Non è una questione da bar sport, ma da coscienza collettiva.
Perché una fetta così rumorosa d’Italia sembra non amare, quasi detestare, Jannik Sinner?
L’ultimo pretesto è stato un forfait alla Coppa Davis. Una scelta professionale, logica, quasi banale nella sua strategica necessità. Scelta fatta più volte da tutti i più grandi campioni del Tennis.
Eppure, ha scatenato l’ennesimo processo sommario.
Non sul suo tennis, no. Quello è inattaccabile, una sintesi quasi algoritmica di potenza e intelligenza tattica che ammutolisce anche i detrattori più accaniti.
Il problema è un altro. È più profondo.
È Jannik Sinner stesso. È l’uomo Sinner. L’italiano che per tanti italiani è irraggiungibile perché è specchio della loro nullità. E quell’uomo, per la nostra grammatica culturale, è un eretico.
Quello che vive all’estero e non paga le tasse in Italia, accusato da chi chiede di ricevere i soldi degli straordinari in nero o che lotta con gli altri carrelli per arrivare primo alla cassa appena aperta, scavalcando chi gli stava davanti. O da quello che rallenta in prossimità dei tutor e poi schiaccia il piede destro come non ci fosse un domani, non appena è libero da polizia e telecamere.
L’ARCHETIPO INFRANTO: IL DIO SENZA FERITE
Siamo un popolo che ha bisogno del dramma. La nostra epica nazionale è fatta di sangue, sudore e lacrime.
Amiamo Roberto Baggio per il rigore sbagliato a Pasadena, non solo per il Divin Codino. Abbiamo idolatrato Marco Pantani per le sue fughe disperate in salita, ma anche per la sua tragica, umanissima caduta.
Persino Valentino Rossi, un vincente seriale, ha costruito il suo mito su sorpassi impossibili, rivalità viscerali e una teatralità da commedia dell’arte.
I nostri eroi sono lo specchio di noi stessi: geniali e fallibili, capaci di toccare il cielo per poi sprofondare nella polvere, sempre pronti a rialzarsi con una smorfia di dolore e tanto orgoglio.
Ci offrono la catarsi. Ci dicono: “Vedete? Si può sbagliare, si può soffrire, ma si torna più forti di prima”.
Noi ci sguazziamo in queste sciocchezze. Vi ricorda qualcosa la pandemia? “Torneremo ad abbracciarci più forte di prima?”
Beh, viste le discriminazioni di qualche mese dopo quella frase a effetto, direi che le cose non sono andate proprio benissimo.
Tuttavia, i campioni come Baggio e Rossi ci perdonano le nostre stesse imperfezioni.
Jannik Sinner non offre questa consolazione.
Lui non urla. Non polemizza. Non cerca alibi nel vento o nella sfortuna.
Perde un punto e si risistema le corde della racchetta con la freddezza di un ingegnere che ricalibra un sensore. Vince un torneo Masters 1000 e la sua esultanza è un pugno al cielo, un sorriso tirato che sembra quasi chiedere scusa per il disturbo, mentre tanti italiani si sbatterebbero a terra in scene tragicomiche, urlando come Silvester Stallone in Rocky.
Sinner vince, e basta. Ha successo, ma non lo sbandiera con cappotti di visone, cuffie da astronauta o altre corbellerie dei divi del calcio.
E questa sua normalità, in Italia, è un affronto.
La sua perfezione non è iconica, ma accusatoria. La sua disciplina non è un esempio, è un rimprovero silenzioso a chi vive di chiacchiere, a chi si giustifica “è colpa dell’insegnante che pretende troppo”, a chi “domani inizio, forse lunedì”.
Sinner non riflette il popolo, al contrario incarna un’élite dello spirito, un’aristocrazia dell’autocontrollo che ci mette a disagio perché quando perde si chiede dove può migliorare e quale lavoro debba fare. Non incolpa l’arbitro, non crede alla sfortuna, ma ha voglia di lavorare e sudare ancora di più.
Per l’italiano medio, lavorare e sudare di più è un affronto. L’italiano medio vive una vita fatta di sfortune, di datori di lavoro cattivissimi, di insegnanti che sono folli scampati a un manicomio.
Incece, Sinner vive una vita per cui gli errori sono suoi e non imputabili a nessun altro.
IL PECCATO ORIGINALE: LA LIBERTÀ COME ATTO DI INSUBORDINAZIONE
C’è un filo rosso che lega la reazione a Sinner che salta la Coppa Davis alla nostra storia politica ed economica. È il sospetto atavico verso l’individuo.
I nostri pilastri sono stati la res publica romana, il Comune medievale, la Chiesa Cattolica e, infine, uno Stato fortemente centralizzato. Strutture che, in modi diversi, hanno sempre predicato la subordinazione del singolo al collettivo.
Il “bene comune” – o ciò che veniva definito tale – ha sempre prevalso sull’ambizione personale.
Perciò chi ha successo è sempre invidiato, in Italia.
Per secoli, ci è stato insegnato che la vera virtù è nell’obbedienza, nel sacrificio per il gruppo, sia esso la famiglia, la parrocchia, il partito o la Nazione.
La libertà individuale, quella vera, radicale, è sempre stata vista come un lusso pericoloso. Un atto di egoismo. Un affronto.
Ecco perché la scelta di Sinner, un ragazzo-azienda che gestisce il proprio corpo-capitale con una logica da CEO, viene percepita come un atto di tradimento. Un “no” alla maglia azzurra diventa un “no” all’Italia intera.
La sua libertà di scegliere il meglio per la sua carriera a lungo termine rompe lo schema ancestrale per cui il “dovere” verso la tribù viene prima della volontà.
La cosa ridicola è che chi lo critica borbotta se il datore di lavoro gli chiede di lavorare il sabato, è il pensionato che lo critica dal divano, il giovane che lo insulta su Instagram anziché studiare.
Perché, in fondo, non stanno processando un tennista, ma stanno punendo colui che osa anteporre il proprio percorso, la propria visione, alla richiesta del gruppo. Un tizio che si permette di allenarsi per preparare al meglio nuove sfide.
Uno che il sabato mattina fa il suo dovere e anche domenica, se serve. Uno che non perde tempo su Instagram, perché lo attendono ore di duro lavoro per essere il migliore di tutti.
Sinner non ha fatto nulla di male, oggettivamente. Ma ha commesso il peccato culturale più grave: ha agito come un individuo sovrano di se stesso in un Paese in cui i più sono sempre preoccupati di che cosa pensino gli altri di loro.
L’ECONOMIA DELLA PERFORMANCE E L’INVIDIA DEL SILENZIO
Sinner non è solo un atleta. È una startup ad altissima crescita, con un piano industriale impeccabile e un team di manager che ottimizzano ogni variabile: dalla nutrizione alla programmazione, dalla comunicazione al recupero fisico.
Un’entità che non lascia nulla al caso. Perciò funziona.
In un’economia come quella italiana, spesso basata sull’improvvisazione e su parenti e amici messi ai vertici, al posto di persone competenti per davvero, in aziende che contano sull’arte di arrangiarsi, un modello come quello di Sinner è alieno. E spaventa.
In più, Sinner è ricco. Giovane. Riservato.
Questo trittico è letale nel nostro panorama sociale.
La ricchezza, se non ostentata in modo quasi caricaturale (rendendola quasi folkloristica, alla Fedez, per intenderci), o giustificata da una narrativa di sofferenza e di riscatto, genera una forma corrosiva di malessere che non è semplice gelosia, ma invidia perniciosamente letale per chi la prova.
Perciò questi italiani malati vivono nella perenne speranza che Sinner perda, che si faccia male, che Alcaraz o altri lo scavalchino in classifica.
Perché Sinner non dà appigli. Non fa gossip, non ostenta auto di lusso, non partecipa al circo mediatico e il suo successo è silenzioso, metodico, quasi inevitabile, ma frutto di tantissimo duro lavoro. Tutte cose che per l’italiano medio sono inconcepibili e alimentano il malumore dei frustrati.
È la quiete del primo della classe, quello che va d’accordo con l’insegnante che per tanti è odioso, quello che rende insopportabile il chiasso di chi non ha studiato.
È un dannato coraggioso, un uomo che sa scegliere per sé senza l’assillo di voler soddisfare i nonni, i genitori, il vicino di casa, la “gente”, perché non vive nella perenne paura di “cosa penserà la gente”.
Il suo essere “noioso” è la sua arma più potente, perché lo rende inattaccabile sul piano umano e costringe a confrontarsi con l’unica cosa che conta: la sua schiacciante superiorità nel suo campo.
IMPARARE LA LIBERTÀ O RIMANERE PRIGIONIERI DELLA PASSIONE?
Allora, gli italiani odiano Sinner?
No. L’italiano medio non odia Sinner. Odia se stesso.
Teme ciò che Sinner rappresenta: la possibilità che esista un modello di successo diverso da quello che conosciamo. Un modello non basato sulla passione teatrale, ma sulla dedizione, sul duro lavoro.
Non sul genio e sregolatezza, ma sul talento coltivato con disciplina ossessiva. Non sull’appartenenza al gruppo, ma sulla forza dell’individuo.
Sulle sconfitte per colpa propria e non del professore, dell’arbitro o della sfortuna.
Sinner è una lezione di liberalismo classico in un Paese che si riempie la bocca di libertà, ma nel profondo è costituito da gente abituata a farsi ottriare ogni aspetto della vita, più a proprio agio con le dinamiche passionali della comunità che con le responsabilità dell’autodeterminazione.
Perché l’autodeterminazione prevede responsabilità. E l’italiano medio non le vuole, perché è sempre colpa di altri. Sempre colpa dello Stato.
Possiamo continuare a chiedere a Sinner di essere come noi: imperfetto, emotivo, drammatico, sfortunato.
Di urlare un po’ di più, di soffrire in pubblico, di anteporre il cuore alla ragione. Di non allenarsi come un marziano, per passare un po’ di tempo sul divano, in modo da insultare qualcuno sui social.
Oppure possiamo fare lo sforzo più difficile: osservarlo, in silenzio, e accettare che la libertà non è uno slogan da sventolare, ma una pratica difficile che consiste nel rispettare le scelte altrui, soprattutto quando non le capiamo o non ci rassicurano.
Soprattutto quando ci mostrano che si può essere decisamente migliori di noi.
Finché non impareremo questa lezione, ogni Jannik Sinner che oserà tracciare la propria rotta sarà sempre visto come un disertore.
E noi resteremo una splendida, appassionata nazione di tifosi sfigati, incapace di diventare una matura società di individui liberi.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
















