore, utilizzatore di molti materiali, di molte tecniche, di molti linguaggi ma mai fini a se stessi. In questo c’è una comunanza non casuale tra Preda e Carmassi.

Nulla di irriverente da parte dell’autore contemporaneo ma un desiderio sfrenato di verità e di confronto con un mondo che cambia solo di facciata. È impossibile non appartenere a questo girotondo curioso e inquietante e non approfondire con uno sguardo critico e profondamente preoccupato rispetto al quadro dell’oggi che stiamo solo subendo. 

AGIRE AL DI LÀ DELL’ARTE. L’IMPERATIVO IMPERANTE.

Ma l’arte ha bisogno di relazioni forti, intense, adulte. Se ci giriamo attorno non vediamo nulla di tutto questo. Meglio iniziare, meglio non far finta di niente. La storia ce lo insegna. Prima o dopo dovremo agire e prendere posizione. Meglio farlo ora. La vita, la nostra, non è una copia. È il nostro originale. Vissuto minuto per minuto con una visione univoca ed indipendente. Tutti possiamo, dobbiamo, essere artisti di noi stessi.

AI E SCRITTURA: IL MITO DEI RILEVATORI DI AI E L’IMPATTO SULL’ISTRUZIONE

Scopri perché i software di rilevamento AI falliscono nel distinguere testi umani da quelli generati da intelligenze artificiali. Un’analisi che rivoluziona il dibattito su educazione e professionalità.

Scopri perché i software di rilevamento AI falliscono nel distinguere testi umani da quelli generati da AI. Un’analisi che rivoluziona il dibattito su educazione e professionalità.

IL FALSO MITO DEI SOFTWARE DI DETECTION: PERCHÉ L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NON È IL SOLO NEMICO

Da due anni, il panico sull’uso immorale di Chat GPT negli ambienti accademici e professionali ha raggiunto picchi d’isteria che sfociano nel tragicomico.

Insegnanti denunciano il “plagio digitale”, gli editori temono l’apocalisse della creatività umana e i media dipingono scenari da distopia alla Terminator.

Ma cosa succede quando gli strumenti progettati per “smascherare” l’AI diventano complici di un’illusione?

I TEST CHE SMONTANO L’AFFIDABILITÀ: QUANDO L’UMANO DIVENTA MACCHINA

Di recente, mi è capitato di leggere il post di un utente di Linkedin che raccontava di aver sottoposto al vaglio di diversi strumenti di rilevazioni di testi generati da AI alcuni articoli della Costituzione americana.

Ebbene, secondo i più conosciuti software “detective” di testi generati da intelligenza artificiale, anche la Costituzione americana è scritta da Chat Gpt.

Qualche dubbio sul funzionamento di questi strumenti l’avevo anche prima, ma ho voluto cimentarmi in un ulteriore esperimento.

Ho sottoposto a una decina di software di detection un articolo generato da AI, due miei pezzi scritti e caricati sul mio blog personale nel 2018 e nel 2019, alcune critiche d’arte che ho redatto tra il 2018 e il 2024.

Risultato?

Tutti i testi sono stati etichettati come “parzialmente o totalmente generati da AI”. Persino quelli scritti quando ChatGPT era fantascienza.

Perciò, posso definirmi un’intelligenza artificiale?

No, ovviamente.

La verità è che non esiste nessuna possibilità reale di verificare se un testo ben scritto e ben strutturato sia generato da AI o da un umano.

E i software che millantano di comprenderlo, in realtà sembrano più strumenti per raccattare soldi a destra e a manca, con la scusa di saper umanizzare testi generati da AI.

Perché lo schema è il solito: ti mostro un problema e ti offro la soluzione per risolverlo. Ma se non ti dimostro che il tuo testo ha un problema, come faccio a chiederti soldi per risolverlo?

Ma perché non esiste una vera, autentica e reale possibilità di scoprire se un testo è umano o di una AI, se scritto in maniera impeccabile?

Perché gli algoritmi cercano argomenti di alta cultura, sintassi complessa, lessico aulico, strutture logiche impeccabili. Ma questo non è il segno dell’AI, ma la firma di una persona acculturata che sa scrivere bene.

Professionisti della comunicazione, accademici di varie materie, giornalisti, critici d’arte… tutti condividono un determinato codice stilistico, a seconda dei diversi contesti, che l’AI ha semplicemente imparato a copiare e a replicare.

IL PARADOSSO DELL’ECCELLENZA: PIÙ SEI BRAVO, PIÙ SEMBRI UN ALGORITMO

Ecco il cortocircuito epistemologico.

L’AI non crea niente di nuovo, ma imita.

E non imita chi è sgrammaticato, chi non sa usare la sintassi più opportuna o chi non sa come si struttura un testo per la SEO, ma, al contrario, proprio chi padroneggia l’arte della scrittura efficace.

Quella con ganci narrativi accattivanti, ritmo controllato, terminologia precisa e adeguata al contesto. Quella con cui si strutturano testi perfetti per un blog, un social, una critica, una lezione…

Dunque, più un testo è ben scritto e, soprattutto, strutturato in maniera eccellente, più è probabile che i software lo identifichino come “sospetto”.

Un docente che usa termini ricercati sembrerà utilizzare AI. Così un giornalista che strutturi un articolo in modo impeccabile o un critico d’arte che analizzi un’opera con lessico tecnico.

Persino un bellissimo articolo su questo tema, scritto da una docente dell’Università degli Studi di Torino, la Prof.ssa Carmelina Maurizio, risulta scritto in parte da AI, secondo questi software, come dimostra l’immagine sottostante.

Ovviamente, da parte mia non c’è il minimo dubbio: sono convinto che la Prof.ssa abbia scritto l’articolo senza ausilio dell’AI, ma l’evidenza dimostra perché non va tenuta in considerazione quanto stabilito da questi software.

LA TRAPPOLA PER GLI INSEGNANTI: PERCHÉ I COMPITI SCRITTI SONO INUTILI

Assegnare temi o saggi da sviluppare a casa è diventato un esercizio inutile.

I detection tool non distinguono tra uno studente brillante e una macchina, perciò rischiano di penalizzare proprio chi eccelle.

Quindi, la soluzione è tornare a interrogare oralmente i ragazzi. Magari con domande mirate a ogni lezione.

Interrogazioni a sorpresa, discussioni critiche in aula, verifiche scritte, ma solo in classe, che testino la capacità di rielaborare concetti in tempo reale.

Solo così si misura la preparazione autentica degli studenti.

PROFESSIONISTI DEL FUTURO: LA CRISI DI FIDUCIA CHE NESSUNO VUOLE AMMETTERE

Per chi scrive per lavoro, il dilemma è ancora più amaro.

Prima del 2023, la qualità era un certificato di autenticità. Perciò chi scrive e opera lavora da anni, ha già ampiamente dimostrato professionalità e capacità.

Purtroppo, non si può dire altrettanto per chi è uscito dopo. Perché qualsiasi testo impeccabile è sotto scrutinio: “L’hai scritto tu o ChatGPT? Dai, dì la verità!”

Chi è entrato nel mercato post-rivoluzione AI affronta un muro di scetticismo ingiusto, talvolta sgradevole, ma dettato dal clima di sfiducia che le intelligenze artificiali hanno alimentato.

E spesso, anche per chi come me lavora e scrive da anni, è difficile distinguere un giovane capace a scrivere e competente in ciò di cui tratta, dal ciarlatano la cui unica capacità è saper usare le AI.

ABBATTERE I PREGIUDIZI, COSTRUIRE NUOVE PRATICHE

Il problema non è l’AI, ma la nostra ossessione per il controllo.

Invece di demonizzare la tecnologia, dovremmo ridefinire cosa significhi “autenticità” nell’era digitale.

Agli insegnanti, per esempio, consiglio di smettete di cercare fantasmi e di interrogare ogni giorno gli studenti.

Ai professionisti, suggerisco di rivendicare la loro voce, anche se sembra sovrapporsi a quella di una macchina.

Infine, ricordo a tutti che l’eccellenza umana è caos, imperfezione, passione, sentimenti, memoria, vissuto… e quella scintilla imprevedibile che nessuna AI potrà mai replicare.

Articolo scritto da un umano.

Condividi questo articolo se credi che la vera intelligenza sia quella che non ha paura di confrontarsi con le macchine e tagga un insegnante o un professionista della comunicazione.

Il futuro della scrittura è una sfida che possiamo vincere. Insieme.

MASSIMILIANO CALDARONE, MAESTRO VETRAIO E ARTISTA DI LUCI

«La mia religione è la creatività. Il mio Dio si chiama amore.»

È così che l’artista del vetro Massimiliano Caldarone identifica il suo percorso nel mondo che trasforma un materiale inerte in opere liquide.

La trasformazione avviene poi quando il processo creativo legge l’introspezione dell’uomo e la meditazione libera la mente per creare nuove situazioni spesso emblematiche dell’animo umano.

È un confronto perenne con la vita vissuta e con gli elementi della natura come l’acqua, il fuoco, l’aria, dove tutto si unisce alla ricerca di un equilibrio dettato dall’anima e dal contrasto delle condizioni di precarietà della vita. 

Lavorare il vetro è una forma esistenziale di meditazione, con uno sguardo rivolto al presente dove odio e disinteresse sembrano dominare il mondo e la parola dominante sembra essere “violenza”. 

Quella degli scontri quotidiani, dell’invadenza dei Giga, quella delle paure, degli estremi dell’animo umano.

Caldarone la contrasta inserendo la natura come fonte di ispirazione. 

D’altra parte Venezia, città dove lavora, non può che essere di aiuto con le sue false realtà e il suo immaginario che poi diventa reale e ricchissimo di storia quando te ne appropri.

MASSIMILIANO CALDARONE, UNA VITA, UNA SCOMMESSA, UNA VISIONE ARTISTICA

Per essere indipendente come artista, devi ragionare e tenerti distante dalle facili lusinghe. Ma arrivare fin qui per Caldarone non è stato facile; c’è voluto del tempo per maturare una decisione così drastica. 

Abbandonando gli ozi delle Canarie e ritornando a Venezia, dopo infelici esperienze professionali che non lo avevano aiutato ad apprendere la difficile arte vetraria, decide di ritornare e nel maggio del 2013 se ne innamora.

Il vetro è come una bellissima favola. Il vetro è come la vita: duro e plasmabile, colorato e ammaliante, morbido. Ma non ti concede distrazioni.

Lavorare a 900° ti costringe ad essere sempre estremamente attento. È la tua forma di meditazione. Il fuoco e l’acqua, l’eterno dilemma esistenziale che distrugge e ricrea, e ti costringe a restare nel gioco delle parti per vincere la sfida.

Ed è come nella vita: devi essere assolutamente concentrato per non farti travolgere; devi sapere dove stai andando.

O, almeno, devi immaginare quale potrebbe essere il tuo punto di approdo.

Poi è bello lasciarsi andare. In questo senso Venezia è magica e ti regala ispirazioni e letture inimmaginabili.

Basta alzare gli occhi e guardare gli scorci o il cielo che fa capolino tra i campanili delle mille chiese.

Con il vetro puoi immaginare tutte le forme e i racconti che vuoi e la tua capacità di appropriarti degli elementi che tu senti, sono nelle tue mani e negli elementi che maneggi con maestria senza nessuna indulgenza alla retorica.

MAESTRO DEL VETRO, MAESTRO DI UNO STILE DI VITA

Uno dei grandi vantaggi che il maestro ha è quello di incontrare nella sua bottega un pubblico multietnico, molti linguistico, multiculturale, ognuno con le proprie passioni e la maniera di vedere quello che stai creando immaginandosi un proprio percorso di lettura.

Il Maestro ha in mente le sue creazioni e si ispira con toccate rapide di bacchette che partecipano alle dimostrazioni davanti al pubblico per farti capire che non sei di fronte ad uno che produce Swarovski, ma sogni impalpabili realizzati con il vortice delle mani e i racconti della mente.

Caldarone incanta perché regala racconti che bisogna saper leggere.

Magari non subito, ma il vetro plasmato ti dà il tempo per lasciarti raccontare la sua favola con la sua tridimensionalità.

Le sue opere ti danno questa opportunità: pensare che siano vive, immaginare che partecipino al tuo essere e che ti accompagnino nella tua vita per ricordare la tua capacità di inventare e di realizzare i tuoi sogni. Se nelle opere di Calderone riesci a leggerci l’anima del Maestro, sei arrivato al contatto con la verità.