SE LA DEMOCRAZIA MUORE DI CONSENSO COATTO

Il Vecchio Continente non ha più l’immagine della culla del diritto e del libero pensiero, ma quella di un’entità politica smarrita.

La Commissione von der Leyen ha deciso di puntare tutto sul collasso della Federazione Russa, una mossa che non tiene conto della situazione geopolitica mondiale né della situazione economica e strutturale della Russia.

Industria di guerra, materie prime infinite, banca centrale e moneta propria sono condizioni per cui, prima di fallire, ne devono passare di capodanni. Nel mentre, diversi paesi europei sono alla frutta e i loro cittadini e le imprese sono strozzati dal caro vita e dal costo dell’energia alle stelle.

Non si tratta più soltanto di una contrapposizione militare con Mosca, ma di un progressivo scollamento dagli stessi interessi strategici degli Stati Uniti, in un gioco di specchi dove l’Europa rischia di rimanere l’unica a pagare il conto di una visione geopolitica cristallizzata.

La strategia ricalca errori già commessi, reiterati con una irrazionalità tragicomica, quasi che l’ammissione di un fallimento potesse far crollare l’intera architettura burocratica di Bruxelles.

LA FABBRICA DEL CONSENSO

L’apparato mediatico occidentale ha smesso di essere il cane da guardia della democrazia per trasformarsi in un megafono acritico di narrazioni prefabbricate, come ho spiegato nel mio libro La Fabbrica della Paura.

Moltissimi giornalisti, anziché informare e fare inchieste su chi comanda, sono diventati leccapiedi del potere e loro portavoce, dispensando fake news e propaganda pur di avallare ogni scelta.

Siamo immersi in una “disinformazione di ritorno” che scivola nel grottesco.

Quando leggiamo di soldati russi ridotti al cannibalismo per fame o di droni abbattuti da canti popolari, assistiamo alla morte dell’intelligenza.

Senza dimenticare i soldati russi armati solo di pale dell’800, mandati a morire al ritmo di 1000 al giorno, cioè oltre un milione di morti dal 2022 a oggi.

Calcolando che l’intero esercito russo contava, nel 2022, 1.250.000 uomini, risulta chiaro il livello della sciocchezza veicolata come notizia attendibile.

E senza dimenticare i “microchip smontati dalle lavastoviglie per armare droni, carri armati e missili.” Anche qui, basterebbe andare a vedere quanti milioni di dollari spendono gli americani in Ricerca e Sviluppo per il settore della Difesa, per rendersi conto della castroneria spacciata per verità.

Queste non sono notizie, ma veline psicologiche destinate a un’opinione pubblica che si vuole, in primo luogo, fortemente ignorante, poi anestetizzata e incapace di distinguere il fatto dalla caricatura.

La demonizzazione dell’avversario ha raggiunto vette tali da ignorare persino la logica elementare e la demenzialità è diventata la nuova normalità.

È la parabola dei lupi russi che mangiano solo renne finlandesi: una narrazione che tratta il cittadino come un cretino, come il destinatario di una fiaba macabra invece che come il sovrano di un sistema democratico.

Eppure, questa deriva non è ridicola, ma pericolosa, perché quando il giornalismo abdica al suo ruolo di verifica, la verità diventa un accessorio inutile, persino fastidiosa per la propaganda.

IL GRIDO NEL DESERTO: LA SOLITUDINE DEL DISSENSO

In questo scenario di fervore bellicista, persino la figura del Pontefice risulta un’anomalia fastidiosa, un granello di sabbia negli ingranaggi della macchina da guerra.

Papa Leone XIV è stato vittima di un processo di marginalizzazione mediatica senza precedenti. Chi oggi osa invocare il disarmo o la via diplomatica non viene confutato con argomenti, ma espulso dal discorso pubblico attraverso l’arma del ridicolo o l’accusa infamante di collaborazionismo.

Definire “filo-russo” un Papa che cerca di fermare un massacro è il sintomo di una patologia sociale profonda. È la dimostrazione che il mainstream non accetta più zone grigie, né istanze morali che non siano funzionali all’escalation. La pace è diventata una parola sovversiva per i leader della guerra.

IL MIRAGGIO ECONOMICO E IL FALLIMENTO DELLE PROFEZIE

Osserviamo con costernazione la discrepanza tra i dati reali e le promesse di collasso imminente che ci sono state somministrate negli ultimi quattro anni.

Ci avevano assicurato che il rublo sarebbe diventato carta straccia, che l’economia di Mosca sarebbe implosa sotto il peso del primo pacchetto di sanzioni dagli effetti dirompenti, (Siamo arrivati a 19 pacchetti, da allora, e la Russia, non solo è ancora in piedi, ma adesso pare in grado di invadere l’Europa).

Che il peso del nostro pacchetto di sanzioni lo aveva assicurato, a maggio 2022, l’allora premier italiano, Mario Draghi, che aveva annunciato che “le sanzioni imposte alla Russia hanno avuto effetti dirompenti, ma il momento di massimo impatto di tutte le sanzioni fin qui approvate nei confronti della Russia sarà da questa estate in poi”.

Nel 2022, il Pil russo calò del 2,1%, meno di quanto fosse stato pronosticato. Addirittura, nel 2023 lo stesso Pil russo crebbe del 3,6% (più di quello Usa e di quello Ue).

L’anno scorso è cresciuto del 4,3% e nel 2025 tra lo 0,6 e l’1%.

Qualcuno potrebbe dire che nel 2025 il PIL russo ha subito un rallentamento fortissimo, ma il PIL dell’Italia, Paese non in guerra e non sanzionato, dovrebbe essere dello 0,5% secondo le stime Istat o dell’1,6% secondo quelle Bce.

Ci avevano assicurato che Putin avrebbe finito i missili in poche settimane e che fosse in fin di vita per ben quattro tipologie di cancro diverse.

I fatti, però, raccontano una storia diversa: una Russia che cresce più della zona euro, che diversifica i propri mercati e che mantiene una stabilità interna che i nostri leader avevano escluso categoricamente.

Federico Fubini ha più volte suonato il de profundis per una moneta russa che invece ha mostrato una capacità di resistere inaspettata.

Sbagliare una previsione è umano, e ci mancherebbe, ma trasformare l’errore in un dogma e perseguitare chi lo aveva previsto è, invece, il segnale di una deriva autoritaria. Significa vivere nel mondo dispotico di 1984 di Orwell.

IL MINISTERO DELLA VERITÀ E IL CASO JACQUES BAUD

Il punto di non ritorno è stato superato con la persecuzione amministrativa del dissenso scientifico e analitico. Dopo i casi Nunziati e Baldan, di cui abbiamo già discusso e sui quali trovate gli articolo in calce, il caso di Jacques Baud, ex colonnello dell’intelligence svizzera, è un monito agghiacciante per tutti.

Quando l’Unione Europea ha deciso di congelare i beni e limitare la libertà di movimento di un analista perché le sue tesi sono “non conformi”, siamo entrati ufficialmente nell’era dell’illiberalismo burocratico.

Una cosa che non accade a Pechino o a Mosca, ma in Europa.

E non è stato un tribunale a condannarlo, ma un ufficio politico.

Questo è il metodo Orwell applicato alla realtà: se non puoi confutare l’analisi, distruggi l’analista.

La libertà di parola in Europa non è più un diritto inalienabile, ma una concessione condizionata all’allineamento con i desiderata di Kaja Kallas e dei vertici di Bruxelles. È il principio del “colpirne uno per educarne cento”, un’eredità dei regimi totalitari che pensavamo di aver consegnato alla storia.

Di fatto, siamo entrati in una dittatura, perché quanto sta accadendo non ha alcun fondamento giuridico.

L’UCRAINIZZAZIONE DELL’EUROPA: IL PARADOSSO DEI VALORI

Stiamo assistendo a un fenomeno sociologico inquietante: per difendere la democrazia ucraina, l’Europa sta adottando i tratti meno democratici di quel sistema.

La messa fuori legge di undici partiti di opposizione, la cancellazione della lingua russa, il rogo dei libri e la glorificazione di figure storiche controverse come Bandera vengono accettati dall’UE senza battere ciglio.

Al contempo, sugli intellettuali europei si adotta un clima da caccia alle streghe.

Il caso di alcune dimissioni dal comitato scientifico di Limes, volte a colpire l’indipendenza di Lucio Caracciolo, è la prova che la pressione per il conformismo sta soffocando anche le voci più autorevoli e storicamente bilanciate.

È tutto già visto, durante il Ventennio. Lo stiamo vivendo di nuovo. E, come allora, chiunque lo denunci viene deriso, se non emarginato a sua volta.

UNA PAURA REALE PER UN FUTURO OPACO

Quello che mi spaventa non è solo la guerra ai confini, ma la guerra interna che stiamo conducendo contro la nostra stessa identità liberale.

Se la libertà di pensiero viene sacrificata sull’altare della sicurezza o della “vittoria a ogni costo”, cosa resterà dell’Europa quando i cannoni taceranno?

Il rischio è di trovarci in un continente impoverito, non solo economicamente, ma moralmente, dove il dubbio è un reato e l’analisi critica è considerata tradimento.

La gestione della comunicazione in questo conflitto ha creato un precedente pericolosissimo: abbiamo legittimato la censura come strumento di politica estera.

Come studioso e come cittadino, sento il peso di un’oppressione che si fa sottile, burocratica, pervasiva, perniciosa.

Stiamo costruendo un muro che non è fatto di mattoni e filo spinato, ma di pregiudizi e silenzi obbligati con la forza.

Se non recuperiamo la capacità di guardare alla realtà per quella che è, senza il filtro deformante della propaganda, l’eclissi della ragione in Europa diventerà una notte perenne, dalla quale sarà difficile risvegliarsi.

IL PARADOSSO DI UNA PACE CHE NON VUOLE FINIRE

La guerra è l’unico mercato dove il fallimento dei venditori viene pagato con il sangue degli acquirenti.

Sarà brutale, ma è incontrovertibile.

Mentre le cancellerie europee si esercitano in una retorica sterile, fatta di “paci giuste” e “vittorie finali”, la realtà geografica e il diritto bellico vengono sistematicamente ignorati, come se il desiderio fosse una categoria della fisica nucleare.

Abbiamo trasformato il conflitto in un talk show permanente, dimenticando che dietro ogni pixel di una mappa che si sposta, c’è il terrore di morire di un diciottenne che non ha mai chiesto di essere un martire della geopolitica, che se ne frega di Zelensky, Putin, Macron e di Trump.

LA TRAPPOLA DELLA “PACE GIUSTA” E IL CIMITERO DEL REALISMO

Inseguiamo l’illusione di una “pace giusta”, senza capire che, storicamente, la pace è solo l’istantanea scattata al termine di un massacro. Fotografie in cui chi ha combattuto non compare mai, ma compaiono solo quelli che hanno parlato, magari seduti al tavolo di club esclusivi.

La pace non è un atto di giustizia distributiva, ma il riconoscimento di un nuovo equilibrio di forza.

Chi oggi invoca la giustizia assoluta come precondizione per il cessate il fuoco, in realtà, sta firmando la condanna a morte di migliaia di soldati. Se esistesse una pace giusta in assoluto, l’Italia dovrebbe rivendicare Nizza e la Savoia, o l’Istria e la Dalmazia.

Non lo facciamo perché sappiamo che i trattati sono scritti con la logica della sconfitta o della vittoria, non della morale.

Oggi, l’Occidente vive in uno stato di cortocircuito cognitivo patologico. Crediamo che fornire armi equivalga a fornire vita, mentre i dati dell’Institute for the Study of War descrivono una realtà diversa: un’inesorabile avanzata russa contro un eroico, ma disperato, arretramento ucraino.

È il paradosso di Kiev. Più cerchiamo di aiutare militarmente l’Ucraina senza un piano diplomatico, più la condanniamo a una forma di suicidio assistito. Stiamo dissanguando un popolo per non ammettere che la prima potenza nucleare del mondo, piaccia o meno, non può essere cancellata dalle mappe.

LA RETORICA DELLE CLASSI DIRIGENTI E L’EROSIONE DELLO “JUS IN BELLO”

Il dramma sociologico di questo tempo sta nella totale assenza di un’intenzione che non sia la guerra.

Secondo la tradizione filosofica e il diritto medievale, la guerra è giustificabile solo se la sua intenzione profonda è la costruzione di un trattato di pace. Ma come si può negoziare con uno “spettro” o con un “cadavere”?

Se l’obiettivo dichiarato è l’annientamento totale dell’avversario, la pace diventa logicamente impossibile. Non si firma un accordo con un nemico che si vuole eliminare fisicamente e politicamente.

Siamo finiti in una barbarie comunicativa dove lo “jus in bello”, il diritto nella guerra, è evaporato. Non ci sono più regole, solo sterminio. E la cosa più inquietante è che questa irrazionalità non appartiene alle masse, ma alle élite.

Quando i leader perdono il contatto con il principio di realtà, la catastrofe è inevitabile.

Come notava Tolstoj, il destino dei popoli è spesso nelle mani di sei o sette individui; se questi individui decidono di mettersi le dita nelle orecchie per non sentire il rumore della verità, il risultato è Guernica di Picasso.

Ovviamente, ciò che ha permesso a Picasso di realizzare quell’opera straordinaria nella sua poetica spiazzante.

IL PIANO TRUMP E L’IPOCRISIA EUROPEA: COMPRARE TEMPO CON LA VITA DEGLI ALTRI

L’Europa non ha una politica estera; ha solo una delega in bianco firmata a favore di Washington.

Compriamo gas americano a prezzi quadruplicati, acquistiamo armi americane per regalarle al fronte e subiamo i dazi di chi ci dovrebbe proteggerci.

La verità è che il cosiddetto “Piano Trump”, per quanto possa apparire cinico o “sporco”, è l’unico elemento di realismo rimasto sul tavolo. Prevede compromessi territoriali, rinunce alla NATO e il congelamento delle posizioni.

È un’offerta che Putin non può rifiutare, ma è anche l’unica che può salvare l’ottanta per cento dell’Ucraina che ancora resta in piedi.

Invece, le classi dirigenti europee preferiscono la propaganda. Parlano di “vittoria finale” perché ammettere la sconfitta significherebbe ammettere un errore strategico colossale. Preferiscono che gli ucraini continuino a morire per “prendere tempo”, come se il tempo fosse una risorsa infinita e non una clessidra riempita di vite umane.

È una forma di crudeltà burocratica: costringere un popolo a un’agonia prolungata per non dover affrontare il trauma di un compromesso necessario.

L’ESTREMO MONITO: VERSO UN NUOVO ESERCIZIO DELLA VIOLENZA LEGITTIMA

Se non recuperiamo la lucidità, il passo successivo sarà l’abisso.

Già oggi, la narrazione bellicista sta preparando il terreno per l’accettazione della violenza legittima degli Stati contro i propri cittadini.

Potrebbe sembrarci incredibile, ma siamo a un passo dal veder tornare la coscrizione obbligatoria, il momento in cui lo Stato ti impone di marciare verso un nemico che non ti riguarda per una causa che è stata decisa in un ufficio climatizzato di Bruxelles o di Washington.

Dobbiamo scegliere: o accettiamo la “pace sporca” dei realisti, o continuiamo a tifare per la “guerra pulita” degli ideologi, quella che si combatte sui social ma che si conclude nelle fosse comuni.

Il silenzio dei pacifisti è stato comprato con l’accusa di tradimento, mentre il rumore dei tamburi di guerra è l’unica colonna sonora ammessa.

Ma la storia non perdona chi scambia i propri desideri per la realtà. E la realtà, oggi, è un grido che squarcia il velo di ipocrisia di un Occidente che ha smesso di pensare per limitarsi a reagire.

È tempo di tornare alla “recta intentio”, cioè all’intenzione di giungere alla fine della guerra. È tempo di capire che un cattivo trattato è sempre, infinitamente meglio, di una qualsiasi guerra, anche di una guerra “giusta”. Perché non esistono guerre giuste. Solo guerre che uccidono migliaia di giovani innocenti. Sempre e comunque.

Torniamo a dare voce al pensiero, alla filosofia, alla maturità della diplomazia. Prima che il giovane mandato a morire sia tuo figlio.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL PESO DEL SANGUE SULL’ALTARE DI MAR-A-LAGO: SE IL 90% DI UNA PACE VALE IL SACRIFICIO DI UNA GENERAZIONE

Mentre le fronde delle palme di Mar-a-Lago oscillano pigramente sotto il sole della Florida, a migliaia di miglia di distanza il fango delle trincee del Donbass inghiotte l’ultimo respiro di giovani che non vedranno mai la primavera del 2026.

È un paradosso geografico e morale che definisce il nostro tempo: il destino di un popolo viene tracciato tra i marmi di un club esclusivo, mentre la realtà del fronte macina carne umana con la precisione di un orologio svizzero.

Volodymyr Zelensky è volato da Donald Trump con la postura di chi non ha più tempo per l’orgoglio, portando con sé un’Ucraina che, rispetto al 2022, è un organismo ferito, privato di milioni di suoi figli fuggiti altrove e segnato indelebilmente da centinaia di migliaia di giovani corpi spezzati, oggi prigionieri di una sedia a rotelle o di un trauma che nessuna diplomazia potrà mai curare.

Una forza lavoro che non c’è più, così come non ci sono più porzioni di territorio che nel 2022 c’erano ancora, quando il leader di Kiev fu spinto a combattere da Boris Johnson e i leader europei, al suono di «andate e combattete. Fino alla vittoria finale contro Mosca.»

L’ACCORDO POSSIBILE E L’OMBRA DI FEBBRAIO

Il linguaggio del potere è improvvisamente mutato.

Non si parla più di “vittoria totale”, ma di percentuali di fattibilità. Lo stesso Zelensky, al termine di un colloquio che ha il sapore di un’ultima chiamata, ha dichiarato che il piano di pace in venti punti è stato ormai «concordato al 90%», sottolineando come le «garanzie di sicurezza sono una pietra miliare fondamentale per il raggiungimento di una pace duratura».

È un’ammissione di realismo. Il 90% è una cifra che profuma di speranza, ma quel 10% mancante è un abisso fatto di terra, sovranità e orgoglio nazionale.

Donald Trump, con la sua consueta arroganza da negoziatore che non teme il conflitto, ha rilanciato con un ottimismo che sfida la logica del campo di battaglia: «Se le cose vanno bene potrebbero volerci un paio di settimane».

Eppure, la pace non è un contratto immobiliare, ma un processo che richiede il consenso di chi, a Mosca, continua a scommettere sul logoramento dell’Ucraina e dei paesi che la sostengono militarmente ed economicamente, visto che Kiev non ha più nemmeno i soldi per pagare la Pubblica Amministrazione, senza gli aiuti dell’Europa.

COSA RESTA DELL’UCRAINA?

Da un punto di vista sociologico, l’Ucraina odierna è un Paese profondamente diverso da quello che, nel febbraio 2022, stava per siglare accordi in Turchia.

Allora, i confini erano più ampi, le città erano popolate da una classe media in fermento e il futuro, seppur minacciato, appariva integro, con una classe politica legittimata e dotata di un peso specifico maggiore.

Oggi, Kiev si sta piegando sotto il peso degli scandali finanziari, milioni di ucraini sono fuggiti all’estero, altre migliaia hanno disertato, chilometri di territori non ci sono più e, ogni metro di terra riconquistato o perduto, viene pagato con un debito demografico che l’Ucraina piangerà per i prossimi cinquant’anni.

Mandare ventenni a morire per spostare una linea di confine di pochi chilometri, mentre la popolazione civile evapora verso l’Europa occidentale, è una strategia criminale e scellerata che non sta più in piedi.

L’economia della guerra ha i suoi ritmi, ma anche il grado di sopportazione di un popolo ha il suo.

È tempo di riconoscere che la diplomazia non è una resa, come, invece, hanno fatto credere i maestri della propaganda guerrafondaia, ma è l’unico atto di amore rimasto verso una gioventù che merita di costruire il futuro, non di essere sepolta.

IL REALISMO GELIDO DI KYRYLO BUDANOV

Mentre i politici cercano la foto perfetta, la mente dell’intelligence ucraina, Kyrylo Budanov, getta acqua gelida sui facili entusiasmi.

Per il capo del GRU, la guerra ha una sua inerzia cinetica che ignora le strette di mano in Florida.

Budanov individua in febbraio il «periodo più favorevole» per un accordo, non per una questione di buona volontà, ma per ragioni tattiche e climatiche. Tuttavia, il suo sguardo si spinge più in là, verso un 2026 che Mosca ha già pianificato a tavolino, prevedendo il reclutamento di altri 409mila uomini.

«Putin dice che la Russia avanza? Ma qual è il prezzo di questi progressi? Vi immaginate più o meno quanto costa un giorno di guerra? È costoso anche per gli standard della Russia», osserva Budanov con la freddezza di chi analizza un bilancio aziendale.

La Russia non si fermerà per bontà d’animo, ma per esaurimento. E l’Ucraina deve decidere se può permettersi di aspettare che quel momento arrivi, come vorrebbero i leader europei, per non perdere la faccia di fronte ai rispettivi elettori e sponsor.

EUROPA E USA: UNA CONVERGENZA NECESSARIA

Il ruolo dei “Volenterosi”, guidati da Emmanuel Macron e monitorati da Ursula von der Leyen, sarebbe quello di fornire lo scheletro alle garanzie di sicurezza che Trump ha promesso a Kiev.

La premier italiana Giorgia Meloni è stata netta nel richiamare la Russia alle sue responsabilità: «Spetta alla Russia dare prova di senso di responsabilità e apertura al negoziato».

Ma la verità è che il tavolo delle trattative è oggi un palcoscenico dove l’Europa cerca di non restare schiacciata tra l’isolazionismo potenziale di Washington e l’imperialismo muscolare di Mosca. Von der Leyen ha ribadito che servono «garanzie di sicurezza incondizionate sin dal primo giorno», perché una pace senza protezione è solo una tregua per permettere all’aggressore di ricaricare le armi.

Più o meno, lo stesso concetto ribadito da quattro anni anche da Mosca, che non vuole un cessate il fuoco che serva solo a Kiev e volenterosi per ricaricarsi.

IL DOVERE MORALE DELLA FINE

Non possiamo più permetterci il lusso di analisi geopolitiche distaccate.

Ogni ora spesa a limare quel 10% mancante dell’accordo è un’ora in cui un chirurgo a Kiev deve amputare un arto a un ragazzo che avrebbe dovuto essere all’università.

La politica internazionale deve smettere di essere un esercizio di posizionamento e tornare a essere l’arte di salvare esseri umani. Quanti più possibile.

Se l’incontro di Mar-a-Lago porterà davvero a un vertice a Washington in gennaio, quello dovrà essere il luogo in cui il pragmatismo economico di Trump e la necessità esistenziale di Zelensky percorreranno la via della responsabilità.

L’Ucraina ha già dato tutto ciò che poteva dare; chiederle di continuare a mandare a morire altri giovani per l’orgoglio e la scelleratezza dell’Occidente non è più una strategia, ma un crimine contro il futuro dell’Ucraina.

La pace non è solo l’assenza di bombe e lo stop a nuovi morti e nuovi mutilati, ma è soprattutto il ritorno alla possibilità di immaginare un domani che non sia scritto nel fango di una trincea.

Bisogna dare un seguito alle parole del Papa: «Fragili sono le menti e le vite dei giovani costretti alle armi, che proprio al fronte avvertono l’insensatezza di ciò che è loro richiesto e la menzogna di cui sono intrisi i roboanti discorsi di chi li manda a morire.»

Perché al fronte non ci sono “eroi” da copertina, ma ragazzi con la paura negli occhi, strappati ai loro sogni per diventare carne da macello in una guerra che non hanno scelto, ma che alti funzionari in giacca e cravatta e tailleur hanno voluto per propri interessi finanziari e geopolitici.

 Il grido del Papa non può e non deve restare un urlo solitario nel deserto.

La pace dà fastidio, inutile illuderci. Dà fastidio ai leader europei che, chiusi nei loro palazzi, continuano a soffiare sul fuoco del conflitto per interessi geopolitici e ciniche strategie di riarmo.

E dà fastidio ai giornalisti della propaganda, quelli per cui la guerra è ridotta ad “aggressore e aggredito” ancora oggi.

È facile parlare di “vittoria a ogni costo” quando il costo lo pagano i figli degli altri. È facile riempirsi la bocca di retorica mentre si mandano giovani vite a schiantarsi contro il muro della menzogna, mentre si sta comodi sul divano.

Ma è ora di fermarsi.

La pace non è una resa, è l’unico atto di coraggio e di saggezza rimasto per salvare ciò che resta dell’Ucraina.

Certamente, la pace è un crimine per chi ha puntato tutto sulla guerra, come i leader europei, e per chi tifa alla guerra dal divano di casa, dal calduccio dei talk show o dalle redazioni di chi ha veicolato fake su pale, muli e microchip.

E, proprio per questo, è l’unica cosa giusta da fare per tutti gli altri.

IL LABIRINTO DELLE VERITÀ, L’UCRAINA TRA MEMORIA DI SANGUE E TEATRO

Esiste un punto cieco nella visione geopolitica occidentale, una zona d’ombra dove la logica dei “buoni contro i cattivi” si sgretola contro il muro della storia.

Se vogliamo davvero comprendere l’abisso che separa Mosca da Kiev, non dobbiamo guardare solo i movimenti dei carri armati o le fluttuazioni del gas, ma dobbiamo scrutare dentro le ferite aperte di due popoli che ricordano l’orrore in modi diametralmente opposti.

Perché, in questo caso, la storia non è un libro di testo, ma un’arma che continua a sparare.

LA TRAPPOLA DELLA MEMORIA: QUANDO ENTRAMBI HANNO RAGIONE

Per comprendere il presente, bisogna scavare nelle macerie lasciate dal Novecento.

Nella memoria collettiva ucraina, l’evento fondamentale è l’Holodomor, la carestia che sterminò da 1,5 a 3,5 milioni di ucraini nelle zone rurali.

Gli storici non sono ancora concordi se fu dovuta alla rapida industrializzazione dell’URSS oppure se fu un’azione chirurgica di Stalin per eliminare il movimento indipendentista ucraino, ma sta di fatto che, per gli ucraini, milioni di contadini furono affamati metodicamente da Mosca per spezzare il sogno di un’identità nazionale.

Anche in questo caso, l’interpretazione del fatto è stata più brutale del fatto stesso.

Ed è questa interpretazione della carestia degli anni Trenta del secolo scorso che spiega perché, per un ucraino di oggi, la Russia non è un vicino, ma è l’aggressore esistenziale che ha già provato a cancellarli una volta.

Dall’altro lato del confine, la verità russa ha un sapore diverso, altrettanto amaro.

Per Mosca, il trauma supremo è l’invasione nazista. I russi non dimenticano che una parte della popolazione ucraina accolse la svastica come un vessillo di liberazione dal giogo sovietico, collaborando attivamente agli orrori della Shoah.

Quando il Cremlino parla di “denazificazione”, parla di una ferita ancora aperta, perché fa di tutti gli ucraini dei nazisti.

Due interpretazioni errate, o comunque forzate, di fatti realmente accaduti, spingono entrambi i popoli ad avere le loro ragioni.

Entrambi i popoli abitano stanze separate della stessa tragedia. Hanno entrambi ragione nei loro ricordi, ma quelle verità sono tossiche l’una per l’altra.

IL FANTASMA DELL’IMPERO E IL NODO DELLE MINORANZE

La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata, sociologicamente parlando, una compressione che ora sta esplodendo.

Per secoli, gli Zar prima e i Commissari poi hanno rimescolato i popoli come tessere di un mosaico.

Quando l’impero è crollato, i nuovi stati, dai Baltici alla Finlandia, fino alle repubbliche dell’Asia Centrale, hanno cercato di costruire la propria identità rimuovendo i segni del passato russo.

Ma nessuno si è posto il problema di che fine avrebbero fatto i milioni di russi etnici rimasti “dall’altra parte”.

Ed è proprio qui che nasce la radice della politica di Putin.

L’autocrate russo si muove su binari antichi: la missione di proteggere i russi fuori dai confini. È una visione che per noi appare obsoleta, quasi ottocentesca, ma che per la cultura politica russa è un imperativo morale e strategico. E se non riusciamo a comprenderlo, è una nostra mancanza, non russa.

È la stessa logica che portò l’Italia a morire per Trento e Trieste. Il problema è che questa protezione si trasforma inevitabilmente in invasione.

LA GUERRA SURREALE E IL FALLIMENTO DELL’INFORMAZIONE

Guardiamo al fronte di oggi, al caso quasi onirico di Kursk.

Un tempo, l’invasione del suolo russo avrebbe significato l’apocalisse nucleare in pochi minuti. Oggi, assistiamo a un’incursione gestita quasi come un evento che potremmo definire di marketing bellico, perché è miseramente fallita, nonostante l’evidente impiego di mezzi e uomini NATO, dall’inglese perfetto, ma qualcuno ne parla ancora come una grande conquista ucraina.

Se compariamo il conflitto ucraino con quello di Gaza, notiamo un dato sociologico spiazzante: il rapporto tra morti civili e militari in Ucraina è incredibilmente basso. È una guerra a “bassa intensità”, dove sembra esistere un limite non scritto che le parti temono di varcare.

Anche se la propaganda occidentale ha tentato di ridimensionare Gaza, per nascondere i crimini di Israele, e di esasperare la guerra in Ucraina per creare la paura del mostro russo, che serve a giustificare il riarmo e le politiche belliciste dei leader europei.

In tutto questo, il giornalismo moderno ha fallito.

Siamo inondati di dati, ma privi di comprensione.

A differenza della guerra del Kippur o delle Falkland, dove conoscevamo ogni movimento di brigata, oggi l’informazione è un muro di fumo denso oltre il quale si vede poco o nulla.

I mass media sono gestiti da figure prive di preparazione tecnica, spesso privi di lauree specifiche, incapaci di spiegare se un battaglione stia avanzando o stia semplicemente recitando una parte per i giornali di domani. Senza competenze storiche. Sappiamo tutto della superficie, nulla del nucleo.

Perché, come ho spiegato nel mio libro LA FABBRICA DELLA PAURA, oggi non interessa più informare, ma narrare ciò che serve al potere a cui si risponde.

L’UCRAINA COME GUERRA CIVILE POST-SOVIETICA

La tragedia finale è che questa, in fondo, è una guerra civile tra fratelli che hanno smesso di riconoscersi e hanno negato ogni tentativo di capirsi.

E la loro relazione è stata incancrenita dalle posizioni della NATO, che si è allargata sempre più a Est, e dai leader europei, che continuano a non ascoltare la voce dei milioni di ucraini che fuggono all’estero, si nascondono ai reclutatori e disertano.

Perché chi dice di voler aiutare gli ucraini non ha alcun interesse per ciò che pensano e vogliono davvero gli ucraini, ma perseguono interessi finanziari e geopolitici propri.

Quello dell’Ucraina è un territorio complesso. L’ovest, con Leopoli, non è mai stato russo. È stato austriaco, polacco, mitteleuropeo. La zona orientale, al contrario, è un “calderone” sovietico.

Putin ha scommesso sul fatto che i russi d’Ucraina lo avrebbero accolto come un liberatore, ma ha perso, in parte, la scommessa.

Perché trent’anni di indipendenza hanno creato qualcosa che Mosca non ha previsto, una nuova generazione che si sente ucraina non per etnia o per lingua, ma per cittadinanza.

Puoi parlare russo e sentirti ucraino.

Questo è il salto evolutivo che il Cremlino non riesce a processare.

Eppure, al tempo stesso, una parte di popolazione di quelle regioni, è profondamente ancorato alla Russia.

Ed ecco perché la situazione è complessa.

È come se fossimo in una lotta fratricida, in cui alcuni figli vogliono uccidere il padre per essere finalmente liberi, mentre altri lo difendono e lottano contro i fratelli visti come estranei.

È una tragedia greca recitata con armi moderne e con la spada di Damocle dei missili ipersonici e delle testate nucleari sulle teste, dove alla fine, indipendentemente da chi vincerà sul campo, la ferita tra le memorie sarà così profonda che ci vorranno secoli per rimarginarla.

Forse, non succederà mai.

Ecco perché, come è sempre accaduto nella Storia, è indispensabile dare spazio alla diplomazia. Anche perché non siamo più nell’era delle guerre combattute con la cavalleria, ma, in caso di reale difficoltà esistenziale, le superpotenze possono contare su armi in grado di annientare intere città in meno di un quarto di giro dell’orologio.

Motivo per cui non scoppierà mai una guerra vera tra USA e Russia, ma il rischio di un’escalation che estenda il territorio del conflitto inglobando l’Europa è sempre più elevato.

Qualora mi sbagliassi e scoppiasse una guerra vera tra Russia e USA, nessuno resterebbe vivo e nelle condizioni di rinfacciarmelo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’ALTRA FACCIA DELLO SPECCHIO: LA GENESI MILLENARIA DELLA COSTRUZIONE DEL NEMICO RUSSO

Siamo soliti pensare che la storia sia una sequenza lineare di eventi, un resoconto oggettivo di fatti.

Nulla di più falso.

La storia, specialmente quella che governa le nostre percezioni geopolitiche, è un’opera di architettura narrativa, un insieme di simboli e pregiudizi che si stratificano con il tempo.

Oggi, mentre osserviamo il conflitto in Ucraina, crediamo che l’ostilità occidentale verso Mosca sia una reazione contingente alle ambizioni di un singolo uomo o alle dinamiche di un decennio.

Ma è un’illusione ottica, perché la russofobia non è una cronaca del presente, ma un’ideologia di Stato che respira da mille anni.

L’ATTO DI NASCITA: UN DIVORZIO CHE NON SI È MAI CONCLUSO

Tutto comincia con un furto d’identità collettiva.

Dobbiamo tornare alla notte di Natale dell’anno 800, quando il Papa incorona Carlo Magno.

In quel momento, il cordone ombelicale tra l’Occidente romano-germanico e l’Oriente bizantino viene reciso con un colpo di scure.

Non si trattava solo di potere temporale, ma fu una questione di “branding” spirituale.

Roma doveva essere l’unica erede della civiltà, e per esserlo, l’Oriente ortodosso doveva diventare, per forza di cose, l’usurpatore, l’eretico, il diverso. E il Grande Scisma del 1054 non fece altro che cristallizzare questa frattura.

Da quel momento, il russo non è più solo un vicino geografico, ma un’anomalia.

La sociologia della comunicazione ci insegna che per definire “Noi” abbiamo bisogno di un “Loro” che sia il nostro esatto opposto. L’Occidente si è autoproclamato luce, democrazia e progresso; di conseguenza, la Russia è stata condannata a rappresentare l’ombra, il dispotismo e l’arretratezza.

L’ARCHITETTURA DELL’INGANNO: I FALSI STORICI COME ARMI DI COMUNICAZIONE DI MASSA

L’inchiesta sui pregiudizi non può prescindere dall’analisi dei documenti.

L’Occidente ha costruito la propria superiorità morale su fondamenta di carta.

La “Donazione di Costantino” fu il primo grande falso utilizzato per delegittimare Costantinopoli e, per estensione, tutto ciò che gravitava intorno alla fede ortodossa.

Secoli dopo, il “Testamento di Pietro il Grande” – un falso prodotto in Francia nel XVIII secolo – ha iniettato nel sangue dell’Europa il virus del sospetto permanente.

In questo documento apocrifo, la Russia veniva descritta come un predatore insaziabile con un piano segreto per conquistare il globo.

Era una proiezione psicologica magistrale. Le potenze europee, impegnate in quel momento in una colonizzazione brutale, per accaparrarsi materie prime e manovalanza a poco prezzo, attribuivano alla Russia le proprie stesse pulsioni espansionistiche.

È il paradosso del guardone: accusare l’altro della propria stessa perversione per sentirsi puliti.

DALLE CROCIATE DEL NORD AL “GRANDE GIOCO” BRITANNICO

Mentre i russi lottavano per la sopravvivenza sotto il Giogo Tataro, l’Occidente non offriva aiuto, ma crociate.

I Cavalieri Teutonici non cercavano solo terra, ma anche anime da “correggere”.

La battaglia sul lago dei Ciudi del 1242 segna il momento in cui la difesa russa diventa, agli occhi occidentali, un atto di ribellione alla civiltà.

Ma è nell’Ottocento, il secolo del “Grande Gioco”, che la russofobia diventa un prodotto di consumo per le masse. L’Inghilterra, spaventata dall’avvicinamento russo all’India, ha inventato l’iconografia dell’Orso Russo: una bestia goffa, violenta e imprevedibile.

La stampa britannica ha trasformato la geopolitica in una favola morale. I russi, che erano stati alleati fondamentali contro Napoleone, divennero improvvisamente i vampiri dell’Europa.

Un po’ ciò che è avvenuto nel 2022 con Putin, trasformato in dittatore, dopo anni in cui i leader europei facevano a gara per stare accanto a lui nelle foto ufficiali.

La velocità di questo cambiamento narrativo dimostra quanto la russofobia sia un “software” sempre pronto all’uso, capace di essere attivato o disattivato a seconda delle necessità dei mercati e degli imperi.

LA GERMANIZZAZIONE DELL’ODIO E IL CONCETTO DI SUB-UMANITÀ

Il passaggio più oscuro avviene tra le foreste prussiane e le accademie di Berlino.

Con Bismarck e poi con l’ideologia völkisch, l’ostilità si sposta dal piano culturale a quello biologico.

Gli slavi iniziano a essere percepiti come una “razza inferiore” e la Russia non è più solo un rivale politico, ma un ostacolo biologico al destino manifesto della razza germanica.

Questa deriva, culminata nell’orrore nazista, ha lasciato cicatrici profonde che ancora oggi condizionano la percezione della Russia come di un’entità “barbara” e non integrabile nel consesso civile.

LA SINTESI AMERICANA: IL MALE ASSOLUTO 2.0

Gli Stati Uniti hanno ereditato questo immenso arsenale di pregiudizi, perfezionandolo con la loro ineguagliabile capacità di “storytelling” globale, anche grazie all’ufficio per la propaganda più grande al mondo: Hollywood.

La russofobia americana è una sintesi perfetta: ha preso il moralismo francese dei diritti umani, la strategia di contenimento marittimo inglese e la demonizzazione ideologica tedesca e ne ha fatto pellicole dal successo planetario, per spettatori che nelle ore di storia preferivano leggere fotoromanzi o giocare a tris di nascosto. Lo stesso meccanismo con cui ha trasformato gli indiani d’America in selvaggi e l’aggressore bianco nel buono.

Ronald Reagan, definendo l’URSS “l’Impero del Male”, ha completato il cerchio iniziato nel 1054.

La lotta non era più politica, ma metafisica. Un duello tra angeli e demoni.

Questa narrazione è così potente da essere sopravvissuta al crollo del comunismo. Quando la Russia ha cercato di reintegrarsi negli anni ’90, l’Occidente ha vissuto una crisi d’identità.

Senza il mostro sotto il letto, chi eravamo noi? Soprattutto, cos’erano gli USA senza l’URSS?

Le loro aggressioni a paesi sovrani di mezzo mondo sono state giustificate per mezzo secolo proprio dalla difesa dell’Occidente contro l’URSS, ma, con il crollo del Muro di Berlino e la deflagrazione della Mosca comunista, questa narrazione non era più una giustificazione spendibile.

Perciò, la russofobia è tornata perché è utile. È il collante che tiene unita un’Alleanza Atlantica altrimenti priva di scopo.

IL COSTO DI UNA FOLLIA RAZIONALE

Come osservatore geopolitico, non posso che constatare il danno immenso che questa cecità volontaria infligge all’Eurasia.

La russofobia è una prigione cognitiva, perché ci impedisce di vedere che la Russia non è una nazione aliena, ma un’altra faccia della nostra stessa identità europea, cresciuta in condizioni climatiche e storiche differenti.

L’Occidente tollera dittature feroci quando sono funzionali ai propri interessi, persino guerre dai massacri atroci – vedi Gaza – ma punta il dito contro Mosca con un fervore religioso che tradisce la sua vera natura: una crociata che non è mai finita.

Fino a quando non avremo il coraggio di rompere questo specchio millenario, continueremo a combattere fantasmi, sacrificando sull’altare del pregiudizio la possibilità di una pace reale e di una prosperità comune.

La Russia non è il mostro, il riflesso delle nostre paure più antiche, un’ombra che abbiamo creato per non dover guardare dentro noi stessi.

Perché, se guardassimo dentro noi stessi, scopriremmo che un mostro esiste, ma non è Mosca.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL LUPO PERDE IL PELO, MA PUTIN PERDE IL VIZIO (DI ESSERE COLPEVOLE ANCHE DEL TUO RAFFREDDORE)

Ormai, la narrazione della propaganda occidentale somiglia a una sceneggiatura scartata dai fratelli Grimm perché “troppo assurda”.

Siamo arrivati a quel punto.

Se stamattina vi si è versato il caffè sulla camicia bianca o se la vostra connessione Wi-Fi ha deciso di prendersi una pausa di riflessione, non cercate spiegazioni tecniche. Se vi siete svegliati con il mal di gola, se vi sono cadute le chiavi o non trovate il portafoglio, è stato lui, il colpevole universale.

Lo Zar. L’uomo che sussurrava ai lupi.

I LUPI SONO AGENTI DEL CREMLINO

L’ultima frontiera del giornalismo “di qualità” ci informa, con la gravità che si riserva di solito alle pandemie o ai crolli azionari, che la guerra di Putin uccide persino in Finlandia.

E lo fa attraverso i lupi. Pare, infatti, che i predatori russi abbiano deciso di ignorare i visti d’ingresso per sconfinare e fare strage di renne finlandesi.

La logica è da ribaltarsi dalle risate: i cacciatori locali sono impegnati a monitorare i confini, in procinto dell’invasione russa, perciò i lupi si riproducono indisturbati e, guidati evidentemente da un navigatore satellitare programmato e guidato da Mosca, corrono a sbranare le renne di Babbo Natale.

Non è più una guerra tra nazioni, ma è una piaga biblica dove persino la biodiversità è arruolata nel KGB.

Se domani leggessimo che le zanzare siberiane sono addestrate a pungere solo i leader atlantisti, la sorpresa sarebbe minima.

In pratica, se non sai a chi dare la colpa, dai la colpa a Putin. Funziona sempre, non richiede prove e garantisce un discreto numero di clic tra gli appassionati del brivido geopolitico da tastiera e tra chi ancora crede a pale, microchip, muli, carriole e altre panzane.

A chi, insomma, ha fagocitato ogni sciocchezza, diventando terreno fertile per fake news e propaganda.

GLI “AMICI” DELL’UCRAINA: SALVARTI FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (IL TUO)

Ci sono i cosiddetti “amici” dell’Ucraina. Quelli che, seduti comodamente sui loro divani a Parigi, Londra, Roma, urlano che la pace è un insulto e che l’unico modo per onorare il popolo ucraino è continuare a trasformare il suo territorio in un immenso laboratorio a cielo aperto per l’industria bellica.

È una forma di amicizia che somiglia sinistramente a quella di chi, per aiutarti a spegnere l’incendio in casa, decide di lanciarti delle taniche di benzina perché “il fuoco va combattuto con la luce”.

Questi paladini della libertà amano l’Ucraina a tal punto da volerla vedere integra, certo, ma possibilmente spopolata e ridotta in macerie, pur di poter dire di aver “indebolito Mosca”.

Il sangue degli ucraini è diventato la valuta con cui l’Occidente paga la sua presunta superiorità morale.

Il bilancio di questa operazione è agghiacciante: un intero Paese distrutto in cambio di un posizionamento tattico che avrebbe potuto essere risolto in tre settimane di diplomazia reale, se solo la parola “compromesso” non fosse stata dichiarata illegale dai tribunali di chi parla di pace giusta e di vittoria fino all’ultimo ucraino.

L’AVANZATA DEI GUERRAFONDAI IN PIGIAMA MIMETICO

Ma il fenomeno più inquietante non accade al fronte, bensì nei talk show e sui social media italiani.

È qui che incontriamo la fanteria dei “guerrafondai in pigiama mimetico”.

Soggetti che non hanno mai tenuto in mano nulla di più pericoloso di un telecomando, ma che sprizzano aggressività verso chiunque osi suggerire che, forse, parlare di pace non è un atto di alto tradimento.

Il clima di intolleranza ha raggiunto livelli patologici.

Se non ripeti il mantra egemonico, scatta la squadraccia digitale. Abbiamo visto aggressioni a storici e professori, come il caso del Professor D’Orsi, colpevoli di avere una memoria più lunga di un post su X.

La violenza verbale è il sintomo di una democrazia che ha paura del dubbio.

Si creano meme con l’intelligenza artificiale per sbeffeggiare chi ragiona, si invadono i commenti con insulti fotocopia, spesso di troll organizzati per diffondere fake news e propaganda.

È la sociologia della mandria: individui che non hanno un’idea propria e che, per sentirsi parte di qualcosa, si aggregano sotto il capo di turno che indica loro chi sbranare oggi.

La libertà d’espressione è diventata un lusso per pochi coraggiosi, mentre la massa preferisce il conforto del pensiero unico, possibilmente urlato. E guai a ricordare che la storia ci dice che tutte le dittature sono cominciate in questo modo.

ZELENSKY, TRUMP E LA DIPLOMAZIA DELL’ULTIMO MINUTO

Mentre i pigiami mimetici nostrani sognano la marcia su Mosca, la realtà bussa alla porta.

Zelensky, che fino a ieri sembrava aver rimosso la parola “negoziato” dal suo vocabolario, ora scopre improvvisamente che forse è il caso di incontrare Donald Trump.

Il piano di pace in venti punti (o ventotto, a seconda dei venti che spirano da Washington) è lì, sul tavolo.

Contiene passaggi che Mosca rifiuterà? Probabilmente.

È un tentativo disperato? Forse.

Ma indica una verità ineludibile: la propaganda può ignorare la realtà per anni, ma non può sconfiggerla.

La Russia non sta fallendo domani mattina, nonostante i titoli trionfalistici che leggiamo da quasi quattro anni. L’Europa, invece, sta pagando il conto della sua stessa miopia, sabotando ogni spiraglio diplomatico per timore di scontentare i padroni del vapore d’oltreoceano.

L’AUTONOMIA COME ATTO DI RESISTENZA

In questo scenario, mantenere un’autonomia di giudizio non è solo un esercizio intellettuale, ma un atto di resistenza civile e un dovere civico, di cittadini che hanno a cuore la democrazia.

La verità è la prima vittima di ogni conflitto, ma la dignità umana muore subito dopo, quando smettiamo di ascoltare chi la pensa diversamente.

Sostenere l’informazione indipendente significa impedire che il racconto del mondo sia scritto esclusivamente da chi ha interessi nel vederlo bruciare.

Perché, alla fine, tra un lupo russo “agente segreto” e un politico europeo che parla di pace mandando altri a morire, il vero predatore non è quello con la pelliccia.

È quello con il colletto bianco e il pigiama mimetico ben stirato sotto il completo d’ordinanza, che sorride nei talk show con lo stesso sorriso di un venditore.

L’UCRAINA AL BIVIO

DIETRO LA MASCHERA DELLA PROPAGANDA, IL COLLASSO DEL FRONTE E IL PRESSING PER LA PACE

l mondo non è ciò che vediamo, ma ciò che ci viene indotto a percepire dagli esperti di Comunicazione.

Nelle aule di Sociologia della Comunicazione, questo fenomeno si chiama “iper-realtà”.

E viviamo proprio in questa teoria, su un palcoscenico dove la rappresentazione della guerra ha ormai divorato la guerra stessa. Eppure, sotto i riflettori della propaganda ucraina e occidentale, le tavole del palcoscenico stanno marcendo e la verità si sta rivelando sempre di più.

D’altronde, tante panzane sono già state polverizzate miseramente: sanzioni dagli effetti dirompenti per cui Mosca era al tappeto nel 2022; 1000 soldati russi al giorno, cioè l’intero esercito russo annientato dal 2022 a oggi, di circa 1,3 milioni di uomini; Putin con massimo tre anni di vita per quattro tipologie di cancro più il diabete e altre sindromi; controffensive ucraine del 2022, poi del 2023, poi lo sfondamento in Russia. E tante altre.

Adesso, un nuovo capitolo della tragedia, che inizia con un paradosso mediatico.

Nel suo discorso di Natale, Volodymyr Zelensky ha pronunciato parole che, per chiunque sappia ancora ascoltare, suonavano di una stanchezza ancestrale, quasi una sorta di preghiera per la pace, il desiderio della fine dell’oppressore.

Eppure, la macchina del fango comunicativo ha trasformato quel sospiro in un ruggito di sangue, titolando su un odio viscerale per vendere qualche migliaio di clic.

Perché anche in Occidente c’è una propaganda. E quando i media smettono di riportare i fatti, per fabbricare anatemi, significa che la realtà sottostante è troppo spaventosa per essere raccontata.

LA FARSA DI KUPYANSK E IL CROLLO DELLA NARRAZIONE

La realtà è che il fronte non si sta solo spostando, ma si sta sfaldando.

Prendiamo il caso di Kupyansk.

Abbiamo assistito a Zelensky che, in un video dai toni quasi cinematografici, smentiva l’avanzata russa definendola una menzogna del Cremlino.

Eppure, ventiquattro ore dopo, la città cadeva ufficialmente.

Non è solo una sconfitta militare, dunque, ma il fallimento della “comunicazione strategica” di Kiev, perché, se la leadership deve ricorrere a messinscene teatrali per rassicurare gli sponsor, significa che le risorse reali, le risorse umane, materiali, morali, sono esaurite.

Mentre i porti di Odessa bruciano e le città di Sumy e Kharkiv sprofondano nel buio di infrastrutture energetiche polverizzate, la discrepanza tra i bollettini ufficiali e i dati dell’intelligence diventa un abisso.

I blogger russi criticano i loro generali, certo, ma lo fanno per eccesso di prudenza, non per mancanza di risultati. Nel frattempo, l’Occidente continua a iniettare miliardi in un corpo che non risponde più agli stimoli, giustificando l’esborso con la teoria che “Putin vuole ingannarvi”.

Ma chi sta ingannando chi? Quelli delle sanzioni dirompenti?!

LO STRAPPO ATLANTICO: SE WASHINGTON PERDE LA PAZIENZA

A Washington, l’aria è cambiata.

Le recenti e feroci accuse di Tulsi Gabbard contro la leadership europea non sono il delirio di una dissidente, ma il segnale di uno strappo profondo tra il pragmatismo americano e l’ideologismo europeo.

Gli Stati Uniti hanno capito che il “partito della guerra” a Bruxelles sta cercando di trascinarli in un conflitto diretto contro la Russia per coprire i propri fallimenti politici.

Il repentino dietrofront di Boris Pistorius, ministro della Difesa tedesco, è emblematico.

È passato in pochi giorni dal profetizzare una Germania pronta alla guerra entro il 2029, al rassicurare che Putin non attaccherà la NATO.

Non è una miracolosa conversione morale, ovviamente, ma il risultato di un “pressing” brutale esercitato dalla Casa Bianca per riportare l’Europa alla ragione.

Washington sta usando l’arma più affilata che ha contro Zelensky: il ricatto delle urne.

Chiedere elezioni in piena guerra non è un atto di democrazia, ma una sorta di avvertimento mafioso. È come dire: “O accetti i negoziati alle nostre condizioni, o ti sostituiamo con un voto che non potrai controllare”.

IL CAVALLO DI TROIA: LA STRATEGIA LUNGA DEL CREMLINO

In questo scenario, la Russia sta giocando una partita a scacchi su un piano diverso, perché Mosca non si oppone più con forza all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea.

Il Cremlino non aspetta solo la vittoria sul campo, ma il collasso politico di Kiev. Una volta che l’attuale leadership sarà caduta, la Russia punta a insediare un governo fantoccio sul modello bielorusso. A quel punto, l’Ucraina entrerebbe nell’UE non come partner, ma come un “Cavallo di Troia”.

Mosca avrebbe i suoi emissari seduti al tavolo di Bruxelles, capaci di influenzare, sabotare e orientare le politiche europee dall’interno.

È una strategia che trasforma la vittoria militare in un’egemonia continentale.

Gli attentati terroristici che hanno colpito Mosca negli ultimi giorni, atti che portano la firma di un’intelligence troppo sofisticata per essere solo ucraina, sono l’ultimo disperato tentativo del “partito della guerra” occidentale di sabotare questa deriva diplomatica.

L’uso del terrore è il rifugio di chi ha perso la capacità di fare la guerra e la legittimità di fare la pace.

IL RISVEGLIO DAL SOGNO TECNOCRATICO

Siamo alla fine dei giochi.

La propaganda che ancora ferve sulle pagine del New York Times o del Washington Post somiglia sempre più all’orchestra del Titanic.

Si parla di prestiti UE che “salveranno” il fronte, ignorando che i soldi non possono comprare i soldati che mancano o riparare una rete elettrica distrutta sistematicamente.

La società occidentale è ipnotizzata da una narrazione che ha smesso di essere utile, se non a tenere in piedi, disperatamente, l’affare della guerra per chi ha interesse che prosegui.

La farsa è finita, ma il risveglio sarà traumatico.

Il collasso delle forze ucraine è un’eventualità che incombe non perché lo dica un ministro russo, ovviamente, ma perché le leggi dell’economia e della fisica bellica non possono essere sospese da un post su X o dalle panzane di Mario Draghi, Ursula von der Leyen o altri protagonisti occidentali che non ne azzeccano mezza da quattro anni.

Il tempo è scaduto, e mentre le élite di Bruxelles continuano a sognare crociate e continuano all’interno di un gioco della PlayStation, il mondo reale si sta già riorganizzando secondo nuovi, durissimi, poli di potere.

L’ultima estate pacifica dell’Europa non è un monito per il futuro, ma somiglia già a un ricordo del passato che non abbiamo voluto proteggere.

Nel mondo che si sta disegnando, grazie alle scelte degli attuali leader europei, l’Europa sarà solo un nome sulle mappe del Risiko mondiale, senza alcuna voce in capitolo.

Sempre che non si verifichi un miracolo, con un cambio di leader o di strategie improvvisi.

SE LA GEOPOLITICA DIVORA IL FUTURO DELL’EUROPA

Il rumore della storia che si sta scrivendo sotto i nostri occhi, non è fatto solo di esplosioni, ma anche del silenzio assordante dei servizi pubblici e del welfare che svaniscono.

Mentre le cancellerie occidentali e il Cremlino giocano una partita a scacchi su una scacchiera fatta di fango e con pezzi che sono esseri umani, il cittadino europeo medio si trova sospinto in un cono d’ombra dove la verità è la prima vittima di un’inflazione che, prima di essere monetaria, è morale.

Siamo spettatori di un paradosso comunicativo per cui ci dicono che Mosca è sull’orlo del baratro, eppure continua ad avanzare in Ucraina.

IL MIRAGGIO DEL FALLIMENTO E LA REALTÀ DEL TERRENO

La narrazione dominante ci ha venduto un’immagine rassicurante: una Russia tecnicamente fallita, isolata e incapace di avanzare. Ma chi ha studiato Comunicazione sa che, quando il messaggio non coincide con la realtà, il ricevente finisce per perdere fiducia nel sistema.

La verità sul campo racconta una storia diversa da quanto veicolato dal mainstream.

Mosca ha annesso zone che ora presidia in buona parte, mirando al controllo totale di tutti quei territori che considera simbolicamente e politicamente vitali.

Le sciocchezze sulle pale, i muli, i cavalli, i microchip, le carriole, le controffensive, gli F16 e i missili che avrebbero sovvertito l’esito della guerra, e tutta la serie di panzane spacciata per grandi inchieste di guerra valgono giusto una risata davanti a una birra in compagnia.

ll Cremlino non vede l’Ucraina come uno Stato sovrano, ma come una provincia imperiale da riportare sotto l’ombra dello Zar.

Questa visione non si cancella con un tratto di penna o con sanzioni che, paradossalmente, sembrano mordere più le economie di Berlino e Roma che quella di una Mosca riorganizzata in economia di guerra.

Mentre, già da prima della guerra, noi chiedevamo ai genitori degli alunni di portare carta igienica, risme, pastelli, e adesso contiamo i centesimi per finanziare il resto, l’industria russa ha trasformato il suo PIL in proiettili, creando un’inerzia strutturale che non può essere fermata con un semplice “cessate il fuoco”.

Putin è sostenuto da un coeso apparato militare e da un altrettanto forte blocco affaristico, convinto che la guerra non sia per l’Ucraina, ma per l’esistenza della Russia come nazione, minacciata dalla NATO.

Inoltre, per motivi geopolitici, i BRICS non consentiranno mai l’isolamento della Russia poiché, dopo la sua eventuale caduta, la Cina sarebbe accerchiata e gli altri paesi membri isolati a loro volta, motivo per cui i BRICS non allenteranno il loro supporto e i rapporti commerciali con Mosca.

L’EUROPA PAGA IL CONTO ALTRUI

L’Unione Europea si trova oggi in una posizione di tragica subalternità.

Siamo un ex attore mondiale che ha scelto di diventare irrilevante, delegando i propri “occhi” tecnologici e la propria sicurezza a Washington.

Al di là dei proclami di Kallas & C., e della propaganda occidentale, senza l’intelligence satellitare americana, l’esercito ucraino sarebbe “cieco” e per l’Ucraina sarebbe la fine nel giro di qualche settimana.

Ma senza il portafoglio europeo, l’intera impalcatura amministrativa di Kiev crollerebbe in un pomeriggio.

Paghiamo l’amministrazione pubblica ucraina, i loro stipendi e la loro resistenza, – e anche alcuni cessi d’oro – mentre le nostre infrastrutture – in primis scuole e ponti – cadono a pezzi.

È un trasferimento di ricchezza che solleva interrogativi etici profondi: è giusto sacrificare il diritto alla salute e all’istruzione di una generazione di europei per sostenere un conflitto che la diplomazia sembra aver dimenticato?

La sensazione è che si preferisca alimentare l’industria bellica d’oltreoceano piuttosto che sedersi a un tavolo negoziale che, inevitabilmente, richiederebbe compromessi scomodi e, soprattutto, dire agli europei che tutte le previsioni e tutte le strategie dei nostri leader sono state fallimentari.

LA TRAPPOLA DEL DOPPIO STANDARD E LA GOGNA MEDIATICA

Così, quella parte di stampa che ha scelto di servire il potere, anziché raccontare i fatti, cerca di manipolare l’opinione pubblica.

Se critichi l’invio massiccio di armi, vieni marchiato come “filo-russo”. Se chiedi dove finiscano i miliardi delle tue tasse, subisci la gogna mediatica.

Eppure, osserviamo con orrore come la politica internazionale applichi pesi e misure differenti a seconda delle latitudini. Massacri ignorati in una parte del mondo diventano crimini imperdonabili altrove, creando una dissonanza cognitiva che trasforma le basi della democrazia e il Diritto internazionale in un menù à la carte.

L’estremismo politico che cresce in Europa, come dimostra il caso della AfD in Germania, non nasce dal nulla, ma è il frutto di un malumore intercettato da chi non ha paura di sfidare il dogma della “vittoria a ogni costo”.

L’establishment cerca di screditare queste forze etichettandole come agenti di Mosca, ma la realtà è che queste formazioni danno voce a chi si sente tradito da una classe dirigente che antepone gli interessi strategici di una potenza lontana al benessere dei propri cittadini.

VERSO IL 2026: REALISMO O IMPATTO FATALE?

Guardando al futuro, il 2026 appare carico di nubi all’orizzonte.

La speranza non può essere un piano d’azione. Abbiamo bisogno di diplomazia e di realismo.

Non possiamo continuare a camminare con lo sguardo rivolto alle utopie della vittoria totale contro la più grande potenza atomica sul pianeta, ignorando il lampione che abbiamo di fronte.

Come nella celebre gag di Chaplin, il rischio è quello di un impatto violento contro la realtà dei fatti.

La pace non arriverà per sfinimento del nemico, se il nemico ha trasformato lo sfinimento in una forma di resistenza nazionale.

Arriverà solo quando l’Europa ritroverà la propria voce e la propria sovranità, smettendo di essere un fornitore di soldi e armi a fondo perduto e tornando a essere un attore diplomatico credibile.

Dobbiamo avere il coraggio di chiedere una pace che non sia solo una pausa per riarmarsi, ma una garanzia di sicurezza per tutti.

Altrimenti, l’unica cosa che resterà da comunicare saranno le macerie di un continente che aveva tutto e ha scelto di scommetterlo su una guerra senza fine, giocando con la pelle degli ucraini, a cui, certamente, non interessa niente a chi chiede ancora guerra, vittorie fino all’ultimo uomo e paci giuste.

IL METODO URSULA E LA FINE DELLA TRASPARENZA

Un SMS non è mai solo un messaggio. Soprattutto quando rivesti cariche importanti e decidi delle sorti di mezzo miliardo di persone.

Può essere l’innesco di una rivoluzione o, più prosaicamente, un veleno per la democrazia liberale come l’abbiamo conosciuta.

La malattia di un’istituzione che ha smesso di rispondere ai cittadini per rifugiarsi in una diplomazia del silenzio, fatta di pollici veloci sugli schermi degli smartphone e decisioni da trentacinque miliardi di euro prese tra un impegno ufficiale e un caffè.

Ursula von der Leyen, attuale Presidente della Commissione Europea, ha trasformato il vertice dell’Europa in una fortezza inaccessibile, dove la trasparenza è diventata un fastidioso optional burocratico.

IL MODELLO TEDESCO: L’ARTE DELLA CANCELLAZIONE

La vicenda legata ai famosi “messaggini” non è un errore isolato, ma sembrerebbe un sistema consolidato, poiché, già durante il suo mandato come Ministro della Difesa in Germania, Ursula von der Leyen aveva mostrato una preoccupante antipatia per gli archivi pubblici.

Decine di milioni di euro in consulenze esterne furono assegnati senza mandati chiari, senza procedure d’appalto degne di questo nome e, soprattutto, senza lasciare tracce.

Quando la commissione d’inchiesta parlamentare tedesca chiese di visionare le pezze giustificative dei suoi atti, Ursula von der Leyen rispose che i dati erano stati cancellati e il cellulare istituzionale era stato “ripulito” prima della riconsegna.

Bruxelles non è stata che la naturale evoluzione di questo modus operandi, dunque.

Il “Pfizergate” non è una teoria del complotto, ma una realtà giudiziaria certificata da una condanna del Tribunale dell’Unione Europea.

La Commissione non ha saputo – o voluto – fornire spiegazioni credibili sull’irreperibilità degli SMS scambiati con Albert Bourla, l’amministratore delegato di Pfizer. È una voragine democratica che inghiotte la fiducia dei contribuenti.

Un’attività occulta da dittatura, dove chi comanda non rende conto al popolo.

Trentacinque miliardi di euro di soldi pubblici sono stati impegnati attraverso canali privati, aggirando esperti, avvocati e comitati negoziali previsti dai trattati.

In pratica, Ursula von der Leyen ha agito al di fuori delle regole democratiche che l’Europa si era imposta per non essere la Russia o la Corea del Nord.

LA MORTE CIVILE DI CHI OSA GUARDARE NEL BUIO

Frédéric Baldan è l’uomo che ha deciso di non voltarsi dall’altra parte. Ex lobbista accreditato, Baldan ha depositato una denuncia penale a Liegi, accusando la Presidente di corruzione, abuso di potere e distruzione di documenti.

La reazione del sistema non si è fatta attendere e non stata affatto quella di una democrazia, ma quella feroce degna di un regime autoritario.

In una sincronia che definire sospetta è un eufemismo, Baldan ha subito una sorta di “esecuzione bancaria”: la chiusura simultanea dei conti correnti suoi, dei suoi familiari e persino della sua casa editrice.

A questo si è aggiunto il ritiro immediato del tesserino da lobbista, motivato da irregolarità emerse solo dopo la sua denuncia contro la von der Leyen, dopo che era stato accreditato da anni.

Nelle stesse ore, il giornalista Gabriele Nunziati veniva licenziato per aver posto una domanda che ai vertici dell’Europa non piacevano. (Puoi leggere la vicenda di Nuziati e Baldan in calce a questo articolo).

In Europa, oggi, il dissenso non si punisce con il carcere, ma con la cancellazione economica e professionale, perciò chi parla di democrazia, chi grida “andate in Russia o in Cina se non vi sta bene”, è un cieco che non si accorge che in Russia e in Cina ci siamo già. E siamo immersi fino al collo.

Quella dell’Europa è una forma di controllo sociale sottile, che mira a rendere chi critica un difetto sociale, perciò lo si priva dei mezzi minimi per esistere all’interno della società civile.

Se a tutto ciò aggiungiamo l’impossibilità di agire dei governi del Sud Europa come il nostro, il quadro della democrazia in Europa è tutt’altro che roseo.

Governi di centro, di sinistra, di destra, si sono susseguiti vincendo elezioni con programmi politici puntualmente disattesi in nome di agende politiche dettate dall’Europa.

E quando alcuni governi hanno tentato vie diverse, o non sono mai partiti perché un ministro non piaceva all’Europa – vedi Savona – oppure sono stati sostituiti da governi tecnici.

LA FORTEZZA BERLAYMONT: IMMUNITÀ COME STILE DI VITA

Ursula von der Leyen vive in un appartamento situato all’interno del Berlaymont, la sede della Commissione Europea a Bruxelles. La sua abitazione è in territorio diplomatico, una bolla giuridica che la scherma da perquisizioni e indagini della magistratura locale.

Mentre il “QatarGate” ha mostrato che è possibile entrare nelle case dei parlamentari per trovare valigie piene di denaro, la fortezza di Ursula rimane inespugnabile.

Chi dovrebbe indagare su di lei? La Procura Europea (EPPO) è guidata da Laura Codruta Kovesi, una figura il cui passato giudiziario in Romania, segnato da indagini pesanti e persino dal ritiro del passaporto, la rende, secondo molti osservatori, una pedina vulnerabile a ricatti e pressioni politiche.

È un cortocircuito istituzionale perfetto: il controllore è legato al controllato da fili invisibili e possibilità di ricatto.

IL TRAMONTO DEGLI DEI DI BRUXELLES

L’attuale leadership europea somiglia sempre più a un’aristocrazia autoreferenziale che ha perso il contatto con la realtà del continente.

La Germania è in crisi economica profonda, la Francia vive una paralisi sociale permanente e il modello basato sulla finanza e sulla delocalizzazione sta mostrando le sue crepe finali.

Il libro “Ursula Gates”, boicottato dai grandi distributori in Francia, è il manifesto di questo malessere.

La gestione della pandemia ha lasciato cicatrici profonde non solo nel tessuto sociale, ma anche nella credibilità della scienza e della politica.

Scoprire oggi, attraverso le clausole contrattuali di Pfizer, che l’azienda stessa non garantiva la prevenzione del contagio, mentre i governi imponevano restrizioni draconiane basate proprio su quella presunta garanzia, è un trauma collettivo che non può essere archiviato con un’alzata di spalle, perché i cittadini hanno compreso che la politica europea è tutt’altro che democratica.

E, in una democrazia, chi sbaglia deve risponderne alla legge. Altrimenti non c’è alcuna differenza tra Mosca, Pechino e Bruxelles.

L’Europa si trova a un bivio epocale.

Da una parte, il tentativo di centralizzare ulteriormente il potere, arrivando a ipotizzare la confisca dei beni russi per finanziare la guerra, una mossa che minerebbe definitivamente la certezza del diritto e la reputazione finanziaria dell’euro.

Dall’altra, la necessità urgente di un ritorno alla trasparenza, alla legalità e al rispetto dei cittadini. Trasparenza sempre più lontana.

Se l’Unione non troverà il coraggio di processare i propri scandali e i propri leader che hanno agito al di fuori delle norme democratiche, finirà per essere processata dalla storia, e il verdetto potrebbe essere senza appello.

Il “Metodo Ursula” ha funzionato finora perché è rimasto nell’ombra; ora che la luce comincia a filtrare tra le crepe della fortezza, ci si accorge che i dittatori e chi agisce al di fuori delle regole del Diritto non è solo al di là dei confini europei, ma persino sulle nostre teste.

E decide delle vostre aziende e delle vostre vite.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’EUROPA NEL LABIRINTO: TRA PROPAGANDA DI GUERRA, VERITÀ STORICHE E IL TRAMONTO DELL’EGEMONE

Geopolitica, oggi, significa spesso mentire.

Da un lato, i bollettini ufficiali descrivono una Russia tecnologicamente primitiva, impantanata nel fango del Donbass e costretta a subire la perdita di 1000 soldati al giorno; dall’altro, viene dipinta come un mostro inarrestabile, pronto a divorare le repubbliche baltiche e a minacciare l’integrità dell’intera NATO.

Questa narrazione bipolare non è un cortocircuito, come si potrebbe pensare, ma uno strumento di gestione del consenso.

IL PECCATO ORIGINALE E IL PESO DELLE PROMESSE INFRANTE

Per vedereil fumo che avvolge il fronte ucraino, occorre tornare al 1990.

Jeffrey Sachs, economista di fama mondiale e Direttore del Center for Sustainable Development alla Columbia University, ha recentemente sollevato un velo su quella che definisce la “verità storica” del conflitto.

Secondo Sachs, la genesi della crisi non è stata un’improvvisa follia espansionistica del Cremlino, ma in un trentennio di promesse tradite, proprio come anche noi di Tamago abbiamo scritto settimane fa.

Germania e Stati Uniti assicurarono ripetutamente alla leadership sovietica che la NATO non si sarebbe mossa “di un solo pollice verso est” in cambio della riunificazione tedesca.

Quel patto, mai messo nero su bianco, ma testimoniato da innumerevoli documenti d’archivio, rappresenta per Sachs il vero casus belli.

Il tradimento non è stato solo geografico, ma anche diplomatico.

Sachs punta il dito contro Angela Merkel, l’ex Cancelliera tedesca, rea di aver ammesso che gli Accordi di Minsk del 2015 non erano un reale progetto di pace, bensì un espediente per “guadagnare tempo” e armare l’Ucraina.

Poi la Merkel ha parzialmente ridimensionato le sue affermazioni su pressione degli attuali leader europei, ma è impossibile credere che una politica di tal calibro abbia raccontato certi aneddoti senza pesare le parole o che l’abbia fatto perché putiniana.

Perciò, vediamo che, quando la politica rinuncia alla buona fede, la guerra diventa inevitabile.

IL SUICIDIO DI BRUXELLES E LA FINE DELL’UNIPOLARISMO

Mentre Washington sembra riconsiderare il proprio ruolo di gendarme nel mondo, l’Unione Europea pare decisa a gettarsi nel baratro.

Raniero La Valle, storico giornalista e politico dalla lunga esperienza parlamentare, descrive una Bruxelles “fuori dal mondo”.

L’Europa starebbe combattendo per un’egemonia statunitense che, nei fatti, è già tramontata. Il modello unipolare nato dopo la caduta del Muro di Berlino è in macerie, eppure i leader europei si ostinano a finanziare il conflitto a colpi di debito.

La cifra è impressionante: 90 miliardi di euro stanziati per Kiev. Soldi che i cittadini europei pagheranno per anni, mentre le economie nazionali boccheggiano e la classe dirigente fatica a varare leggi di bilancio sostenibili.

La Valle vede in Donald Trump l’interprete di un’America stanca di essere un impero. Se gli Stati Uniti cambiano rotta, l’Europa rischia di restare sola in una trincea ideologica che non può permettersi, se non mandando al macero la sicurezza e il benessere degli europei.

LA MACCHINA DELLA DISINFORMAZIONE E LA REALTÀ DEL FRONTE

Il contrasto tra i palazzi del potere e la realtà dei fatti è evidente nella frattura clamorosa all’interno della stessa amministrazione americana.

Da una parte, agenzie come Reuters diffondono report dell’intelligence su una presunta invasione imminente dell’Europa; dall’altra, Tulsi Gabbard, designata Direttrice dell’Intelligence Nazionale statunitense, bolla queste notizie come propaganda pura.

Secondo la Gabbard, si tratterebbe di un tentativo deliberato dei “guerrafondai” per sabotare ogni possibile apertura diplomatica.

Nel frattempo, la guerra si allarga in modo subdolo.

Si registra una pericolosa “normalizzazione” di attacchi ucraini contro la flotta ombra russa nel Mar Caspio e persino nel Mediterraneo.

Queste operazioni, spesso ignorate dai titoli di testa, portano il conflitto a un passo dalle nostre coste.

Sul terreno, i dati parlano chiaro: località come Kupiansk e settori chiave del Donbass stanno tornando sotto il controllo russo.

Putin, nella sua conferenza di fine anno, è apparso saldo, forte di un’economia che ha retto l’impatto delle sanzioni e di una forza d’urto che conta ormai oltre 700.000 uomini al fronte.

Ma se 700.000 uomini non hanno ancora conquistato l’Ucraina, è impossibile che possano arrivare a Lisbona prima dell’anno 3300, nonostante gli allarmi dei leader europei.

IL DILEMMA DELLA LEGITTIMITÀ E L’OMBRA DI GAZA

Esiste poi un problema di legittimità che l’Occidente preferisce tacere. Il mandato di Volodymyr Zelensky è tecnicamente scaduto, e lo svolgimento di nuove elezioni è impedito proprio dallo stato di guerra.

Di fatto, Zelensky è senza mandato popolare. Di fatto, non si sa se il popolo lo riconfermerebbe. Di fatto, nessuno può dire che gli ucraini vogliono la guerra anziché la pace, anche se milioni di ucraini – soprattutto giovani – sono fuggiti all’estero dal 2022, cosa che farebbe propendere per la pace.

Putin ha lanciato una provocazione diplomatica: fermare i bombardamenti per permettere il voto. Kiev ha risposto con un secco rifiuto, temendo che la democrazia sotto pressione russa sia solo un cavallo di Troia.

Questa instabilità si riflette anche nello scacchiere mediorientale.

La Valle traccia un parallelo inquietante tra l’Ucraina e Gaza. In entrambi i casi, la logica della forza ha sostituito il diritto internazionale.

La soluzione “due popoli, due Stati” in Palestina sembra ormai svuotata di senso dalla politica degli insediamenti e siamo di fronte alla crisi del modello di Stato moderno, che non riesce più a garantire la convivenza, ma solo il dominio etnico o militare.

LA PACE COME IMPERATIVO DI SOPRAVVIVENZA

L’apertura di Emmanuel Macron a un dialogo con il Cremlino, accolta positivamente da Mosca, rappresenta forse l’ultimo barlume di realpolitik in un continente accecato dall’ideologia.

Ma la diplomazia richiede coraggio. Richiede di smettere di mentire ai cittadini, raccontando fake news.

La pace non è più una scelta morale tra opzioni diverse, ma l’unica condizione necessaria per evitare l’estinzione.

In un’epoca dove l’intelligenza artificiale guida i droni e le testate nucleari restano silenziose, ma pronte a distruggere città europee e vite umane, la guerra non è e non può essere la soluzione.

Sarebbe la fine della storia. E parlare di coraggio o codardia è roba da TSO, perché il coraggio, in questi casi, è l’incoscienza di chi guida bendato a 200 all’ora, dando del codardo a chi gli chiede di fermarsi e di togliersi la benda.

L’Europa deve decidere se essere il ponte di un mondo multipolare o l’ultima, indebitata provincia di un impero ridotto a un cumulo di macerie.