SINNER, PERCHÉ IL CAMPIONE METTE IN CRISI L’ITALIANO MEDIO

Non è una questione da bar sport, ma da coscienza collettiva.

Perché una fetta così rumorosa d’Italia sembra non amare, quasi detestare, Jannik Sinner?

L’ultimo pretesto è stato un forfait alla Coppa Davis. Una scelta professionale, logica, quasi banale nella sua strategica necessità. Scelta fatta più volte da tutti i più grandi campioni del Tennis.

Eppure, ha scatenato l’ennesimo processo sommario.

Non sul suo tennis, no. Quello è inattaccabile, una sintesi quasi algoritmica di potenza e intelligenza tattica che ammutolisce anche i detrattori più accaniti.

Il problema è un altro. È più profondo.

È Jannik Sinner stesso. È l’uomo Sinner. L’italiano che per tanti italiani è irraggiungibile perché è specchio della loro nullità. E quell’uomo, per la nostra grammatica culturale, è un eretico.

Quello che vive all’estero e non paga le tasse in Italia, accusato da chi chiede di ricevere i soldi degli straordinari in nero o che lotta con gli altri carrelli per arrivare primo alla cassa appena aperta, scavalcando chi gli stava davanti. O da quello che rallenta in prossimità dei tutor e poi schiaccia il piede destro come non ci fosse un domani, non appena è libero da polizia e telecamere.

L’ARCHETIPO INFRANTO: IL DIO SENZA FERITE

Siamo un popolo che ha bisogno del dramma. La nostra epica nazionale è fatta di sangue, sudore e lacrime.

Amiamo Roberto Baggio per il rigore sbagliato a Pasadena, non solo per il Divin Codino. Abbiamo idolatrato Marco Pantani per le sue fughe disperate in salita, ma anche per la sua tragica, umanissima caduta.

Persino Valentino Rossi, un vincente seriale, ha costruito il suo mito su sorpassi impossibili, rivalità viscerali e una teatralità da commedia dell’arte.

I nostri eroi sono lo specchio di noi stessi: geniali e fallibili, capaci di toccare il cielo per poi sprofondare nella polvere, sempre pronti a rialzarsi con una smorfia di dolore e tanto orgoglio.

Ci offrono la catarsi. Ci dicono: “Vedete? Si può sbagliare, si può soffrire, ma si torna più forti di prima”.

Noi ci sguazziamo in queste sciocchezze. Vi ricorda qualcosa la pandemia? “Torneremo ad abbracciarci più forte di prima?”

Beh, viste le discriminazioni di qualche mese dopo quella frase a effetto, direi che le cose non sono andate proprio benissimo.

Tuttavia, i campioni come Baggio e Rossi ci perdonano le nostre stesse imperfezioni.

Jannik Sinner non offre questa consolazione.

Lui non urla. Non polemizza. Non cerca alibi nel vento o nella sfortuna.

Perde un punto e si risistema le corde della racchetta con la freddezza di un ingegnere che ricalibra un sensore. Vince un torneo Masters 1000 e la sua esultanza è un pugno al cielo, un sorriso tirato che sembra quasi chiedere scusa per il disturbo, mentre tanti italiani si sbatterebbero a terra in scene tragicomiche, urlando come Silvester Stallone in Rocky.

Sinner vince, e basta. Ha successo, ma non lo sbandiera con cappotti di visone, cuffie da astronauta o altre corbellerie dei divi del calcio.

E questa sua normalità, in Italia, è un affronto.

La sua perfezione non è iconica, ma accusatoria. La sua disciplina non è un esempio, è un rimprovero silenzioso a chi vive di chiacchiere, a chi si giustifica “è colpa dell’insegnante che pretende troppo”, a chi “domani inizio, forse lunedì”.

Sinner non riflette il popolo, al contrario incarna un’élite dello spirito, un’aristocrazia dell’autocontrollo che ci mette a disagio perché quando perde si chiede dove può migliorare e quale lavoro debba fare. Non incolpa l’arbitro, non crede alla sfortuna, ma ha voglia di lavorare e sudare ancora di più.

Per l’italiano medio, lavorare e sudare di più è un affronto. L’italiano medio vive una vita fatta di sfortune, di datori di lavoro cattivissimi, di insegnanti che sono folli scampati a un manicomio.

Incece, Sinner vive una vita per cui gli errori sono suoi e non imputabili a nessun altro.

IL PECCATO ORIGINALE: LA LIBERTÀ COME ATTO DI INSUBORDINAZIONE

C’è un filo rosso che lega la reazione a Sinner che salta la Coppa Davis alla nostra storia politica ed economica. È il sospetto atavico verso l’individuo.

I nostri pilastri sono stati la res publica romana, il Comune medievale, la Chiesa Cattolica e, infine, uno Stato fortemente centralizzato. Strutture che, in modi diversi, hanno sempre predicato la subordinazione del singolo al collettivo.

Il “bene comune” – o ciò che veniva definito tale – ha sempre prevalso sull’ambizione personale.

Perciò chi ha successo è sempre invidiato, in Italia.

Per secoli, ci è stato insegnato che la vera virtù è nell’obbedienza, nel sacrificio per il gruppo, sia esso la famiglia, la parrocchia, il partito o la Nazione.

La libertà individuale, quella vera, radicale, è sempre stata vista come un lusso pericoloso. Un atto di egoismo. Un affronto.

Ecco perché la scelta di Sinner, un ragazzo-azienda che gestisce il proprio corpo-capitale con una logica da CEO, viene percepita come un atto di tradimento. Un “no” alla maglia azzurra diventa un “no” all’Italia intera.

La sua libertà di scegliere il meglio per la sua carriera a lungo termine rompe lo schema ancestrale per cui il “dovere” verso la tribù viene prima della volontà.

La cosa ridicola è che chi lo critica borbotta se il datore di lavoro gli chiede di lavorare il sabato, è il pensionato che lo critica dal divano, il giovane che lo insulta su Instagram anziché studiare.

Perché, in fondo, non stanno processando un tennista, ma stanno punendo colui che osa anteporre il proprio percorso, la propria visione, alla richiesta del gruppo. Un tizio che si permette di allenarsi per preparare al meglio nuove sfide.

Uno che il sabato mattina fa il suo dovere e anche domenica, se serve. Uno che non perde tempo su Instagram, perché lo attendono ore di duro lavoro per essere il migliore di tutti.

Sinner non ha fatto nulla di male, oggettivamente. Ma ha commesso il peccato culturale più grave: ha agito come un individuo sovrano di se stesso in un Paese in cui i più sono sempre preoccupati di che cosa pensino gli altri di loro.

L’ECONOMIA DELLA PERFORMANCE E L’INVIDIA DEL SILENZIO

Sinner non è solo un atleta. È una startup ad altissima crescita, con un piano industriale impeccabile e un team di manager che ottimizzano ogni variabile: dalla nutrizione alla programmazione, dalla comunicazione al recupero fisico.

Un’entità che non lascia nulla al caso. Perciò funziona.

In un’economia come quella italiana, spesso basata sull’improvvisazione e su parenti e amici messi ai vertici, al posto di persone competenti per davvero, in aziende che contano sull’arte di arrangiarsi, un modello come quello di Sinner è alieno. E spaventa.

In più, Sinner è ricco. Giovane. Riservato.

Questo trittico è letale nel nostro panorama sociale.

La ricchezza, se non ostentata in modo quasi caricaturale (rendendola quasi folkloristica, alla Fedez, per intenderci), o giustificata da una narrativa di sofferenza e di riscatto, genera una forma corrosiva di malessere che non è semplice gelosia, ma invidia perniciosamente letale per chi la prova.

Perciò questi italiani malati vivono nella perenne speranza che Sinner perda, che si faccia male, che Alcaraz o altri lo scavalchino in classifica.

Perché Sinner non dà appigli. Non fa gossip, non ostenta auto di lusso, non partecipa al circo mediatico e il suo successo è silenzioso, metodico, quasi inevitabile, ma frutto di tantissimo duro lavoro. Tutte cose che per l’italiano medio sono inconcepibili e alimentano il malumore dei frustrati.

È la quiete del primo della classe, quello che va d’accordo con l’insegnante che per tanti è odioso, quello che rende insopportabile il chiasso di chi non ha studiato.

È un dannato coraggioso, un uomo che sa scegliere per sé senza l’assillo di voler soddisfare i nonni, i genitori, il vicino di casa, la “gente”, perché non vive nella perenne paura di “cosa penserà la gente”.

Il suo essere “noioso” è la sua arma più potente, perché lo rende inattaccabile sul piano umano e costringe a confrontarsi con l’unica cosa che conta: la sua schiacciante superiorità nel suo campo.

IMPARARE LA LIBERTÀ O RIMANERE PRIGIONIERI DELLA PASSIONE?

Allora, gli italiani odiano Sinner?

No. L’italiano medio non odia Sinner. Odia se stesso.

Teme ciò che Sinner rappresenta: la possibilità che esista un modello di successo diverso da quello che conosciamo. Un modello non basato sulla passione teatrale, ma sulla dedizione, sul duro lavoro.

Non sul genio e sregolatezza, ma sul talento coltivato con disciplina ossessiva. Non sull’appartenenza al gruppo, ma sulla forza dell’individuo.

Sulle sconfitte per colpa propria e non del professore, dell’arbitro o della sfortuna.

Sinner è una lezione di liberalismo classico in un Paese che si riempie la bocca di libertà, ma nel profondo è costituito da gente abituata a farsi ottriare ogni aspetto della vita, più a proprio agio con le dinamiche passionali della comunità che con le responsabilità dell’autodeterminazione.

Perché l’autodeterminazione prevede responsabilità. E l’italiano medio non le vuole, perché è sempre colpa di altri. Sempre colpa dello Stato.

Possiamo continuare a chiedere a Sinner di essere come noi: imperfetto, emotivo, drammatico, sfortunato.

Di urlare un po’ di più, di soffrire in pubblico, di anteporre il cuore alla ragione. Di non allenarsi come un marziano, per passare un po’ di tempo sul divano, in modo da insultare qualcuno sui social.

Oppure possiamo fare lo sforzo più difficile: osservarlo, in silenzio, e accettare che la libertà non è uno slogan da sventolare, ma una pratica difficile che consiste nel rispettare le scelte altrui, soprattutto quando non le capiamo o non ci rassicurano.

Soprattutto quando ci mostrano che si può essere decisamente migliori di noi.

Finché non impareremo questa lezione, ogni Jannik Sinner che oserà tracciare la propria rotta sarà sempre visto come un disertore.

E noi resteremo una splendida, appassionata nazione di tifosi sfigati, incapace di diventare una matura società di individui liberi.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’OFFERTA DI TREGUA SUL FRONTE UCRAINO PER DOCUMENTARE ANNI DI FAKE NEWS DEL GIORNALISMO OCCIDENTALE

Viviamo in un’era di dissonanza cognitiva. Una patologia terminale.

Un’era in cui la narrazione ufficiale, martellata senza sosta dai megafoni mediatici di un establishment in preda al panico, si scontra violentemente contro il muro granitico dei fatti e della realtà.

La chiamano informazione, ma è un’operazione di ingegneria del consenso su scala globale, forse l’ultima grande industria rimasta a un Occidente che ha delocalizzato tutto, persino la propria capacità di analisi strategica.

Ci mostrano immagini di leader sorridenti, di eserciti invincibili, di un ordine basato su regole che noi stessi abbiamo scritto e che ora calpestiamo con disinvoltura.

Ma la realtà, quella vera, si manifesta nel fango delle trincee di Pokrovsk, in ciò che resta di Gaza e nei corridoi del potere di Bruxelles, dove la paura ha ormai soppiantato la strategia.

IL TEATRO DI POKROVSK: LA VITA UMANA COME CAPITALE SIMBOLICO

La guerra in Ucraina doveva essere il capolavoro della deterrenza occidentale e della forza della NATO, invece è diventata il suo epitaffio. Le forze russe stanno chiudendo una tenaglia d’acciaio sulla città strategica di Pokrovsk, un accerchiamento che non ammette altra opzione se non la fuga.

Eppure, l’ordine di ritirata tarda ad arrivare sebbene un ritiro ordinato per preservare le forze sarebbe l’unica scelta logica, tuttavia prevale la scelta di sacrificare quei soldati.

Questi uomini ucraini vengono mossi su una scacchiera dove la loro sopravvivenza è secondaria rispetto all’immagine proiettata.

Per Kiev, la narrazione della resistenza a oltranza è propaganda, è un simbolo. È la merce più preziosa da esibire ai partner occidentali.

Al contrario, un esercito che si ritira strategicamente sarebbe un esercito che appare al collasso. E un esercito in collasso non riceve i miliardi di dollari di cui ha disperatamente bisogno.

Ogni giorno in più che la bandiera ucraina sventola su Pokrovsk, anche se su un cumulo di macerie difeso da un manipolo di eroi condannati, è un giorno guadagnato sul fronte degli aiuti.

La mossa di Putin di offrire una tregua “per i giornalisti” è di una freddezza quasi teatrale, ma serve a smontare la propaganda ucraina su cui tanti media occidentali hanno costruito anni di fake news, spacciandole per notizie.

Quello di Putin non è un gesto umanitario, ma un invito al mondo a documentare i fatti e la realtà, la disfatta che sta per compiersi, smascherando la finzione della propaganda.

È la comunicazione del potere applicata con precisione chirurgica. E mentre Zelenskyy elogia la “distruzione dell’occupante”, i suoi uomini muoiono intrappolati in una sacca, sacrificati sull’altare della percezione.

L’ARSENALE DELLA REALTÀ CONTRO L’ARSENALE DELLA PROPAGANDA

Mentre i nostri guru dell’informazione sono impegnati a tenere in vita la narrazione della Russia allo sbando e dell’Ucraina pronta a vincere, Mosca risponde sul piano della realtà, offrendo ai nostri guru dell’informazione di documentare cosa accade davvero sul campo di battaglia.

Altro che pale, microchip, muli e altre sciocchezze!

La Russia testa con successo armi che rendono obsolete le nostre concezioni di guerra: il missile a propulsione nucleare Burevestnik, il drone sottomarino Poseidon.

Non sono solo armi avanzate che polverizzano la propaganda della Mosca allo sbando, ma sono messaggi in codice che il nostro establishment, accecato dalla propria stessa propaganda, si rifiuta di decodificare.

Eppure, il messaggio è semplice: “La vostra propaganda si scontra contro la nostra superiorità tecnologica. Potete raccontare ciò che volete, ma la fisica dei missili ipersonici non si piega alle fake news”.

L’Occidente, intanto, vede i suoi arsenali svuotarsi. I dati del Kiel Institute mostrano un crollo verticale delle forniture militari. E, in questo vuoto strategico, matura il panico finanziario.

LA PIRATERIA DI STATO E L’AUTOGOL ECONOMICO

Un impero in declino compie sempre due errori fatali: sopravvaluta la propria forza e sottovaluta l’intelligenza degli altri.

L’idea, accarezzata a Bruxelles, di confiscare i 140 miliardi di euro di asset sovrani russi non è una mossa strategica, ma un atto di pirateria di Stato che è l’ammissione del fallimento totale del regime sanzionatorio. È la distruzione volontaria della fiducia su cui si fonda l’intero sistema finanziario occidentale: la certezza del diritto.

Perché l’India, il Brasile, l’Arabia Saudita dovrebbero ancora fidarsi di un sistema che può sequestrare le loro riserve sovrane per capriccio politico?

È un autogol economico di proporzioni storiche, mascherato da imperativo morale che costerà ai nostri figli decenni di emigrazioni all’estero per trovare un lavoro decente, fuori dall’Europa.

L’OCCIDENTE CHE CONOSCEVAMO È MORTO O ERA UNA FINZIONE

Se l’Ucraina è il sintomo della nostra debolezza esterna, Israele è lo specchio della nostra fragilità interna. Ci viene venduta come un’oasi di democrazia, ma la realtà è quella di una società profondamente lacerata.

Le proteste degli ultra-ortodossi contro la leva militare non sono folklore, ma la spia di un contratto sociale in frantumi.

Uno Stato che chiede il sacrificio supremo solo a una parte dei suoi cittadini, mentre un’altra cresce demograficamente vivendo di sussidi, è uno stato che sta divorando se stesso.

È una teocrazia etnica in guerra perpetua, non di certo una democrazia liberale.

Anche qui, la nostra incapacità di mediare è palese. Siamo diventati semplici fornitori di armi per una delle parti, perdendo ogni credibilità e alimentando un ciclo di violenza che, come in Ucraina, non abbiamo né la volontà né la capacità di fermare.

OLTRE IL VELO: L’ORA DELLA VERITÀ

L’accerchiamento di Pokrovsk, il panico a Bruxelles, le piazze di Gerusalemme, sono tutti punti che si uniscono per disegnare il ritratto di un Occidente che ha perso il contatto con la realtà.

Un impero in crisi cognitiva che si nutre di illusioni e si rifiuta di accettare l’avvento di un mondo multipolare.

Siamo sonnambuli verso la catastrofe, cullati da una ninna nanna di bugie ripetuta dai nostri pennivendoli della propaganda, che ci raccontano ancora della nostra superiorità morale.

Ma la storia non fa sconti e la realtà presenta sempre il conto. E il nostro conto da pagare sarà salatissimo.

Quando arriverà il punto in cui il prezzo degli ucraini sarà finalmente superiore a quello della propaganda?

Per l’uomo nella trincea di Pokrovsk, che attende un ordine di ritirata che potrebbe non arrivare mai, questa domanda è la differenza tra la vita e la morte.

Ma, una volta caduta anche Pokrovsk, città importantissima per l’Ucraina, il suicidio dell’Occidente si fermerà prima della caduta di Kiev o l’unica speranza degli ucraini è che Mosca si accontenti di liberare solo tutte le regioni russofone, per spartirsi con gli USA ciò che resta del Paese?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

OTTOBRE, MORTE DELLA PROPAGANDA SULLA GUERRA IN UCRAINA

Un dato. Freddo, spietato, inappellabile.

Ottobre è stato il mese con il più alto numero di attacchi missilistici russi sull’Ucraina mai registrato.

Un’escalation del 46% rispetto a settembre. Non è un’opinione, ma matematica balistica.

È la cruda contabilità della distruzione che piove dal cielo, notte dopo notte, mentre il mondo occidentale si culla in narrazioni sempre più fragili e lontane anni luce dal salvare vite ucraine.

Questa tempesta di fuoco non è un atto casuale, ma è un messaggio strategico che lacera il tessuto della propaganda, esponendo una verità scomoda che le cancellerie e i comandi militari europei faticano a contenere.

La verità è che sul campo, lontano dalle mappe colorate, dai briefing rassicuranti e dalle sciocchezze dei giornalisti del mainstream, la situazione sta precipitando.

E in nessun luogo questa dissonanza cognitiva è più assordante che a Pokrovsk.

POKROVSK: L’EPICENTRO DELLA FRATTURA NARRATIVA

Per settimane, è stato un sussurro. Oggi è il simbolo di una narrazione che si sgretola. La gestione comunicativa della battaglia per questa città è un caso di studio da manuale su come la propaganda, sotto pressione, perda coerenza fino a diventare parodia di se stessa.

Prima, la negazione. Nessuna incursione russa.

Poi, l’ammissione edulcorata: un manipolo di 200 soldati nemici, quasi un disturbo trascurabile.

Ma la realtà sul terreno, fatta di fango, sangue e avanzate inesorabili, non si lascia imbrigliare a lungo. E così, in una danza macabra di cifre, i 200 diventano improvvisamente 11.000. Poi, con un balzo che sfida ogni logica logistica, 170.000.

Cosa ci dicono questi numeri schizofrenici?

Ci parlano di panico. Ci parlano di un comando che non controlla più la narrazione perché sta perdendo il controllo del territorio.

Per un soldato ucraino intrappolato in quella morsa, queste cifre non sono astrazioni geopolitiche, ma il suono crescente dell’artiglieria nemica, sono la consapevolezza che i rinforzi promessi potrebbero non arrivare mai, sono il presagio di un accerchiamento che i comunicati ufficiali si ostinano a negare.

Sono la sconfitta inevitabile che se ne frega della propaganda.

È la menzogna che muore nella realtà della trincea

LA PIOGGIA NON CADE SOLO DA UNA PARTE DEL FRONTE. PER LA PROPAGANDA, INVECE…

E quando la realtà diventa troppo ingombrante per essere negata, si ricorre al surreale.

L’Institute for the Study of the War, istituto d’analisi americano e lontano da qualsivoglia vicinanza a Putin, ci dice che la pioggia e la nebbia impediscono ai droni ucraini di operare efficacemente.

Fermiamoci. Respiriamo. E analizziamo.

L’istituto ammette la sconfitta degli ucraini, ma il motivo della disfatta sembra un insulto all’intelligenza. Un tentativo maldestro di attribuire al meteo le responsabilità di un fallimento tattico.

Le leggi della fisica non hanno tessera di partito e la nebbia che acceca un drone ucraino è la stessa che dovrebbe accecare un drone russo. La pioggia che impantana un veicolo ucraino è la stessa che frena un blindato russo. E, se il meteo ferma le armi NATO usate dall’Ucraina, c’è una sola spiegazione: le armi russe sono superiori.

Questa giustificazione è il preludio narrativo alla sconfitta.

È la preparazione del terreno mediatico per poter dire, un domani: “Abbiamo perso, ma è stata colpa del tempo”. Il famoso inverno russo.

È una tecnica antica quanto la guerra stessa, un’eco lontano di altre disfatte, da Kursk ad oggi, dove si è sempre cercato un capro espiatorio esterno per mascherare errori strategici o inferiorità sul campo. Inferiorità anche di quei famosi soldati dal fluente inglese madrelingua.

È il segnale più chiaro che la situazione a Pokrovsk non è solo critica, ma, con ogni probabilità, disperata.

I NUMERI NON MENTONO: L’ECONOMIA DI UNA GUERRA DI LOGORAMENTO

Torniamo al dato iniziale. Quel +46% di missili.

Mosca, conscia del logoramento delle difese aeree ucraine e del tentennamento degli aiuti occidentali, sta alzando il costo della resistenza a un livello insostenibile.

Ogni missile che colpisce una centrale elettrica, un deposito di grano o un nodo ferroviario non è solo una vittoria militare momentanea, ma un attacco diretto al PIL ucraino, un colpo al cuore della sua capacità di sostenere uno sforzo bellico a lungo termine.

È una strategia di dissanguamento economico prima che il “Generale Inverno” congeli il fronte.

L’Ucraina risponde come può. Con coraggio e intelligenza tattica, colpendo le raffinerie e i depositi di carburante russi.

Ma è una mossa asimmetrica, disperata, ma lucida, volta a intaccare la macchina economica che alimenta l’invasione.

Tuttavia, questa guerra, ormai, si combatte su due fronti: quello fisico, del territorio, e quello economico, della sostenibilità. Il record di missili di ottobre ci dice che la Russia sta spingendo sull’acceleratore in entrambi.

E l’Ucraina, come sosteniamo dal 2022, non ha alcuna possibilità di uscirne bene, se non attraverso una trattativa. Fosse anche una resa.

Perché, anche nel caso in cui la NATO desse armi più pesanti e in grado di colpire la Russia, a qual punto Mosca sarebbe autorizzata a bombardare con armi atomiche Kiev e dintorni.

L’Ucraina e gli ucraini hanno solo una via d’uscita: la pace. Giusta, ingiusta, chiamatela come vi pare, ma non esiste altra via che possa garantire la fine delle morti e la sopravvivenza del Paese.

OLTRE LA NEBBIA DELLA DISINFORMAZIONE

La verità, in guerra, non è mai pura. È un mosaico frammentato, dove ogni tessera è sporca di fango, polvere da sparo e interessi di parte. Il nostro compito, come osservatori, non è tifare. È capire.

E oggi, capire significa riconoscere l’enorme, crescente voragine tra la realtà brutale del fronte, fatta di accerchiamenti, piogge di missili e perdite umane spaventose, e le narrazioni consolatorie che ci vengono servite da chi ci ha narrato scemenze su pale e microchip.

I numeri hanno una loro ostinata onestà. E i numeri di ottobre ci raccontano una storia di escalation e pressione massima, una storia che le favole sulla nebbia a senso unico non possono più nascondere.

La prima vittima della guerra è la verità.

Ma c’è una seconda vittima: l’intelligenza di chi non riesce a riconoscere la verità e crede ancora a chi narra di controffensive, di microchip smontati dagli elettrodomestici, di Mosca al tappeto grazie alle sanzioni, di coreani in soccorso a un esercito senza più giovani da mandare al fronte, di muli usati al posto dell’artiglieria pesante distrutta dall’esercito ucraino, e alle altre, troppe, sciocchezze che una certa propaganda ha spacciato per giornalismo.

Perché, mentre i nostri illustri giornalisti ci raccontano tali sciocchezze, gli ucraini continuano a morire. E non lasciano balle su cui ridere, ma sedie vuote intorno al tavolo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Un record di missili russi in ottobre smaschera la propaganda sulla guerra in Ucraina. Mentre la narrazione ufficiale su Pokrovsk si sgretola, un'analisi tagliente svela la cruda realtà del fronte, ignorata dai bollettini ufficiali e dalle giustificazioni surreali.

PERCHÉ LA CINA ABBANDONA L’AUTO ELETTRICA

In Cina, ci sono immagini che raccontano la realtà più di mille parole.

Interminabili campi alla periferia di metropoli, trasformati in silenziosi cimiteri di automobili elettriche.

Migliaia di veicoli identici, nuovi di zecca, coperti di polvere ed erbacce, parcheggiati in file ordinate verso un orizzonte che non raggiungeranno mai.

Sono il simbolo di una sbornia da 220 miliardi di dollari con cui Pechino ha drogato per quindici anni il suo mercato dei veicoli a nuova energia (NEV).

Oggi, il Partito Comunista ha staccato la spina all’auto elettrica.

Con una decisione improvvisa, quanto brutale, la Cina ha annunciato lo stop ai sussidi per le auto elettriche, escludendole dal sacro Graal della sua pianificazione industriale, il piano quinquennale 2026-2030.

Si tratta di un vero terremoto, della fine di un’era.

Ma non è solo il tramonto dell’auto elettrica, ma il segnale che il Drago non vuole più essere l’officina del mondo, ma il capo del mondo.

IL TRAMONTO DELL’AUTO ELETTRICA

Per oltre un decennio, la narrazione mainstream è stata monolitica.

La Cina, leader visionaria della transizione verde, costruiva un futuro a zero emissioni a colpi di incentivi statali perché anticipava i tempi. Non c’era alternativa all’auto elettrica. E i numeri, superficialmente, davano ragione a questa narrazione.

Oltre 7,7 milioni di auto elettriche vendute in Cina solo nel 2024. Un mercato interno che assorbe più della metà della produzione globale.

Un successo, ma un successo artificiale, ipertrofico, insostenibile, nato grazie alla droga statale.

Il governo oggi parla di “maturità del mercato”.

Una formula elegante, per descrivere un organismo che ha raggiunto il limite della sua crescita dopata.

Il messaggio, letto tra le righe del gergo burocratico di Pechino, è spietato e, tradotto nella lingua dei comuni mortali, suona più meno così: la festa è finita.

D’ora in poi, si sopravvive da soli. L’eliminazione graduale degli sconti fiscali entro il 2027 sarà il colpo di grazia. La culla dorata è stata rimossa; ora inizia la marcia nella giungla.

E ne vedremo delle belle.

DIETRO LA MASCHERA DEL SUCCESSO, LA CANNIBALIZZAZIONE DEL MERCATO

La realtà, per chi sa dove guardare oltre le propagande, è una crisi industriale mascherata da trionfo.

La politica dei sussidi a pioggia ha generato una sovraccapacità produttiva senza precedenti. Centinaia di marchi, molti dei quali mere repliche l’uno dell’altro, sono spuntati come funghi dopo la pioggia, attirati dal denaro facile dello Stato.

Ciò ha generato una “guerra dei prezzi” suicida che sta polverizzando i margini di profitto e trasformando le concessionarie in arene per combattimenti all’ultimo sangue. Si produce molto più di quanto si possa vendere. E si p costretti a vendere a prezzi che non garantiscono nemmeno la sopravvivenza.

È una bolla speculativa a cui manca solo la dara del decesso.

Lo stesso Xi Jinping, con un raro monito pubblico, ha denunciato il rischio di “investimenti ridondanti”, un eufemismo per definire il caos cannibale che le politiche regionali stavano creando, con ogni provincia desiderosa della sua fetta di “torta elettrica”.

Lo stop ai sussidi non è solo una mossa economica, quindi, ma un atto di disciplina imposto dall’alto per fermare l’emorragia, per potare i rami secchi di un albero cresciuto in modo incontrollato che rischia di fare molto male alla Cina.

Molte di quelle aziende nate per decreto politico sono ora destinate a morire per lo stesso decreto. Una “selezione industriale naturale”, orchestrata con la precisione di un chirurgo.

E chi ha comprato quelle auto, rischia di trovarsi alla guida di ferraglia che vale meno un modellino nei negozi di giocattoli.

L’ESODO DELLE AUTO ELETTRICHE INVENDUTE VERSO L’EUROPA, COME ARMA GEOPOLITICA

Cosa fare di milioni di auto che il mercato interno non può più assorbire?

La risposta è nelle nostre concessionarie spuntate come funghi, e nei corridoi dei grandi centri commerciali, nelle pubblicità di marchi mai sentiti prima che spuntano ogni settimana.

È l’esportazione di tutte queste auto che in Cina non si vendono più.

La decisione di Pechino di “liberare” il mercato interno coincide, non a caso, con una spinta aggressiva verso l’esterno.

Soprattutto verso l’Europa, dove la produzione di auto a motore endotermico è crollata e i prezzi sono aumentati a dismisura per spalmare gli investimenti sull’elettrico, visto che le auto elettriche non si vendono come previsto.

Ma quella della Cina non è una semplice strategia commerciale. È la trasformazione di un problema interno, cioè la sovraccapacità, in un’arma di penetrazione geopolitica.

L’ondata di veicoli elettrici cinesi a basso costo che si sta riversando sui mercati europei non è solo il frutto di una maggiore efficienza produttiva, ma è il risultato diretto di una crisi di saturazione interna. Di fatto, Pechino sta esportando la sua guerra dei prezzi, mettendo sotto una pressione insostenibile i produttori automobilistici storici del Vecchio Continente.

Anziché gestire il problema in casa, lo sta portando a casa nostra. L’arena non è più il territorio cinese, ma l’Europa.

È un modo per salvare la propria industria scaricando le eccedenze per conquistare quote di mercato strategiche in un settore chiave per l’economia globale.

IL SACRIFICIO DEL RE: PERCHÉ PECHINO HA SCELTO L’IA E I CHIP

Ma la mossa da gran maestro è la scelta di ciò che sostituirà le auto elettriche come priorità nazionali.

Il nuovo piano quinquennale parla chiaro: intelligenza artificiale, produzione di semiconduttori, bio-produzione, tecnologia quantistica, energia dell’idrogeno.

La Cina ha capito che le automobili, anche quelle elettriche, sono un prodotto, sono il frutto della tecnologia, ma l’intelligenza artificiale, i chip avanzati, il calcolo quantistico, sono LA tecnologia.

Sono le fondamenta su cui si determinerà il potere economico, militare e politico del XXI secolo. E la sua leadership sul pianeta.

Pechino ha deciso di smettere di investire massicciamente nel prodotto finale per concentrare ogni risorsa nel controllo della filiera che genera quel prodotto.

È come smettere di finanziare la costruzione di case e lo sviluppo di industrie, per comprare tutte le cave di marmo e le acciaierie del mondo.

L’auto elettrica è stata il cavallo di Troia, lo strumento per sviluppare competenze su batterie e produzione di massa.

Ora che la missione è compiuta e il settore è diventato una palude competitiva che non rende più e non ha ulteriori sbocchi, almeno non nei prossimi dieci anni, viene declassato. Sacrificato sull’altare di una visione più alta, logica e intelligente.

Le risorse non sono infinite, perciò il Drago ha scelto di puntare non su ciò che è importante oggi, ma su ciò che sarà dominante domani.

E l’elettrico non lo sarà.

UNA LEZIONE DI REALPOLITIK INDUSTRIALE

La fine dei sussidi cinesi all’auto elettrica non è la cronaca di un fallimento, ma la dimostrazione agghiacciante di una lucidità strategica a lungo termine che le democrazie europee, imbrigliate nel ciclo breve delle elezioni e nel fanatismo dell’era von der Leyen, faticano a comprendere.

È una lezione di realtà ed efficienza industriale.

Quindici anni fa, le auto cinesi facevano ridere. Poi la Cina ha usato il denaro pubblico per creare dal nulla un’industria leader a livello mondiale, ha saturato il suo mercato interno, ha imparato tutto ciò che c’era da imparare e ora, con un pragmatismo brutale, sta lasciando che i suoi “campioni” si sbranino a vicenda per far emergere i più forti, pronti a conquistare il mondo.

Nel frattempo, sposta il suo immenso potere di investimento statale sulla prossima frontiera, quella decisiva dell’intelligenza artificiale e dei semiconduttori.

Quei cimiteri di auto elettriche sono il simbolo di un errore solo se ci si ferma all’ecosistema dell’industria automobilistica.

Ma se si apre la mente e si osserva con gli occhi di analisti capaci, quei milioni di auto invendute sono le crisalidi abbandonate di una farfalla che ha già preso il volo verso un’altra destinazione.

E il mondo, distratto dal luccichio delle carrozzerie elettriche, rischia di non accorgersi dove sta andando a posarsi.

L’Europa, come sempre negli ultimi anni, può solo fagocitare gli scarti della Cina, quelle auto che i cinesi non comprano, perché i suoi leader non possono ammettere di aver annientato l’industria del motore endotermico e non hanno le competenze per guidare il futuro.

Al massimo possono restare in attesa che la stessa Cina o gli USA ci dicano cosa comprare in futuro e su cosa investire.

Un racconto romanzato, ma autentico e narrato da chi ha vissuto in prima persona il rapimento del generale Dozier.

Uno spaccato della società italiana e un pezzo di storia di cui tanti sanno davvero poco.

Il generale a capo delle forze NATO in Europa rapito dalle Brigate Rosse, mentre gli italiani degli anni Ottanta speravano in Zoff e Rossi per l’Italia ai mondiali e gioivano per un partigiano come Presidente.

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Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA GRANDE ILLUSIONE EUROPEA, MENTRE TRUMP E PUTIN DECIDONO LE SORTI DEL PIANETA

C’è una nebbia densa che ammanta i cieli d’Europa, un senso di costrizione che impedisce di respirare l’aria limpida della realtà.

Mentre i leader europei e i nostri salotti televisivi si affannano a dipingere l’affresco di una battaglia epica tra il “democratico” Occidente e il dittatore di Mosca, tra un Trump isolazionista e un Putin espansionista, stanno perdendo la trama principale della realtà.

La stanno perdendo del tutto.

Perché non esiste alcuno scontro ideologico tra Trump e Putin. Esiste un contatto. Un’intesa profonda, non basata sull’amicizia, ma su qualcosa di molto più solido e spietato: la reciproca comprensione del potere. Una pace ideologica che sta ridisegnando il mondo sulla pelle degli altri.

IL TEATRO DELL’ASSURDO: POKROVSK E LA MATEMATICA DELLA PROPAGANDA

Prendiamo come esempio Pokrovsk. La linea del fronte. L’epicentro del dramma umano che chiamiamo “guerra in Ucraina”.

Un dramma che andrebbe fermato a ogni costo, mentre i l’Europa spinge per la guerra a oltranza, fino all’ultimo ucraino e poi chissà.

Il presidente Zelenskyy, con l’eroismo comunicativo che lo contraddistingue, parlava di 200 soldati russi infiltrati, quasi un fastidio, un problema sotto controllo. Una narrazione perfetta per le telecamere occidentali, per i finanziatori che necessitano di credere in una vittoria possibile.

Ma i fatti sono arrivati poche ore dopo a presentarci la realtà.

L’Institute for the Study of War (ISW), un think tank che non può certo essere accusato di simpatie filo-russe, ci ha sbattuto in faccia un’altra cifra: undicimila. 11.000 soldati russi concentrati su quel singolo settore. Non 200. Undicimila.

La differenza non può essere una svista e neppure un errore di calcolo. È un abisso. È il divario tra la propaganda necessaria a sostenere uno sforzo bellico e la realtà di una “sacca” militare che si sta chiudendo, inesorabilmente.

È la tragedia di soldati ucraini che muoiono mentre i loro leader devono, per necessità strategica, edulcorare la pillola amara al mondo che li sostiene e alle stesse famiglie ucraine, quelle che accompagnano i loro giovani alle stazioni al confine con la Polonia, perché scappino dalla follia della guerra.

In questo teatro, tra propaganda e realtà, Putin offre un cessate il fuoco di poche ore. Per permettere ai soldati accerchiati di arrendersi, certo. Ma soprattutto, offre un “corridoio mediatico”.

Invita i giornalisti occidentali a vedere la realtà. A documentare la disfatta che Kiev nega. È una mossa di comunicazione, non di pace.

Putin non sta offrendo una tregua, ma la prova della sua vittoria in Ucraina, sapendo che l’Occidente, aggrappato alla sua narrazione, non può accettare di guardare.

L’Ucraina, infatti, rifiuta. La definisce una “proposta disonesta”, mentre i leader europei parlano ancora di “pace giusta”, quella che nella storia non è mai esistita.

Certo quella di Putin è una proposta disonesta, ma è una disonestà che espone una debolezza che non si voleva ammettere.

Una disonestà che espone una disonestà più grande e che produce morti, perché sulla disonestà ucraini l’Occidente invia ancora armi, credendo in una vittoria possibile, ma mandando al macero gli ucraini e l’Ucraina.

IL RIFLESSO DAL VENEZUELA: QUANDO L’AGGRESSORE DIVENTA IL SALVATORE

Mentre la nebbia del Donbass accecano le capitali europee, la vera partita si gioca altrove. A migliaia di chilometri di distanza.

Sulle coste del Venezuela.

I media americani, dal Wall Street Journal al Miami Herald, parlano di un attacco imminente.

Nei Caraibi è stata schierata la più grande armata navale statunitense dai tempi della crisi dei missili di Cuba. Dai tempi in cui Kennedy pretese da Cuba ciò che Putin pretende dall’Ucraina.

Cacciatorpediniere, aerei da ricognizione, F-35, droni Reaper. Il pretesto ufficiale è la lotta ai cartelli della droga che, secondo Washington, avrebbe ramificazioni fino ai vertici del governo di Maduro.

Vi suona familiare?

Un paese sovrano, accusato di essere una minaccia (in questo caso, per la droga, in altri casi per l’espansionismo, per le armi chimiche), diventa il bersaglio di un’operazione militare preventiva.

Maduro, sentendo l’odore della polvere da sparo, fa quello che ogni leader nella sua posizione farebbe: chiama i suoi alleati. Chiama Putin. Chiama la Cina. Chiama l’Iran.

E qui, il quadro si completa.

Donald Trump, l’uomo che l’Europa dipinge come il burattino di Putin, smentisce categoricamente. Dice “no”. Nessun attacco.

E dice no perché un’operazione del genere, in questo momento, non rientra nel suo calcolo costi-benefici.

Ma il Pentagono, quell’entità che spesso agisce con una propria agenda, approva l’invio dei missili Tomahawk a lungo raggio all’Ucraina. Un’arma “game changer”, ci dicono.

Un’arma che, per inciso, richiede un addestramento e dei codici di lancio per cui il suo utilizzo necessita per forza di personale NATO che schiacci il bottone, fatto che darebbe a Mosca l’avallo giuridico per dichiarare di essere stata aggredita dalla NATO, con tutte le conseguenze atomiche del caso.

LA DOTTRINA TRUMP-PUTIN: UNA “PAX TRANSACTIONALIS” SULLA PELLE DEGLI ALTRI

Ma c’è qualcosa di più. Qualcosa che l’Europa non può, o non vuole, capire.

Continua a leggere la situazione con le lenti obsolete della Guerra Fredda, del conflitto ideologico.

E continua a raccontarla con la penna di chi ha raccontato supercazzole fin dall’inizio, dalle pale ottocentesche ai russi senza calzini che smontavano microchip, dai droni e gli sconfinamenti, all’attacco all’aereo di von der Leyen, che invece era a terra per un’avaria.

L’Europa non vede che Trump e Putin parlano la stessa lingua del realismo brutale, delle sfere d’influenza.

Per Trump, il mondo è un grande consiglio di amministrazione. L’Ucraina non è un “asset” strategico primario per gli Stati Uniti, ma un problema europeo che sta prosciugando le risorse americane.

Ecco perché ha accettato di lasciar fare agli europei, ma solo in cambio dell’acquisto di armi americane da inviare a Zelensky. Per abbattere le spese e portare a casa qualcosa.

Il Venezuela, invece, è nel suo “cortile di casa”. È una questione di sicurezza nazionale americana, una pedina nel suo emisfero. È ciò che l’Ucraina è per Putin.

La dottrina di Trump è semplice: ognuno si occupi dei propri problemi, a meno che non ci sia un accordo vantaggioso per l’America.

Per Putin, questo linguaggio è perfettamente comprensibile.

Egli considera l’Ucraina parte della sua irrinunciabile sfera di influenza. Riconosce, con la stessa logica spietata di Trump, che il Venezuela appartiene alla sfera d’influenza americana.

La chiamata di Maduro a Putin non è una richiesta di intervento militare diretto. È un segnale a Washington: “Se voi vi immischiate nel mio giardino, io potrei creare problemi nel vostro”.

L’intesa non è un’alleanza.

È un patto di non belligeranza tra due predatori alfa che si sono spartiti il territorio di caccia. Trump non vuole una guerra in Venezuela perché complicherebbe i suoi piani, ma riconosce implicitamente che quel territorio è “suo”. Putin non si sognerebbe mai di intervenire militarmente in Venezuela, ma usa la minaccia per garantirsi il via libera in Ucraina.

In sintesi, se Trump interviene in Ucraina, Putin lo fa in Venezuela. Se Putin interviene in Venezuela, Trump lo fa in Ucraina.

L’EUROPA E L’ILLUSIONE DEL CONFLITTO IDEOLOGICO

E l’Europa?

L’Europa è il bambino che guarda la partita di scacchi tra adulti e non capisce le mosse.

Continua a credere di essere un giocatore abile e apprezzato, quando in realtà è parte della scacchiera. Al più un pedone di poco conto, uno di quelli che si sacrificano subito dopo l’apertura.

I nostri leader, intrappolati in una retorica di “valori” e “democrazia”, non vedono che per Trump e Putin questi sono solo strumenti di marketing.

Se Trump desse l’ok ai Tomahawk in Ucraina, non sarebbe un atto di fede nella vittoria ucraina, ma un modo per indebolire ulteriormente la Russia, testare nuove armi e, come piacevole effetto collaterale, affossare l’economia europea, rendendola ancora più dipendente dagli USA.

La narrativa italiana, in particolare, è drammaticamente incastrata in un’altra dimensione. Si concentra sulla caricatura di Trump, sul timore di un suo disimpegno, senza capire che il suo “disimpegno” è in realtà un riposizionamento strategico che vede l’Europa come un concorrente economico da indebolire, non un alleato da difendere a tutti i costi.

Definire gli USA nostri alleati è idiota. E basta confrontare i costi energetici di oggi con quelli del 2021 perché lo capisca anche uno studente di Ragioneria.

Siamo costipati dalla nostra stessa propaganda. Non riusciamo a respirare, a vedere che mentre noi parliamo di principi, loro parlano di potere, di influenza, di soldi, di interessi.

Mentre noi finanziamo una guerra di logoramento con la speranza che la Russia crolli economicamente, un’illusione che ci costa 50 miliardi di dollari l’anno solo sul settore petrolifero russo, e che dopo quasi tre anni non si è ancora avverata, loro, Trump e Putin, hanno già stabilito le regole del gioco.

La partita, quindi non si gioca per stabilire chi vincerà in Ucraina, ma per vedere quale pezzo della scacchiera globale finirà nella sfera d’influenza di chi.

E, in questo gioco spietato, l’Europa, con la sua cecità strategica e con i suoi giornalisti-megafoni del potere, rischia di essere il premio più ambito.

L’Italia del rapimento Dozier non è solo uno spaccato storico del nostro Paese, ma l’evidenza di come alcune vicende ci sono state narrate in maniera distorta ed edulcorata.

Quello di Eva Ulian è un ricordo in prima persona dei fatti, vissuto dall’interno della base militare americana a Vicenza e a contatto con gli stessi rapitori delle Brigate Rosse.

Un libro consigliato dalla redazione di Tamago.

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Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

UNA BUONA NOTIZIA. MORTE (SOSPESA) DELLA PRIVACY EUROPEA

Si chiamava Chat Control.

Un nome mite, quasi amministrativo, per un’architettura di sorveglianza di una potenza senza precedenti, un grande controllo sulle idee che stava per diventare legge dell’Europa.

Nelle intenzioni, il suo intento era nobile, ma anche Mussolini e Hitler avevano intenti nobili. Nessuno nella storia ha mai avuto intenzioni non nobili nei confronti del proprio popolo.

E il chat control voleva proteggere i bambini dalla piaga indicibile della pedopornografia. Una causa talmente sacra da accecare, da giustificare quasi ogni mezzo. Compresa la censura alla libertà d’espressione.

Infatti, il mezzo proposto era l’apocalisse della privacy.

L’ANATOMIA DI UN MOSTRO TECNOCRATICO

Immaginate un postino a cui sia ordinato per legge di aprire ogni singola busta, leggere ogni lettera, esaminare ogni foto, prima di consegnarvela. Sarebbe un oltraggio, qualcosa di inaccettabile.

Ebbene questo postino stava per essere autorizzato dall’Europa, un postino algoritmo infallibile e onnipresente, installato direttamente dentro casa vostra, pronto a scrutare la vostra penna mentre scrivete.

Questo era il Chat Control.

La proposta era di un’arroganza tecnica terrificante. Per aggirare la barriera sacra della crittografia end-to-end, quella fortezza matematica che protegge i nostri scambi su WhatsApp, Signal e Messenger, rendendoli affari solo nostri, la Commissione aveva partorito il Client-Side Scanning, ovvero la scansione lato client.

In parole semplici, l’obbligo per le aziende tecnologiche di installare una spia governativa sui nostri telefoni.

Un confessore obbligatorio che avrebbe analizzato ogni nostra foto, ogni video, ogni link, prima che venisse sigillato dalla crittografia e spedito nel mondo.

Proprio come il postino nell’esempio che ti ha fatto venire i brividi.

Avrebbe trasformato ogni smartphone in un potenziale delatore. Avrebbe creato la più grande infrastruttura di sorveglianza di massa nella storia delle democrazie occidentali, un’arma che, una volta creata, avrebbe fatto gola a ogni regime, a ogni agenzia di intelligence, a ogni futuro tiranno desideroso di silenziare il dissenso.

Perché una backdoor costruita per cercare i mostri non si chiude quando li ha trovati, ma resta aperta. E attende solo un nuovo padrone con una nuova lista di cose da cercare, in nome del business e del dio danaro.

LA SORVEGLIANZA CAMBIA NOME, NON ANIMA

Il mostro, però, spaventava.

Il coro di proteste, levatosi sia dagli anarco-insurrezionalisti digitali sia dai più grandi crittografi del mondo, da aziende come Apple, da organizzazioni per i diritti civili e, soprattutto, da diversi governi, era assordante.

Allora, la presidenza belga del Consiglio, messa all’angolo, ha tentato la mossa del prestigiatore.

Via il Client-Side Scanning e benvenuta, Upload Moderation, Moderazione al caricamento.

Un capolavoro di neolingua orwelliana. La spia sul telefono non sarebbe più stata sempre accesa, ma si sarebbe attivata solo al momento della condivisione di un file. E, dettaglio squisito, solo con il “nostro consenso”.

Un consenso estorto, ovviamente. Meglio definirlo un ricatto.

“Vuoi continuare a inviare le foto dei tuoi figli ai nonni? Acconsenti a farle analizzare dal nostro algoritmo. Rifiuti? Ottimo, la tua app da oggi può inviare solo testo. Buona fortuna”.

Questa non è una scelta, ovviamente, ma una resa sotto minaccia. È la mercificazione di un diritto fondamentale, trasformato in una funzione premium a cui si accede cedendo la propria dignità digitale.

Il meccanismo tecnico sottostante rimaneva identico, il peccato originale intatto. Hanno solo cambiato il nome sulla porta dell’inquisitore, sperando che nessuno se ne accorgesse.

Per fortuna, tuttavia, non ha funzionato.

LA RESISTENZA INASPETTATA

Non sono bastate le pressioni, le negoziazioni a porte chiuse, l’appello emotivo alla protezione dei più deboli.

Una “minoranza di blocco” si è solidificata, un muro contro cui il progetto è andato a sbattere prima il 14 ottobre, quando la votazione sulla legge è stata rimandata a dicembre.

La Germania, memore dei fantasmi della Stasi, ha tenuto la linea, definendo la proposta una minaccia inaccettabile.

A lei si sono unite Francia, Austria, Polonia, Paesi Bassi. Nazioni diverse, con agende diverse, ma unite dalla consapevolezza che ci sono linee che non possono essere oltrepassate, perché il confine tra proteggere una società e controllarla è sottile, e Chat Control lo polverizzava.

Il voto, previsto come una formalità, è stato cancellato all’ultimo minuto.

Una ritirata strategica, non una sconfitta definitiva.

LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA? IL FUTURO INCERTO DELLA PRIVACY EUROPEA

Ora la bestia dorme, ma non è morta. Il dossier, scottante e velenoso, passerà nelle mani della prossima presidenza di turno, quella ungherese.

E quanto accade in Germania e in Gran Bretagna non fa sperare gli europei, come potrete leggere nell’articolo in fondo a questo che stai leggendo.

Abbiamo assistito a una battaglia cruciale per definire che tipo di società digitale vogliamo essere.

Una società che, in nome di una sicurezza assoluta e irraggiungibile, sacrifica lo spazio sacro della conversazione privata o una società matura, che capisce che la libertà è rischiosa, ma che la fiducia è il fondamento della comunicazione umana e che la lotta contro il male non può essere vinta trasformando tutti in sospettati?

La lotta contro la pedopornografia è una guerra santa che dobbiamo combattere con ogni mezzo legittimo.

Ma delegare la nostra coscienza a un algoritmo di sorveglianza, installare un guardiano della Stasi nelle nostre tasche, significa perdere un’altra guerra, quella per la nostra umanità e per le nostre democrazie.

La conversazione non è finita, dunque. È appena iniziata e ci riguarda tutti.

Perciò, aiutaci a restare in allerta.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

I GIOVANI UCRAINI SCAPPANO DALLA GUERRA OCCIDENTALE CONTRO LA RUSSIA

Dalla fine di agosto 2025, un fiume umano di giovani tra i 18 e i 22 ha lasciato l’Ucraina.

Circa 100.000 uomini.

Il motivo di questo esodo non è l’ennesimo disastro militare al fronte, ma un provvedimento legislativo paradossale, un emendamento voluto dal Primo Ministro del governo del presidente Zelensky, Yulia Svyrydenko, che, in piena legge marziale, ha convinto l’ex comico ad allentare le restrizioni all’espatrio per i soggetti alla mobilitazione.

Un atto di apparente liberalità che ha innescato un’esplosione di realismo disperato, dimostrando come gli ucraini non siano affatto quel popolo descritto dal mainstream occidentale, pronto a morire contro i russi a ogni costo.

LA LEGGE DELLA FUGA: TRA LIBERTÀ INDIVIDUALE E NECESSITÀ NAZIONALE

Solo nelle prime 24 ore dall’entrata in vigore della norma, 10.000 richieste di passaggio hanno collassato le autorità di frontiera. Il confine polacco-ucraino, un tempo simbolo di solidarietà europea, è diventato il palcoscenico principale di questa emorragia demografica.

Numeri che hanno la concretezza di un pugno nello stomaco ai tanti guru dell’informazione occidentale: quasi 100.000 giovani hanno varcato quella linea, diretti verso un futuro incerto, ma lontano dalla morte certa in trincea.

Oltre 1.700 a settimana vengono registrati in Germania, dove le autorità locali iniziano a mostrare il segno della stanchezza, mentre l’attenzione internazionale vacilla, forse per non dover ammettere che il popolo ucraino vuole diplomazia e non più armi.

Il governo di Kiev difende la mossa come un gesto di civiltà, un riconoscimento del diritto alla scelta, ma si tratta di una resa alla pressione delle famiglie ucraine, un calcolo politico per alleviare il malcontento sociale che poteva esplodere in una rivoluzione, in cambio di un indebolimento della riserva umana per la guerra.

LA SCELTA IMPOSSIBILE: TRA PATRIA E PROSPETTIVA

“Non voglio morire.”

Queste quattro parole, pronunciate in un sussurro da Markiyan, 19enne di Leopoli ora a Varsavia, e da tantissimi suoi coetanei, sono un’epigrafe per un’intera generazione.

Suo padre, un veterano del Donbas, lo ha spinto a partire, come tanti genitori hanno spinto i 100000 in fuga, fatti che smontano la narrazione eroica della resistenza.

Le famiglie ucraine, in verità, hanno capito che la sopravvivenza biologica e culturale dei propri figli vale più della continuità dello Stato.

La fiducia nella leadership e nel “senso del combattimento” è evaporata non per mancanza di amor patrio, ma per un sentimento più forte: i valori della famiglia su ogni altra cosa.

È un cortocircuito emotivo e politico devastante. La paura per un presente esplosivo ha sopraffatto la speranza in un futuro radioso da costruire insieme.

Non è viltà, come, invece, direbbero i nostri guerrafondai da salotto e talk show, ma è un realismo dettato dalla carneficina.

È la conseguenza di aver visto troppi ragazzi della propria cerchia non fare più ritorno o resi invalidi per sempre, in cambio di territori persi, un’economia al tappeto e una nazione che rischia di sparire dalle carte geografiche.

L’OMBRA DEL DOMANI: L’UCRAINA DOPO L’ESODO

Le conseguenze a lungo termine sono una bomba a orologeria demografica ed economica.

Sondaggi condotti tra i rifugiati ucraini in Europa dipingono un quadro agghiacciante: meno della metà è disposta a tornare, anche qualora la guerra cessasse all’istante.

Perché questi giovani non stanno semplicemente “aspettando”. Stanno costruendo altrove. E non si fidano di chi ha mandato a morire in guerra intere generazioni che non ci sono più.

Stanno imparando nuove lingue, iscrivendosi a università straniere, formando legami affettivi, entrando in economie più stabili.

Il legame con la madrepatria, già logorato dalla distanza, rischia di spezzarsi definitivamente.

L’Ucraina della dottrina Zelensky sta perdendo la guerra militare e rischia di perdere quella per il proprio futuro.

L’Ucraina è sempre di più una nazione da ricostruire, con le sue infrastrutture in macerie, ma senza i suoi architetti, i suoi ingegneri, i suoi insegnanti, i suoi innovatori, perché morti in battaglia o scappati per salvarsi.

Una nazione di anziani e di reduci invalidi, con un buco generazionale che richiederà decenni per essere colmato.

LA LIBERTÀ CHE UCCIDE LA SPERANZA

L’esodo dei 100.000 è il segnale che la pazienza di un popolo ha un limite e quel limite è l’annichilimento della propria progenie.

La legge di Svyrydenko, nata forse come una valvola di sfogo per salvare il salvabile, ha involontariamente manifestato la realtà della fede in un progetto nazionale collettivo che sta cedendo il passo all’istinto di conservazione individuale.

Gli ucraini non scelgono più Zelensky e la guerra, ma fuggono altrove.

Quel treno che attraversa il confine polacco non trasporta solo ragazzi spaventati, ma ciò che resta della gloria di un presidente vittima della sua vanagloria e della sua miopia politica, offuscata dai dollari occidentali e dalle promesse di vittorie impossibili.

Anche se l’Ucraina sopravvivrà come stato, riuscirà a sopravvivere come società?

FONTI


  1. The Telegraph – Almost 100000 young men flee Ukraine in two months
    https://www.telegraph.co.uk/world-news/2025/10/29/100000-young-men-flee-ukraine-two-months/
  2. UNN News – Almost 100000 young men left Ukraine after rules were relaxed
    https://unn.ua/en/news/almost-100000-young-men-left-ukraine-after-rules-were-relaxed-the-telegraph
  3. Yahoo News UK – Will young Ukrainians return with borders open again?
    https://uk.news.yahoo.com/young-ukrainians-return-borders-open-055000387.html
  4. Brussels Signal – Young Ukrainian men rush to Polish border as Kyiv relaxes war restrictions
    https://brusselssignal.eu/2025/09/young-ukrainian-men-rush-to-polish-border-as-kyiv-relaxes-war-restrictions/
  5. Intellinews – Young Ukrainians asylum seekers fleeing the war for Germany surges
    https://www.intellinews.com/young-ukrainians-asylum-seekers-fleeing-the-war-for-germany-surges-406591/
  6. Gradus.app – Return or Stay? How Ukrainian Migrants’ Sentiments in the EU are Changing
    https://gradus.app/en/open-reports/return-or-stay-how-ukrainian-migrants-sentiments-in-the-eu-are-changing/
  7. IFO Institute – Return of Ukrainian Refugees Depends on Security and Political Reforms
    https://www.ifo.de/en/press-release/2025-10-10/return-ukrainian-refugees-depends-security-and-political-reforms
  8. TVP World – Zelenskyy’s travel policy sparks surge in young Ukrainians leaving the country
    https://tvpworld.com/89753486/zelenskyys-travel-policy-sparks-surge-in-young-ukrainians-leaving-the-country
  9. Reuters – Ukrainian men aged 18-22 now allowed to cross the border freely
    https://www.reuters.com/world/ukrainian-men-aged-18-22-now-allowed-cross-border-freely-pm-says-2025-08-26/
  10. Censor.net – About 100000 young men of draft age have left Ukraine
    https://censor.net/en/news/3582393/about-100000-young-men-of-draft-age-have-left-ukraine
  11. Germany reports increased arrivals of young Ukrainian men
    https://www.indopremier.com/ipotnews/newsDetail.php?jdl=Germany_reports_increased_arrivals_of_young_Ukrainian_men&news_id=1706523&group_news=ALLNEWS&news_date=&taging_subtype=RUSSIA&name=&search=y_general&q=RUSSIA%2C+
Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

1984: IL MANUALE D’ISTRUZIONI DELL’OCCIDENTE

L’Europa sta costruendo la sua Eurasia del controllo, un blocco alla volta. E noi siamo i mattoni.

Il pensiero non è più libero.

Questa non è una profezia. Non è l’incipit di un romanzo distopico.

È una constatazione incontrovertibile, un referto autoptico sul cadavere ancora caldo di un’idea che credevamo immortale: la libertà d’espressione occidentale.

George Orwell non era un veggente, ma un acuto osservatore della natura umana e delle meccaniche del potere. Non ha predetto il futuro, ci ha fornito un manuale d’istruzioni.

E sembra che, a Bruxelles come a Londra e a Berlino, – per ora solo lì – qualcuno lo stia seguendo alla lettera. Con una meticolosità agghiacciante.

L’Eurasia di Orwell non era solo una massa continentale, era un’omologazione ideologica, un superstato mentale prima che geografico, definito dalla sua ostilità verso l’Oceania.

Oggi, mentre puntiamo il dito contro i nemici designati a Est, stiamo meticolosamente importando e perfezionando i loro più efficaci strumenti di controllo.

IL LABORATORIO BRITANNICO, DOVE AVERE UN’OPINIONE È REATO

L’Inghilterra, culla della Magna Carta, del liberalismo di John Stuart Mill, è oggi l’avanguardia di un esperimento sociale terrificante, semplice e brutale.

Se un tuo commento, un tuo post, persino un post condiviso, viene percepito come “offensivo” o capace di “turbare” un membro di una categoria protetta, puoi finire in carcere.

Non per diffamazione, non per un’incitazione diretta e comprovata alla violenza. No. Per aver turbato.

Il Parlamento Europeo e il Times parlano di oltre 30 arresti al giorno. Trenta. Al giorno.

Sono 11.000 all’anno. Undicimila.

Pensateci.

Non è più la sostanza oggettiva di un’affermazione a essere giudicata, ma l’impatto soggettivo che genera su un ascoltatore potenzialmente ipersensibile. È la vittoria della tirannia della vulnerabilità, un’arma potentissima nelle mani di chi vuole silenziare ogni voce fuori dal coro.

Si è creata una neolingua giuridica in cui “sicurezza” significa assenza di dissenso e “violenza” è una parola che non ci piace.

Questo non è progresso, ma un’involuzione deliberata verso uno stato di polizia del pensiero, dove l’autocensura diventa il primo, istintivo meccanismo di sopravvivenza sociale.

L’agente di polizia non è più solo per strada, ma è nella tua testa, rilegge le tue bozze, ti ferma il dito un istante prima di cliccare “invia”. Perché fanno in modo che tu viva nella paura.

LA GERMANIA E LA VERITÀ IN APPALTO

Se il modello britannico è la mazza, quello tedesco è lo stiletto. Più sottile, più elegante, forse ancora più letale.

La Corte d’Appello di Berlino ha emesso una sentenza che dovrebbe far tremare le vene ai polsi di ogni cittadino europeo. Ha sancito che una piattaforma privata come LinkedIn ha il diritto di rimuovere qualsiasi contenuto che contraddica le fonti “ufficiali”, come l’OMS o gli enti governativi. Senza obbligo di verificare che il contenuto dica il vero e sia supportato da fonti e fatti.

Rileggetelo.

Senza l’obbligo di verificare che il contenuto dica il vero e sia supportato da fonti e fatti.

La verità non è più un orizzonte da raggiungere tramite il dibattito, il confronto, la dialettica scientifica o filosofica, ma è diventata un prodotto confezionato, un dogma calato dall’alto da enti la cui infallibilità è data per decreto.

La piattaforma social non è più un’agorà, per quanto caotica, ma il terminale di un Ministero della Verità privatizzato in cui si può esprimere solo ciò che vuole chi comanda.

È un modo per silenziare le opposizioni e per controllare le masse.

È un’architettura di controllo straordinariamente efficiente, in cui lo Stato non si sporca le mani con la censura diretta, ma delega il lavoro sporco a entità private che, in nome della “sicurezza” e delle “linee guida della community”, diventano i gendarmi de facto del discorso pubblico, erodendo lo spazio del dibattito legittimo fino a farlo coincidere con il perimetro del dogma ufficiale.

Un professore universitario, un medico con decenni di esperienza, un premio Nobel possono essere silenziati da un algoritmo addestrato a riconoscere una sola verità, cioè quella governativa.

E se, per ora, queste censure naziste sono problemi solo degli inglesi e dei tedeschi, non dimentichiamoci che le medesime censure le abbiamo già vissute anche noi durante la pandemia, quando sono stati cancellati post di premi Nobel, docenti universitari di medicina e di virologia, perché non erano allineati al pensiero unico.

Perciò, c’è poco per stare tranquilli.

LO SPECCHIO CINESE: CENSURA DELLA COMPETENZA O DEL CONSENSO?

E se guardiamo alla Cina, l’involuzione dell’Europa è ancora più evidente.

La sua recente legge sugli influencer, pur essendo emanazione di un regime autoritario, introduce un principio che, al confronto con la deriva europea, appare quasi illuminista, perché non si vieta il contenuto contrario in sé, ma si vieta a chi non ha competenza di trattare argomenti complessi.

Vuoi parlare di medicina, diritto, ingegneria, finanza? Devi dimostrare di avere i titoli per farlo, una laurea o un master universitario.

L’Europa fa l’esatto opposto.

Da noi, un virologo di fama mondiale che esprime un dubbio sulle linee guida ufficiali viene bannato, cancellato, ridotto al silenzio. Un economista che critica le politiche della BCE viene etichettato come disinformatore.

Al tempo stesso, virologi che non ne hanno azzeccata mezza durante la pandemia possono tranquillamente pontificare in tv, senza contraddittorio, continuando a esprimere fake news smontate dal tempo e dai fatti.

In Cina si silenzia l’incompetente. In Europa si silenzia il dissenziente, anche e soprattutto se competente.

Quello applicato in Inghilterra e in Germania non è un sistema che protegge la “verità scientifica”, ma un sistema che protegge il “consenso del potere” e delle lobby, anche quando questo è palesemente antiscientifico o illogico.

Stiamo creando una società di cittadini a cui è permesso parlare di tutto, a patto che non abbiano le competenze per farlo davvero e che ripetano a pappagallo la versione ufficiale ottriata da chi comanda.

È la vittoria del dilettante conformista sull’esperto eretico.

LA GHIGLIOTTINA DIGITALE: DALLA CENSURA FINANZIARIA ALL’EURASIA

Ma la censura del pensiero è solo un lato della medaglia. Il vero potere, l’atto finale del controllo, è economico. La progressiva, inesorabile guerra al contante non è una semplice questione di modernizzazione o di lotta all’evasione, ma la costruzione dell’infrastruttura per la sottomissione totale.

I casi di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, o di Frédéric Baldan, sono il trailer del film che ci attende. Esprimi una posizione sgradita al potere? Ti vedi chiudere i conti correnti.

Un clic. Fine.

In una società completamente digitale, senza più contante, non potresti più comprare un pezzo di pane, un biglietto del treno, una bottiglia d’acqua. Non potresti neppure ingaggiare un avvocato per fare ricorso, non potendolo pagare.

Saresti un non-cittadino. Un fantasma digitale. La tua stessa esistenza biologica dipenderebbe dal tuo costante allineamento ideologico. È un ricatto perfetto, una ghigliottina invisibile pronta a calare su chiunque osi deviare.

Questa è la saldatura finale tra il modello di sorveglianza orwelliano e il capitalismo della sorveglianza. Non solo sanno cosa pensi, ma hanno il potere di spegnerti se ciò che pensi non è approvato. Per ora, solo con i social, poi con i soldi.

QUALE EUROPA? LA DOMANDA CHE NON POSSIAMO PIÙ IGNORARE

È questa l’Europa dei popoli sognata a Ventotene? Un’unione fondata sulla libertà che ora arresta i cittadini per un post e impone la verità del governo e di chi comanda delegandone la censura a multinazionali della tecnologia?

Un continente che si riempie la bocca di “diritti” mentre costruisce la più sofisticata gabbia che l’umanità abbia mai concepito?

Continuiamo a descrivere Russia e Cina come dittature illiberali, e non sono certamente delle democrazie, ma siamo così accecati dalla nostra presunta superiorità morale da non vedere che stiamo correndo nella stessa direzione, solo con una migliore campagna di marketing e un’interfaccia utente più amichevole.

L’Eurasia di Orwell non si formerà con trattati firmati in stanze piene di fumo, ai nostri giorni.

Si sta formando ora, nelle clausole dei termini di servizio che accettiamo senza leggere, nelle leggi approvate nel silenzio generale, nell’abitudine all’autocensura.

Forse l’Eurasia non è una destinazione geografica, ma uno stato della mente. La stanno costruendo giorno dopo giorno per noi.

E ci siamo già dentro.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

CON I MICROCHIP SMONTATI DALLE LAVASTOVIGLIE, HANNO COSTRUITO IL MISSILE NUCLEARE

MENTRE I NOSTRI LEADER DECANTAVANO LE SANZIONI DIROMPENTI CHE AVEVANO RIDOTTO LA RUSSIA A CERCARE RIFIUTI TRA GLI ELETTRODOMESTICI, MOSCA HA TESTATO UN’ARMA A PROPULSIONE ATOMICA. UN TRIONFO DELLA STRATEGIA OCCIDENTALE E UNA LEZIONE PER IL PENTAGONO: BASTA MILIARDI PER LA DIFESA, ANDATE DA MEDIAWORLD.

Signore e signori, compagni di sventura, cittadini dell’Impero del Bene, gioite.

Avevano ragione i guru del mainstream, i leader, gli esperti. Tutti quanti.

I generali da salotto televisivo, gli analisti geopolitici con l’abbonamento a Topolino per conoscere la storia, i ministri degli Esteri con la profondità strategica di un tweet, i nostri leader, quelli che ci guardano negli occhi promettendoci un futuro radioso, di pace armata e pagato a rate con le nostre bollette.

Soprattutto, avevano ragione i grandi giornalisti, quelli che ci dicevano «vedete, la Russia non ha più soldi, tant’è che è costretta a smontare microchip dalle lavastoviglie ucraine e a combattere con i soldati armati solo di pale dell’800.».

Avevano tutti ragione: la Russia è al collasso. Le sanzioni, quelle “dirompenti”, quelle “devastanti”, hanno funzionato alla perfezione.

(Poi, non si spiega come mai abbiano avuto bisogno di altri diciotto pacchetti di sanzioni da allora, ma il motivo sarà certamente aulico e non raggiungibile per noi comuni mortali).

Noi ridevamo, ma avevano ragione loro.

Ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento. Ricordate? I soldati russi, poveri diavoli, costretti a saccheggiare le cucine di Mariupol per trovare i preziosi semiconduttori della Bosch e della Candy, unico modo per far puntare un cannone altrimenti fermo. Un’epopea commovente. La vittoria della nostra superiorità morale, tecnologica ed economica.

Poi, nel bel mezzo di questa festa, è arrivata la notizia.

Una bazzecola. Un dettaglio trascurabile che gli stessi guru dell’informazione tengono sotto traccia, come fosse cosa da niente.

Mosca ha appena testato con successo il “Burevestnik”.

Un nome esotico per un aggeggio piuttosto banale, un missile da crociera a propulsione nucleare, con una gittata praticamente illimitata. Roba da poco. Ha volato per 15 ore filate, coprendo 14.000 chilometri, giusto il tempo di un caffè e un cornetto, vero?.

Putin, con la consueta modestia, lo ha definito “invincibile”. Difficile da intercettare, grazie a una traiettoria di volo imprevedibile.

A questo punto, anche le nostre piccole menti vacillano.

Ma come? Se sono ridotti a frugare tra i cestelli delle posate, come diavolo hanno fatto a costruire un’arma che sembra uscita da un film di fantascienza hollywoodiano, ma che purtroppo vola davvero?

La risposta, cari miei, è di una semplicità disarmante, accessibile persino a un editorialista del Corriere della Sera.

È ovvio: quel missile funziona con i microchip delle lavastoviglie. In pratica, è grazie alle sanzioni europee che Mosca ha potuto inventare questa nuova arma invincibile.

È la quadratura del cerchio. Un capolavoro di ingegneria Whirlpool.

Mentre i nostri cervelloni del Pentagono bruciano trilioni di dollari per sviluppare tecnologie che faticano a intercettare un drone degli Huthi, i russi hanno trovato il modo di alimentare un reattore nucleare miniaturizzato con il processore del ciclo “lana delicata” studiando i manuali d’istruzioni della Miele.

È un trionfo. Dovremmo essere orgogliosi. Le nostre sanzioni non hanno solo messo in ginocchio l’economia russa, ma hanno anche stimolato una creatività degna di MacGyver.

La lezione per l’Occidente è straordinaria.

Biden dovrebbe immediatamente tagliare i fondi a Lockheed Martin e Raytheon e investire tutto in una task force per saccheggiare i magazzini di Euronics. I futuri caccia di sesta generazione potrebbero essere guidati dal chip di un frigorifero No-Frost, che ha il vantaggio di mantenere fresco anche il pilota.

LA PROPAGANDA È L’OPPIO DEI POPOLI (E DEI GIORNALISTI)

Ora, usciamo per un istante dal reparto elettrodomestici e torniamo nel mondo reale, per quanto sgradevole possa essere.

Quello che Mosca ha fatto non è una dichiarazione di guerra. È qualcosa di molto più sottile e, per noi, molto più umiliante: sta mostrando i muscoli.

È un gesto plateale, un atto di comunicazione strategica che serve a dire al mondo, e soprattutto a noi europei, pagliacci adoratori dello Zio Sam: «Vedete? Mentre voi vi raccontate la favola del nostro crollo, noi continuiamo a sviluppare armi di cui non potete nemmeno sognare l’esistenza. E lo facciamo mentre sosteniamo una guerra su larga scala e la nostra economia, secondo voi, dovrebbe essere in macerie. Tutto mentre le vostre industrie annaspano e il vostro costo della vita aumenta.»

Non è un messaggio per Kiev, ma per Bruxelles, per Roma, per Berlino. È un calcio negli stinchi a chi, per oltre tre anni, ha basato la propria intera politica estera su un’assunzione tanto arrogante quanto falsa: la nostra superiorità economica avrebbe schiacciato la Russia in pochi mesi.

Previsione sbagliata. Analisi fallita. Risultato disastroso.

Il punto, vedete, non è se il missile russo sia una minaccia. Certo che lo è, come lo è ogni arma nucleare.

Il punto è l’uso che i nostri governi fanno di questa minaccia. Perché la brandiscono come una clava per terrorizzarci, per convincerci che l’unica soluzione sia un riarmo folle e inarrestabile. Per farci accettare che i soldi per la sanità, le pensioni, le scuole, debbano essere dirottati verso l’acquisto di armi.

Armi che, guarda caso, compriamo in gran parte proprio da chi ci spinge a sentirci minacciati. Un affare perfetto.

Il missile di Putin non colpirà mai le nostre case, perché un minuto dopo la Russia sarebbe bersagliata da armi atomiche. Ma il suo “effetto annuncio” sta già colpendo i nostri portafogli, il nostro stato sociale, il nostro futuro.

Ci stiamo impoverendo non per difenderci da un’invasione imminente, che esiste solo nelle fantasie di qualche stratega da talk show che ci raccontava di pale e microchip, ma per alimentare un’industria bellica che prospera sul conflitto perpetuo.

L’ARTE DI SBAGLIARE TUTTO E DARE LA COLPA A PUTIN

È la commedia dell’assurdo.

Prima ci dicono che Putin ha i giorni contati. Poi ci dicono che sta per invadere l’intera Europa con sette soldati senza divisa al confine estone.

Prima ci assicurano che l’economia russa è a pezzi. Poi la stessa Russia testa un’arma che richiede un livello di ricerca e sviluppo che noi, evidentemente, non riusciamo più a sostenere se non a costi esorbitanti.

E noi? Noi cosa facciamo?

Invece di chiedere conto ai nostri leader di questo cumulo di fallimenti strategici, di questa sequela di previsioni ridicole, di rivedere completamente l’informazione mainstream, che non ne azzecca mezza da anni, ci accodiamo al coro.

«Visto? Putin ci minaccia!».

Certo che ci minaccia. È il mestiere di un leader di una nazione minacciata da chi parla di riarmi e di annessioni ai suoi confini. Il problema è che i nostri leader, invece di fare il loro di mestiere, cioè garantire la nostra prosperità e sicurezza attraverso la diplomazia e l’intelligenza, fanno solo gli interessi delle lobby delle armi.

La verità è che l’unica cosa veramente “invincibile” e a “gittata illimitata” che vediamo oggi è l’incompetenza di chi ci governa e dei professionisti dell’informazione, capace di attraversare continenti e generazioni. Loro ci hanno messo in questo pasticcio, raccontandoci che si poteva vincere una guerra contro una potenza nucleare senza subirne le conseguenze. Al più, rinunciando al condizionatore.

Forse dovremmo smettere di ascoltarli.

E mentre loro giocano a Risiko con le nostre vite e i nostri soldi, a noi non resta che controllare la lavastoviglie.

Anzi, oltre al condizionatore, potremmo rinunciare alla lavastoviglie, alla lavatrice e ai forni.

Così, voglio vedere se i russi riusciranno a costruire ancora armi così sofisticate.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’EUROPA SUL LETTINO DELLO PSICANALISTA: CALENDA, L’IGNORANZA STORICA E IL SUICIDIO CONTRO SACHS

Un frammento tossico quel video virale di un politico italiano che, in uno studio televisivo, dà del “bugiardo” e del “propagandista putiniano” a uno degli economisti viventi più influenti sul pianeta.

Circola, questo frammento, come un meme. Viene promosso, come un trofeo di caccia. Ma è lo spettacolo imbarazzante poiché è la radiografia spietata del collasso cognitivo di un intero continente.

Quel che è andato in scena tra Carlo Calenda e Jeffrey Sachs a PiazzaPulita non è stato un dibattito, ma la manifestazione palese di una malattia autoimmune che da anni infetta la sfera pubblica europea, l’amnesia storica volontaria.

La scelta deliberata di rimuovere la complessità, di cancellare le cause, di appiattire la tridimensionalità del reale per costruire una propaganda bidimensionale.

Perché è di questo che parliamo. Della creazione di una realtà parallela, come quella in cui vivono Calenda e anche tanti italiani. E i danni sono sotto gli occhi di tutti.

IL PALCOSCENICO DOVE RECITA L’IGNORANZA

Da un lato, Jeffrey Sachs. Un uomo di settant’anni, il cui volto tradisce un misto di sconcerto e incredulità quasi accademica di fronte alle tesi squinternate di Calenda.

Lui, il professore universitario, parla di fatti, di negoziati falliti, di ingerenze documentate, di una catena di eventi che lui non ha letto sui libri, ma ha vissuto in prima persona come consulente di Gorbaciov, di Eltsin, dello stesso governo ucraino.

L’altro, l’aggressore, è Carlo Calenda, l’archetipo del decisore post-storico.

A lui non servono i fatti, perché possiede una certezza morale. La sua aggressività è una strategia comunicativa. È il rumore che copre il vuoto di argomenti, l’insulto che funge da esorcismo contro la complessità.

Il suo non è un dialogo, ma, in assenza di argomentazioni, è bullismo semiotico. Interrompere, sovrapporre la voce, sfruttare la lieve latenza della traduzione simultanea.

Non potendo vincere un dibattito contro chi conosce i fatti meglio di lui, ha puntato tutto sull’impedire che un dibattito avesse luogo. Ha difeso la narrazione della propaganda occidentale, smentita da tre anni e mezzo di fatti e realtà.

E, per difenderla, ha sacrificato la verità sull’altare dello slogan “c’è un aggredito e c’è un aggressore”.

Una frase talmente ovvia da diventare un’arma di distrazione di massa, un mantra usato per invalidare qualsiasi domanda sulle cause che hanno portato all’aggressione.

È come descrivere un incendio, ma vietando di parlare dell’innesco, del combustibile e del piromane.

I FANTASMI DEL CURRICULUM: QUANDO L’ESPERIENZA DIVENTA UN’ACCUSA

Per capire l’abisso tra i due, basta mettere in fila le biografie.

Sachs era ad Harvard, poi alla Columbia. Ha consigliato tre Segretari Generali dell’ONU. Si occupava della transizione economica della Polonia post-comunista, della Russia di Eltsin e dell’Ucraina di Kuchma quando Calenda, con rispetto parlando, affrontava un percorso liceale accidentato.

L’esperienza di Sachs non è solo un titolo, ma un archivio vivente.

Lui c’’era nei fatti e negli eventi di cui narra. La sua conoscenza non è teorica, ma empirica. Ed è proprio questo a renderlo intollerabile per Calenda e per i tanti spacciatori di fake news.

Sachs è il fantasma delle responsabilità europee e americane, la coscienza sporca di un Occidente che preferisce raccontarsi la favola della propria innocenza.

Calenda, cresciuto nei salotti buoni di una Roma influente, rappresenta una classe dirigente che ha ereditato il potere senza ereditare la cultura storica e strategica. La sua carriera, da Confindustria ai ministeri, è quella di un manager, non di uno statista.

Per un manager, il problema si risolve. Per uno statista, il problema si comprende. E la comprensione richiede memoria e, soprattutto, conoscenza della storia. Di tutta la storia, non solo di quella raccontata dall’Occidente.

SMONTARE LA MACCHINA DELLA PROPAGANDA: ENERGIA, MAIDAN E LE VERITÀ INDICIBILI

Calenda, come un disco rotto, ha riproposto lo stupidario ideologico che ha condotto l’Europa nel vicolo cieco.

La dipendenza energetica dalla Russia. La presenta come una colpa, un peccato originale di cui pentirsi.

Ovviamente, è una falsificazione storica, perché quella che Calenda chiama “dipendenza” era in realtà una “interdipendenza strategica” cercata e voluta, il pilastro del modello economico tedesco – e quindi europeo – per cinquant’anni.

Energia a basso costo dalla Russia in cambio di tecnologia e prodotti finiti dall’Europa. L’abbiamo chiamata Ostpolitik e ha garantito decenni di pace e una prosperità senza precedenti.

Rinunciarvi con un tratto di penna non è stato un colpo di genio, ma un’autoflagellazione economica. Un suicidio.

E oggi, lo stesso Mario Draghi che ci esortava a scegliere tra il condizionatore e la libertà, piange lacrime di coccodrillo sui costi energetici che stanno deindustrializzando l’Europa. Perché la coerenza è la prima vittima delle narrazioni ideologiche e mette in evidenza i cialtroni di fronte alle loro colpe.

Il momento in cui Calenda ha dato del bugiardo a Sachs è stato quando l’economista americano ha menzionato il ruolo degli Stati Uniti nel colpo di stato del 2014 in Ucraina. Calenda è esploso, affermando che furono “gli ucraini” a ribellarsi contro l’influenza russa.

Ma quella di Calenda è una menzogna storica.

I “maneggi degli americani” non sono una teoria del complotto, sono storia documentata.

Sono i 5,1 miliardi di dollari rivendicati dalla vicesegretaria di Stato Victoria Nuland per “promuovere la democrazia”. È la sua famigerata telefonata con l’ambasciatore Pyatt in cui, settimane prima della caduta del presidente Yanukovich, decidevano la composizione del futuro governo ucraino (“Fuck the EU”, ricordate?)

E “gli ucraini”? Erano un popolo spaccato in due. I sondaggi di istituti americani e ucraini (USAID, Gallup, Razumkov) di quel periodo sono incontestabili: il Paese era diviso quasi perfettamente a metà tra l’orbita europea e quella russa. Altro che rivolta contro la Russia!

L’Est e il Sud guardavano a Mosca, l’Ovest e il Centro a Bruxelles. Affermare che “gli ucraini” fossero un blocco monolitico anti-russo è un insulto all’intelligenza e alla Storia, nonché un’operazione di cancellazione di metà della popolazione di quel Paese.

Fu proprio l’interferenza esterna a far precipitare quella frattura in una guerra civile, iniziata nel Donbass nel 2014, otto anni prima dell’invasione su larga scala.

Dire queste cose, cioè raccontare la verità storica, non significa essere “putiniani”, ma essere storicamente e culturalmente onesti.

Calenda, invece offende la storia e veicola fake news in televisione. Atto gravissimo poiché, con le sue sciocchezze storiche, alimenta percezioni e idee che sono fondate su menzogne.

OLTRE IL VICOLO CIECO, O L’IRRILEVANZA

Ecco il punto. L’incidente Calenda-Sachs, amplificato da una stampa come “Il Foglio” che celebra la “messa in riga del propagandista”, rivela il meccanismo perverso: chiunque introduca dati, contesto o memoria storica nel dibattito viene marchiato come nemico.

L’etichetta di “putiniano” è la nuova scomunica, il marchio d’infamia che serve a non discutere nel merito. È l’arma che gli ignoranti hanno per non ammettere la propria ignoranza.

Ma le conseguenze non sono accademiche. Sono reali. Un’Europa senza memoria storica è un’Europa senza strategia. Un continente che non comprende come è arrivato nel vicolo cieco in cui si trova, non avrà mai gli strumenti per uscirne.

Continuerà a sbattere la testa contro il muro, raccontandosi di essere nel giusto, mentre la sua economia muore, la sua influenza geopolitica evapora e i suoi cittadini si impoveriscono.

Non sono idee o ipotesi, ma realtà he viviamo da quasi quattro anni.

Non stiamo solo bruciando i ponti con i nostri avversari, ma stiamo dando fuoco alla biblioteca della nostra stessa storia, sperando che il bagliore ci tenga al caldo per un’altra notte.

Ma dopo, raccontandoci le sciocchezze insieme ai tanti Calenda che parlano in televisione e non solo, verrà solo il buio. E il freddo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.