VON DER LEYEN A CAPO DI UNA INTELLIGENCE EUROPEA?

La notizia è esplosa con la forza di un’ammissione a mezza bocca.

La Commissione Europea di Ursula von der Leyen sta mettendo in piedi un proprio servizio di intelligence.

Sembra proprio che quella di Ursula von der Leyen sia la biografia di un potere che si fa sempre più presidenziale, quasi solitario, nel cuore di un’Europa spaventata dai suoi messaggini e dalle sue politiche che, fin qui, hanno portato a un’involuzione industriale e sociale preoccupante.

ANATOMIA DI UN SEGRETO DI PULCINELLA

Il piano, svelato dal Financial Times, è tanto semplice nella forma quanto complesso nella sostanza.

Una “cellula” dedicata, incastonata nel Segretariato Generale della Commissione, con il compito di sintetizzare e analizzare le informazioni provenienti dai vari servizi segreti nazionali.

Un crocevia di intelligence. Un punto di ascolto privilegiato per la Presidente.

Ufficialmente, si tratta di “integrare” e “rafforzare” le strutture esistenti, in primis l’INTCEN, il centro di analisi che già opera sotto l’egida del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE), oggi guidato da Kaja Kallas.

Ma le parole, in politica, sono strumenti delicati che, spesso, nascondono più significati.

E qui, “integrare” suona sinistramente come “scavalcare”. “Rafforzare” somiglia pericolosamente a “controllare”.

La cellula, seppur minuscola, non risponderebbe all’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, ma direttamente alla Presidente della Commissione. Un dettaglio non da poco che getta molte ombre sulla figura di Ursula von der Leyen.

L’ALIBI DELLA PAURA: RUSSIA, TRUMP E LA NECESSITÀ DI SAPERE

Ogni grande mossa di potere ha bisogno di un nemico. E oggi, secondo la propaganda occidentale, l’Europa ne ha in abbondanza.

C’è il Cremlino, con la sua guerra ibrida fatta di disinformazione, sabotaggi e aggressione militare.

C’è Donald Trump, e ci sono le minacce interne, come le accuse di spionaggio che lambiscono persino uno Stato membro come l’Ungheria.

In questo clima da nuova Guerra Fredda, l’argomento della Commissione è potente, quasi inattaccabile. “I servizi segreti degli Stati membri sanno molto. La Commissione sa molto. Abbiamo bisogno di un modo migliore per mettere insieme tutto”, ha confidato una fonte.

È la logica spietata del mondo dello spionaggio: per ottenere informazioni, devi offrirne. Devi avere un posto al tavolo dei grandi.

La paura è un formidabile acceleratore politico e von der Leyen la sta usando come carburante per il suo progetto di una “unione della sicurezza”, più coesa, più autonoma. Più centralizzata.

VERSO UN TRONO A BRUXELLES

Ma dietro la cortina fumogena della sicurezza globale, si sta giocando una partita ben più inquietante, per il controllo della politica estera e di difesa dell’Unione.

Da quando è al timone, Ursula von der Leyen ha sistematicamente eroso le prerogative del SEAE, l’organismo che per sua natura dovrebbe gestire la diplomazia UE.

La sua condotta è un’architettura del potere che si ridisegna, mattone su mattone, al buio, di nascosto, nei memorandum riservati e nelle decisioni quasi furtive, come quelle prese con i famosi messaggini.

Prima la nomina di un Commissario per la Difesa, sottraendo un pezzo di portafoglio all’Alto Rappresentante. Poi la creazione di una Direzione Generale per il Mediterraneo, un feudo personale che scavalca la diplomazia tradizionale. Ora, l’intelligence.

Spostare l’analisi delle informazioni sensibili dal SEAE al Segretariato Generale della Commissione significa prosciugare il potere dell’Alto Rappresentante e trasformare la Presidenza della Commissione in un vero e proprio “gabinetto di guerra”. Un comando operativo che risponde a una sola persona. L’unica donna al comando, come sottolinea cinicamente qualcuno.

I FANTASMI, TRA SOVRANITÀ E SCANDALI

Ci sono diversi punti da tenere in considerazione. Il primo è il muro degli Stati membri. L’intelligence è il luogo più intimo della sovranità nazionale dei singoli stati, l’ultimo santuario che i governi custodiscono con gelosia paranoica.

L’idea di condividere le informazioni più preziose con una struttura sovranazionale che fa capo a un’unica donna al comando è un anatema per molte capitali. La storia della condivisione di intelligence in Europa, iniziata faticosamente dopo l’11 settembre, è una storia di riluttanza e diffidenza.

È probabile, se non certo, che le principali agenzie nazionali si opporranno a quello che percepiscono come un tentativo di esproprio.

Il secondo fantasma è proprio Ursula von der Leyen, perché come si può affidare la gestione dei segreti più oscuri del continente a una leader il cui operato è già segnato da ombre pesanti e condotte tutt’altro che trasparenti?

Le accuse contenute nel saggio “UrsulaGates” non sono pettegolezzi, ma questioni concrete che hanno già superato il vaglio della magistratura, per la gestione opaca dei contratti sui vaccini Pfizer, con miliardi di euro negoziati via SMS.

C’è una condanna della Corte di Giustizia Europea per mancanza di trasparenza e c’è un rapporto disinvolto con le lobby. E, soprattutto, c’è il paradosso di un controllo di fatto sulla Procura Europea (EPPO), l’organismo che, in teoria, dovrebbe indagare proprio su queste vicende.

Affidarle anche un servizio segreto, per quanto piccolo, è come dare le chiavi di un arsenale a chi è già sospettato di non rispettare le regole di ingaggio.

Di fatto, si dimostra sempre di più come si stia costruendo un’oligarchia, un potere esecutivo che si pone al di sopra di ogni controllo che vorrebbe scrivere il futuro dell’Europa.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

PERCHÉ L’EUROPA VA SCIOLTA E RICOSTRUITA

In Europa si aggira un fantasma che non è lo spettro del terrorismo. Non è nemmeno il comunismo, ma la carcassa esangue del sogno di Ventotene.

Quella visione di un continente unito nel nome della pace, del diritto e della prosperità allargata.

Un’utopia sorta sulle ceneri di due guerre mondiali e portata avanti da uomini come Altiero Spinelli, che avevano visto e vissuto l’abisso, perciò avevano giurato di non tornarci mai più.

Oggi, quel giuramento è infranto dai loro figli e nipoti, che l’abisso non l’hanno vissuto, ma si fanno ingolosire dagli stessi meccanismi di soldi e potere che portarono alle grandi guerre.

L’UE, o ciò che ne resta, ha smarrito la propria bussola morale e si è trasformata nell’esatto contrario della sua promessa fondativa. È diventata un’entità che parla di pace armando una guerra per procura; che predica la democrazia mentre si affida a comitati opachi e a tecnocrazie di non eletti; che si erge a baluardo della libertà mentre soffoca il dissenso e impone una narrazione unica.

Viene il sospetto che l’Europa della democrazia e della pace fosse un bluff fin dall’inizio, che non fosse altro che un magnifico simulacro. Un’abile costruzione propagandistica, un velo di ideologia steso sopra un progetto occulto, economico e geopolitico, funzionale agli equilibri di potere decisi altrove, oltre l’Atlantico, all’indomani del 1945.

Un’illusione data in pasto a generazioni di cittadini per renderli docili consumatori di un mercato comune, il più grande mercato al mondo per gli USA, e, ora, docili contribuenti di uno sforzo bellico. Perché quel mercato si era aperto troppo ad altre economie, Cina e Russia in testa.

L’UCRAINA, DOVE LA VIRTÙ DIVENTA DERIVA

La guerra in Ucraina è stata lo spartiacque, il Rubicone oltre il quale ogni finzione è crollata.

L’aggressione della Federazione Russa è, e rimane, un atto brutale, un’inaccettabile violazione del Diritto internazionale. Punto.

Ma non si possono affrontare le crisi senza domandarsi da cosa siano state generate.

Non si può ammonire la Russia se per anni la NATO ha disatteso ogni promessa di allargamento a Est. Non si può pretendere che Mosca ristetti il diritto, quando la NATO ha invaso l’Iraq sulla base di una fake news della CIA e bombardato il Kosovo senza alcun mandato ONU.

Non si può dare a Putin del dittatore sanguinario, quando altri dittatori sanguinari possono commettere genocidi e si licenziano giornalisti che fanno domande scomode. Non a Mosca, ma a Roma, come accaduto a Gabriele Nunziati.

Inoltre, è proprio la gravità dell’atto di aggressione russo a richiedere una risposta intelligente e strategica, non di fervore ideologico.

La politica, quella con la “P” maiuscola, ha il dovere di guardare oltre l’orizzonte dell’indignazione da bar, per scorgere le conseguenze a lungo termine delle proprie scelte.

Ma ha scelto la via più facile, la più sterile, la meno intelligente Ha scelto l’illusione di una vittoria totale che sarebbe impossibile da ipotizzare persino dalla propaganda di Hollywood.

Sin dal primo giorno del 2022, l’asimmetria delle forze in campo era un dato fattuale, non un’opinione.

Chiunque, dotato di una conoscenza basilare di storia militare, economia e geopolitica, poteva comprendere che l’ipotesi di una sconfitta strategica di una superpotenza nucleare come la Russia sul proprio confine, per mano di una nazione non nucleare e materialmente dipendente, era pura idiozia.

L’ho scritto, l’ho detto, l’ho analizzato in ogni sede. Fui tacciato di disfattismo, di essere un “putiniano”, l’insulto standardizzato per chiunque osi profanare l’altare della propaganda.

Tuttavia, mentre cantori del potere parlavano di “contrattacco imminente”, “sanzioni dirompenti” e “crollo del regime di Putin”, i fatti e il tempo mi davano ragione. A me e a quei pochi tacciati di vicinanza con Mosca, ma la cui unica vicinanza era ai libri di storia e non ai dispacci delle notizie ottriate dall’alto.

Ricordate “Lo sbarco in Lombardia”, errore ripetuto dai Tg di diverse emittenti televisive italiane?

Basta quello a dimostrare come le notizie abbiano chi scrive copioni ripetuti a pappagallo, copioni che dimostrano la deriva dell’informazione, che serve a mascherare la deriva politica dell’Unione.

L’ARCHITETTURA DEL POTERE: OLIGARCHI, IMPERI E MERCANTI

E chi guida questa deriva?

Non di certo i popoli europei, che in ogni tornata elettorale di questi ultimi anni hanno premiato le forze contrarie a riarmi e guerre.

Loro pagano solo il conto, in bollette, inflazione e servizi sociali tagliati per finanziare gli arsenali.

A guidare la deriva è una casta di funzionari non eletti, intrecciata con lobby industriali e finanziarie, tutta gente che vede nella guerra un’opportunità, non una tragedia. Un’oligarchia che risponde a logiche di potere e profitto, non al mandato popolare.

In questa desolante coreografia, si fa strada la Gran Bretagna. Una nazione che ha divorziato dall’Unione con un atto di auto-proclamata sovranità, per poi rientrare dalla finestra come il più zelante suggeritore di una politica estera aggressiva.

Non è un paradosso, ma la coerente prosecuzione della sua dottrina storica: impedire l’emergere di una potenza egemone sul continente europeo e mantenere la Russia in uno stato di perenne debolezza.

L’obiettivo, mai mutato dai tempi del “Grande Gioco” in Asia centrale, è quello di frammentare il gigante eurasiatico, per poter accedere, con il consueto spirito predatorio del colonialismo mercantilista, alle sue sterminate risorse naturali.

L’Ucraina è solo una pedina sacrificabile. L’Europa è la scacchiera.

IL PREZZO DELLA FOLLIA: UN CONTINENTE IN GINOCCHIO

Il bilancio di questa colossale miopia strategica è sotto gli occhi di tutti. È un bollettino di guerra che non troverete nei telegiornali.

Abbiamo un’Ucraina martoriata, trasformata in un fronte permanente, con perdite umane che segneranno la sua demografia per un secolo. Una Russia logorata ma non sconfitta, anzi, rinsaldata nel suo nazionalismo e pienamente riconvertita a un’economia di guerra.

Arsenali occidentali svuotati. Miliardi di euro, che avrebbero potuto finanziare la transizione ecologica, la sanità, l’istruzione, bruciati sull’altare di un conflitto senza vittoria.

E soprattutto, abbiamo un’Europa più debole, più divisa, più dipendente militarmente dagli Stati Uniti e più vulnerabile economicamente.

Abbiamo sacrificato la nostra autonomia strategica in cambio di una pacca sulla spalla da Washington. Un pessimo affare, da qualunque prospettiva lo si guardi.

Gli oligarchi al potere dell’Europa, dopo aver rifiutato ogni via negoziale, oggi tornano a sussurrare di accordi che ricalcano le bozze discusse a Istanbul nei primi mesi del conflitto.

Quegli accordi che vennero stracciati e rifiutati, a cominciare da Boris Johnson, ma che avrebbero salvato decine di migliaia di giovani ucraini.

Se così fosse, il giudizio della Storia sarà impietoso. Avremo perso centinaia di migliaia di vite per tornare al punto di partenza.

LA LEZIONE IGNORATA DELLA STORIA

Purtroppo, molti politici, tanti giornalisti e analisti sembrano aver dimenticato la lezione che la sterminata pianura russa ha impartito a ogni impero che abbia osato sfidarla. Dalla Confederazione polacco-lituana a Napoleone, dall’Impero svedese a Hitler, tutti si sono schiantati contro la profondità, la strategia e la capacità di sacrificio di quel popolo.

Pensare di riuscire oggi, con sanzioni e missili a lungo raggio, dove hanno fallito la Grande Armée e la Wehrmacht, è delirio di onnipotenza. E di incompetenza.

Il paradosso è che i più ferventi sostenitori di questa escalation, gli stessi che fino a ieri sventolavano arcobaleni e parlavano di “Europa dei popoli”, sono gli ultimi a non volere la pace, proprio ora che, sottotraccia, Washington e Mosca cercano di ricucire un dialogo per evitare l’apocalisse.

Sono più falsi di una moneta da tre euro.

RIPENSARE LA PACE

Questa Unione Europea deve fallire.

Non per un desiderio di distruzione, ma per una necessità di sopravvivenza degli europei. E non solo degli europei.

La sua struttura oligarchica, la sua deriva autoritaria mascherata da burocrazia, la sua vocazione guerrafondaia, la rendono un pericolo per i cittadini che afferma di proteggere.

Il futuro non può essere un superstato centralizzato che ci trascina in guerre non nostre. Il futuro deve tornare nelle mani di Stati veramente sovrani, capaci di collaborare su basi paritetiche, di cooperare per obiettivi concreti: il benessere economico, la sicurezza energetica, la stabilità sociale. LA PACE!

La geopolitica NON DEVE ESSERE un’arena di gladiatori, di droni e missili. Può e DEVE diventare un processo evolutivo di coscienza collettiva.

La pace non è un intervallo tra due guerre, MA UNA FORMA SUPERIORE DI INTELLIGENZA.

È la capacità di comprendere che il nostro destino è interconnesso e che la distruzione di un altro, alla fine, non è che un suicidio più elaborato.

Finché non supereremo il paradigma della forza come arbitro ultimo delle relazioni internazionali, non faremo che ripetere gli stessi errori, ma con armi sempre più definitive.

La vera vittoria non è sconfiggere un nemico, ma rendere il nemico superfluo attraverso l’intelligenza.

E anche cominciare a rispettare per primi il Diritto internazionale, essere equi e giusti con tutti, e comprendere le ragioni dell’altro, non guasterebbe.

Questa è l’unica lezione che conta. Ed è la lezione che l’Europa di oggi ha scelto, deliberatamente, di dimenticare. O di ignorare.

IL PARADOSSO DELLA LEALTÀ E LA POLITICA ENERGETICA EUROPEA CHE FARÀ FUGGIRE ANCHE GLI IMPRENDITORI

Un interruttore si spegne in una fabbrica del Veneto, un altro in Lombardia. Un silenzio innaturale cala su un distretto ceramico emiliano.

Non si tratta di una crisi contingente, ma di una scelta politica dei palazzi di Bruxelles che mina il tessuto produttivo italiano con una precisione chirurgica che sfugge alla narrazione ufficiale.

La crisi energetica italiana non è solo una conseguenza della guerra, ma è il risultato di una solidarietà europea a geometria variabile, un gioco spietato in cui l’Italia, fedele e disciplinata, sta pagando il prezzo più alto come il Fantozzi di turno.

IL PATTO ATLANTICO E IL SUO PREZZO INVISIBILE

La decisione è stata presa.

Il cordone ombelicale con il gas russo, che per decenni ha alimentato a basso costo l’industria del Vecchio Continente, doveva essere reciso. Un atto di coesione morale e strategica contro l’aggressione, sigillato da un nuovo, monumentale patto con gli Stati Uniti che costringerà i nostri figli a immaginare un futuro al di fuori dall’Italia in maniera ben più potente di quanto non avvenga già oggi: un acquisto da 750 miliardi di dollari di Gas Naturale Liquefatto.

Perché l’Europa ha scelto il suo campo. Ha scelto di sacrificarsi per il bene dell’impero americano, accettando di pagarne il prezzo.

Un prezzo che sapevamo sarebbe stato alto. Il GNL americano, per sua natura logistica e di mercato, costa molto di più rispetto a quello russo.

In pratica, l’Europa ci consente di avere solo la Fiat e non più la Renault, ma la Panda la paghiamo come una Mercedes di fascia alta.

Inizialmente, la promessa era quella di un sacrificio condiviso, di un fronte unito dove il fardello sarebbe stato distribuito equamente.

Tutte balle.

FIGLI E FIGLIASTRI: LA GEOMETRIA VARIABILE DELLA SOLIDARIETÀ EUROPEA

Mentre le aziende italiane vedevano i loro costi energetici triplicare, mettendo in ginocchio interi settori, una realpolitik silenziosa e pragmatica si faceva strada nella realtà.

La Germania, motore industriale d’Europa, otteneva una proroga di sei mesi per la sua strategica raffineria PCK Schwedt, di proprietà russa, scongiurando una crisi energetica per Berlino e garantendo al suo sistema produttivo un ossigeno che a noi veniva negato. Un atto di autoconservazione nazionale mascherato da necessità tecnica.

L’Ungheria di Orbán si assicurava un’esenzione di un anno, di fatto isolandosi dalle conseguenze più devastanti dell’embargo. E con essa, anche Slovacchia, Bulgaria e Romania, consapevoli della propria dipendenza strutturale, hanno iniziato a tessere le proprie reti di sicurezza.

Il principio del “chi figli e chi figliastri” non è un modo di dire dialettale, ma la perfetta fotografia di una Unione Europea dove l’adesione ai principi comuni è direttamente proporzionale alla capacità di un Paese di assorbirne i costi senza collassare.

Per chi, come la Germania, ha le spalle larghe, il rigore è un’opzione flessibile. Per l’Italia, la cui spina dorsale manifatturiera è tanto vitale quanto fragile, il rigore è diventato un cappio.

L’INDUSTRIA ITALIANA AL BIVIO: COMPETERE AD ARMI IMPARI

L’asimmetria dei costi energetici non è un mero tecnicismo contabile e nemmeno una seccatura di poco conto, ma è uno stiletto che uccide la manifattura italiana.

Immaginate un’azienda metalmeccanica di Brescia o una che fabbrica piastrelle in Emilia Romagna.

Queste realtà non competono solo con la Cina e la Turchia, ma anche con un’azienda tedesca della Ruhr che, grazie a un’eccezione, paga l’energia circa il 30% in meno.

Il prodotto italiano non ha una qualità minore e non è frutto di minore ingegno, ma è semplicemente, e tragicamente, più costoso da produrre. Di conseguenza, ha meno mercato.

Non è concorrenza. È una condanna. È come gareggiare nei 100 metri piani, ma costretti a indossare degli scarponi da marine anziché scarpini da atletica.

Stiamo assistendo a un trasferimento involontario di competitività industriale dal Sud al Nord Europa, orchestrato dalle stesse regole che avrebbero dovuto garantirci un mercato unico e leale.

Grazie all’Europa, le nostre PMI non stanno chiudendo per le dinamiche del mercato, ma perché il campo da gioco è stato deliberatamente inclinato a nostro svantaggio.

QUANDO IL DIBATTITO DIVENTA TABÙ

Perché non se ne parla di questo problema?

La narrazione egemonica si è concentrata sulla “russofobia”, un imperativo morale che rende ogni discussione sui costi e sulle conseguenze un atto di eresia.

Perciò, se l’imprenditore italiano lamenta la truffa in atto ai suoi danni, viene tacciato di essere putinano.

Il perimetro del dicibile si è ristretto a tal punto che un giornalista, per aver posto una domanda legittima a Bruxelles sulla disparità dei danni di guerra nel mondo, è stato licenziato.

Perché, ormai, il giornalismo vero lo facciamo in pochi. Gli altri, compresi i nomi altisonanti, fanno politica. È la gestione strategica del silenzio per dare ragione a chi comanda. Sempre e comunque.

Creare un nemico esterno monolitico e demonizzato è una tecnica antica per mascherare le contraddizioni interne e le ingiustizie. Una tecnica tipica di qualunque dispotismo, di qualsiasi dittatura.

Distogliere lo sguardo dalla bolletta insostenibile di una famiglia italiana per puntarlo incessantemente sulla colpa morale di un avversario geopolitico è un’operazione di ingegneria del consenso tanto efficace quanto letale per la nostra consapevolezza economica.

Puntare il dito contro Mosca evita di ragionare sui danni causati alle imprese italiane dalle politiche ingiuste e disomogenee di Bruxelles.

OLTRE LA CRISI: QUALE FUTURO PER UN’EUROPA A DUE VELOCITÀ?

Ci stiamo avviando verso un’Europa a due velocità che i paesi del Nord auspicano da anni.

Un nucleo di nazioni pragmatiche che proteggono le proprie industrie e una periferia di Paesi “leali” destinati a un lento e inesorabile processo di deindustrializzazione.

Tutto orchestrato per puntare sui campioni industriali del Centro e del Nord Europa, lasciando all’oblio i paesi del Sud.

La nostra fedeltà alla causa comune, priva di una strenua difesa dei nostri interessi nazionali, rischia di essere la nostra rovina.

Considerando anche una natalità tra le più basse al mondo e la fuga di tantissimi giovani, che queste politiche europee accelereranno ancora di più, l’industria e la manifattura italiana rischiano l’estinzione.

E la fuga oltre confine sarà anche di chi fa impresa.

Se aggiungiamo anche le nuove rotte strategiche delle merci in Asia, che isolano l’Europa, il quadro è ancora più tragico e desolante. (Come puoi leggere nel primo articolo consigliato in calce a questo.)

Perché l’interruttore spento in quella fabbrica veneta non è solo un costo economico, ma è soprattutto un pezzo di futuro che se ne va. È il simbolo di un’intera nazione che sta scoprendo, nel modo più duro, che in questa Europa il prezzo della lealtà è la propria irrilevanza.

E nessuno potrà dire che non eravamo stati avvertiti.

IL MONDO SCEGLIE ALTRE STRADE E CONDANNA L’EUROPA A ESSERE UNA MALINCONICA PERIFERIA

Due immagini prendono a schiaffi l’Europa.

Nella prima, la stretta di mano alla Casa Bianca tra Donald Trump, l’incarnazione del pragmatismo brutale americano, e Viktor Orban, il ribelle d’Europa.

L’oggetto del contendere sono petrolio e gas russi.

Orban li definisce una “realtà fisica”. Trump annuisce. Perché nella geopolitica, la realpolitik ha sempre la precedenza sulle dichiarazioni di principio.

Nella seconda immagine, rileviamo il fischio di un treno. Ma non un treno qualunque, bensì il primo convoglio merci che da Mosca, attraversando deserti e steppe dell’Asia Centrale, arriva in Iran.

Non trasporta solo decine e decine di container, ma il futuro. È il primo vagito di un’infrastruttura colossale, il Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud (INSTC), un serpente d’acciaio lungo 7.000 chilometri destinato a collegare San Pietroburgo a Mumbai, bypassando l’Europa, i suoi porti, i suoi canali, le sue regole. Le sue sanzioni.

La sua economia. Di fatto un corridoio che isola l’Europa da buona parte di Asia.

Questi non sono due eventi separati, ma rintocchi di una stessa campana a morto. Quella che suona per l’Europa.

LA GRANDE ILLUSIONE: QUANDO LA MORALE DIVENTA UNA GABBIA DORATA

La progressiva trasformazione della politica europea in un esercizio di autocompiacimento narrativo sta producendo disastri e danni di proporzioni atomiche.

Bruxelles non governa più la realtà e produce comunicati stampa su come la realtà dovrebbe essere. I suoi leader vivono su un mondo parallelo, che non esiste. Sono rimasti nella dimensione di Joe Biden e dei suoi amici immaginari.

L’Europa ha costruito se stessa su democrazia, diritti, sostenibilità, ma si è chiusa dentro una bolla, convinta che il resto del mondo sarebbe venuto in pellegrinaggio.

Una bolla in cui quegli stessi diritti democratici non sono più garantiti. Non se poni domande scomode e non ti allinei ai pensieri dominanti, come accaduto a Ranucci, a Baldan e a Nunziati.

Una bolla in cui vige la censura dolce, per cui, se poni domande scomode e pubblichi inchieste che non piacciono a chi comanda, ti licenziano, ti bruciano l’auto, ti chiudono tutti i conti.

Ma il mondo non è venuto in quella bolla. Ha semplicemente costruito altre strade sul mondo reale.

L’incontro Trump-Orban è la crepa che svela l’ipocrisia del sistema. Mentre la leadership europea si flagella per ogni metro cubo di gas ancora acquistato, condannando l’Ungheria come un eretico, il presidente americano liquida la questione con una scrollata di spalle.

Perché Trump, come ogni imprenditore che non ragioni come Kallas o von der Leyen, sa che il bilancio viene prima del comunicato stampa.

Orban non sta facendo un’affermazione ideologica in stile Commissione europea, ma sta leggendo una riga del suo conto economico nazionale. La dipendenza dal gas russo non è un’opinione, ma un dato di fatto. È una “realtà fisica” incontrovertibile.

L’Europa, invece, ha scelto di abitare in una “realtà normativa” in cui le norme sono stabilite senza logica e senza tenere conto della realtà del mondo e dei fatti.

Un luogo incantato dove le sanzioni dovrebbero funzionare per decreto, dove le supply chain si riorganizzano con la forza della volontà e dove la Russia dovrebbe crollare sotto il peso della nostra indignazione.

È un’illusione confortante che dimostra tutta l’incompetenza della leadership europea.

Perché le fabbriche non funzionano con le illusioni. Le famiglie non pagano le bollette con l’indignazione.

La realtà non si cambia perché Kallas e von der Leyen lo impongono.

L’AUTOSTRADA DELLA SETA D’ACCIAIO CHE UCCIDE LE IMPRESE EUROPEE

E mentre l’Europa discute di etica, la Russia e l’Iran costruiscono ferrovie.

Pensateci.

Il Corridoio Nord-Sud non è solo una rotta commerciale alternativa, ma un bypass cardiaco impiantato nel corpo dell’economia globale per escludere un’arteria malata: l’Europa.

Un corridoio che costa il 30% in meno rispetto a passare per Suez. È più veloce di 20 giorni. E, soprattutto, è a prova di sanzioni. È un ecosistema chiuso, autosufficiente, che collega un fornitore di materie prime (Russia) con un hub manifatturiero e tecnologico (India) attraverso un corridoio strategico (Iran, Asia Centrale).

Cosa significa questo per un’azienda europea?

Significa la morte perché i medici a cui si è rivolta sono ciarlatani.

Significa che un’azienda manifatturiera tedesca, che già lotta con costi energetici folli a causa di politiche miopi, dovrà competere con un’azienda indiana che riceve materie prime e componenti a un costo logisticamente inferiore del 30% e con tempi di consegna dimezzati.

Significa che il porto di Rotterdam o di Amburgo, un tempo fulcro del mondo, diventeranno progressivamente stagni secondari, mentre il traffico merci globale si sposta sulle rotte caspiche e persiane.

Significa che l’imprenditore italiano che produce macchinari d’eccellenza si troverà tagliato fuori da mercati in crescita esponenziale, perché le nuove autostrade del commercio non passano più dal suo giardino.

L’Asia sta costruendo il futuro del mondo. Un futuro in cui l’Europa sarà il nuovo deserto economico.

Questa non è una previsione. È matematica. Ogni container che viaggia su quei binari è un chiodo sulla bara della competitività europea. Noi abbiamo offerto al mondo i nostri valori. Loro hanno offerto un prezzo migliore.

Indovinate cosa sceglie il mercato?

L’ISOLAMENTO NON È UNA POLITICA. È UNA CONSEGUENZA.

L’Europa, nel suo sforzo di isolare la Russia, sta realizzando il proprio perfetto isolamento. Ha trasformato la propria geografia, un tempo un vantaggio strategico che la poneva al centro delle rotte mondiali, in una debolezza. È diventata un’isola normativa in un oceano di pragmatismo.

Il problema non sono le decisioni in sé. Le sanzioni possono essere uno strumento legittimo. Il problema è l’assenza di una visione strategica su ciò che accade dopo. È il non conoscere la situazione reale del mondo e il posto sempre più isolato e di poco conto dell’Europa.

Cosa facciamo quando l’avversario non si limita a subire, ma reagisce costruendo un sistema alternativo che ci rende irrilevanti?

Di certo, la risposta non può essere rendere più difficile i visti sui passaporti russi. Perché, se scegli di imbarcare disperati che chiedono sussidi e neghi l’ingresso a turisti e manager che portano soldi, non sei solo incompetente, ma un pazzo criminale da arrestare per alto tradimento.

La risposta di Bruxelles è stata più burocrazia, più simile a quella del pazzo criminale, più regolamentazione, più dichiarazioni di principio. È come cercare di fermare un treno in corsa applicando il codice della strada.

Quello che stiamo osservando non è solo uno spostamento di assi geopolitici, ma sta avvenendo qualcosa di più profondo, di più umano. È la storia di un continente che, ubriaco della propria superiorità morale e culturale, ha dimenticato le regole fondamentali della sopravvivenza economica e strategica.

Ha dimenticato che il potere non deriva da ciò che dici, ma da ciò che controlli: rotte, risorse, tecnologia.

E mentre noi controlliamo sempre meno, altri costruiscono e fanno in modo che controlliamo ancora meno.

E il fischio di quel treno, in lontananza, non è solo il suono del commercio, ma la sinfonia del futuro.

Un futuro in cui, per le nostre aziende e per i nostri figli, l’Europa sarà solo una irrilevante periferia.

Fonti:

Ecco la lista delle fonti con i relativi link per la notizia sul primo treno merci russo diretto in Iran e il corridoio di trasporto Nord-Sud:

  1. Agenzia Nova – Iran: arrivato ad Aprin primo treno merci dalla Russia
    https://agenzianova.com/iran-arrivato-ad-aprin-primo-treno-merci-dalla-russia/
  2. Green Report – La rotta alternativa al Canale di Suez che passa da Iran e Asia centrale
    https://greenreport.it/la-rotta-alternativa-al-canale-di-suez-che-passa-da-iran-e-asia-centrale/
  3. ICE Italia – La Russia avvia la costruzione del corridoio di trasporto chiave dell’Iran
    https://ice.it/it/news/russia-avvia-la-costruzione-del-corridoio-di-trasporto-chiave-delliran
Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA GUERRA DEI DUE VOLTI, IL COLLASSO UCRAINO E IL FANTASMA CHE RIARMA L’EUROPA

Mentre il fronte di Kiev si sbriciola sotto la pressione russa e la popolazione gela al buio, l’Occidente viene nutrito con la narrazione di una minaccia imminente per giustificare un riarmo da migliaia di miliardi.

Le due verità, però, non possono coesistere. Si tratta di una dissonanza cognitiva orchestrata, la più grande operazione di ingegneria del consenso dai tempi della Guerra Fredda.

C’è una verità che si misura in metri di fango conquistati e un’altra che si misura in miliardi di euro stanziati, due realtà parallele, due narrazioni inconciliabili che definiscono oggi il più grande conflitto sul suolo europeo dal 1945.

Da un lato, il gelo e il caos di un’Ucraina al collasso. Dall’altro, il rimbombo mediatico di una Russia pronta a invadere la NATO, ma senza che ci diano un motivo che non sia quello proposto da un eroe da grappino al bar.

“Domani.”

Una parola sola, lapidaria, pronunciata da un generale tedesco. La Russia potrebbe lanciare un attacco su scala ridotta contro un paese NATO. Domani. E un attacco su larga scala entro il 2029.

Questa affermazione, se non fosse tragica, rasenterebbe il ridicolo. Una comicità fantozziana.

È un capolavoro di comunicazione strategica, mirato a scuotere le coscienze e, soprattutto, ad aprire i portafogli. Ma cozza violentemente, brutalmente, contro la realtà che emerge dal campo di battaglia ucraino e dall’effetto “dirompente” delle nostre sanzioni.

Per comprendere questa dicotomia, dobbiamo sporcarci gli stivali e andare lì, dove la guerra è fatta di carne e acciaio, non di conferenze stampa e propaganda.

LA VERITÀ DAL FANGO: IL FRONTE UCRAINO AL COLLASSO

Le notizie che filtrano, persino da fonti ucraine come il blog DeepState, descrivono uno scenario apocalittico. I russi avanzano. Hanno preso Pavlivka. Stringono d’assedio Pokrovsk, un nodo strategico la cui caduta rappresenterebbe per Mosca il più grande successo militare da mesi, forse anni e indicherebbe la sconfitta definitiva per l’Ucraina.

La situazione per le truppe di Kiev è disastrosa.

E non lo scrivo io. Lo urlano i fatti.

Si parla di rinforzi inviati allo sbaraglio, di unità diverse, esercito, guardia nazionale, polizia militare, gettate nella mischia senza un briciolo di coordinamento. Tanto per fare numero perché non si sa più chi mandare.

Un caos totale. Un sacrificio umano consumato sull’altare della propaganda, con il solo, disperato obiettivo di dimostrare agli sponsor occidentali che si sta combattendo ancora. Che c’è ancora speranza. Che la resistenza continua.

Ma quale resistenza?

Mentre i soldati muoiono in trincee sguarnite, il resto del Paese è al buio. Letteralmente. I bombardamenti russi hanno devastato la rete energetica in modo sistematico, chirurgico. Intere regioni sono soggette a blackout controllati che durano 10, 12 ore al giorno.

Immaginate cosa significhi?

È la conservazione del cibo che diventa impossibile. È l’acqua che smette di scorrere. Sono gli ospedali che faticano a operare.

È una crisi umanitaria silenziosa, che si consuma nel freddo e nell’oscurità, lontana dalle telecamere che preferiscono immortalare la stretta di mano di un leader in felpa che stringe mani e scatta foto in cerca di soldi e di ulteriori armi.

Eppure, dai palazzi di Kiev, la narrazione ufficiale nega.

Nega l’accerchiamento. Nega il collasso. Nega la disperazione.

Si continua a chiedere armi e aiuti, certo, ma dipingendo un quadro di tenace e quasi eroica resistenza che i rapporti dal campo smentiscono ogni giorno.

IL NEMICO ALLE PORTE: LA FABBRICA DELLA PAURA E IL RIARMO EUROPEO

Ed è proprio qui, nel punto di massima debolezza dell’esercito ucraino e di massima fragilità dello Stato, che si innesta la seconda, paradossale narrazione. Quella per noi. Per l’opinione pubblica europea e americana.

La Russia, quella stessa Russia che impiega mesi per conquistare un villaggio fantasma, quella che secondo le fonti di Kiev perde quasi mille uomini al giorno, cioè 360000 uomini all’anno, quindi oltre 1 milione di uomini dall’inizio della guerra, quella che combatte solo armata di pale e ha i carri armati tenuti insieme da microchip smontati dalle lavatrici ucraine, sarebbe pronta ad attaccare l’alleanza militare più potente della storia.

E lo farebbe domani.

Ma questa è una sciocchezza ci proporzioni galattiche. Non è un’analisi degna di considerazione, ma solo la costruzione del nemico. Un’operazione psicologica su vasta scala per creare un senso di urgenza, di minaccia esistenziale. Una minaccia che, guarda caso, richiede una sola, costosissima risposta: il riarmo.

Gli annunci si susseguono, le scadenze cambiano, a seconda dei giorni, degli umori e delle voci, – 2026, 2027, 2029, 2030 – ma il messaggio di fondo resta identico.

Dobbiamo prepararci. Dobbiamo spendere.

Mark Rutte, che fino all’altro ieri lamentava la soverchiante capacità produttiva russa, oggi cambia spartito e dichiara trionfante che la NATO ha già superato Mosca nella produzione di munizioni.

Applausi a scena aperta.

Le nuove linee di produzione sono state aperte, ci dicono. Decine di nuove fabbriche. Stiamo producendo più che negli ultimi decenni.

Ma la contraddizione logica è palese, anche se viene ignorata. Se l’esercito russo è così inefficiente e logorato in Ucraina, come può rappresentare una minaccia credibile per la NATO? Se è così logorato, perché aprire nuove fabbriche di armi?

E se, al contrario, è così forte da minacciare la NATO, come mai l’Ucraina non ha ancora perso? Oppure, ribaltando il punto di vista: se la NATO è in grado di contenere la forza della Russia, come mai non ha ancora vinto in Ucraina, con i Patriot, i carri armati i satelliti, gli F16?

Insomma, da qualunque punto di vista, la narrazione della propaganda occidentale fa acqua da tutte le parti.

SEGUIRE I SOLDI: DALLO SVILUPPO ALLA DIFESA, LA GRANDE RIALLOCAZIONE

Ce lo ha insegnato Giovanni Falcone che la risposta si trova seguendo il flusso del denaro.

Ed è qui che il quadro diventa cristallino. La “triade europea” – Commissione, Consiglio, Parlamento – si è già accordata per riassegnare fondi precedentemente destinati allo sviluppo dei paesi membri.

Verso dove? Verso progetti di “dual use”, un elegante eufemismo per indicare tecnologie e materiali che servono tanto al civile quanto, e soprattutto, al militare.

Stiamo parlando di centinaia di miliardi di euro. Stiamo parlando di portare la spesa militare al 5% del PIL, una cifra che prosciugherebbe le risorse per sanità, istruzione e welfare e cancellerebbe l’economia sussidiaria per tornare a un’economia mercantilistica. Quella che ha condotto l’Europa alla Prima e alla Seconda Guerre Mondiali.

La guerra in Ucraina, o meglio, la narrazione della guerra in Ucraina, è diventata il più grande pretesto della storia moderna per un massiccio trasferimento di ricchezza pubblica verso il complesso militare-industriale.

L’armata russa “rotta”, che non riesce a vincere in Ucraina, diventa, per magia della propaganda, un’orda inarrestabile pronta a varcare i confini della Polonia. E l’unica salvezza è comprare più carri armati, più caccia, più proiettili.

Ovviamente, in gran parte dagli USA. Vuoi mettere?!

TRA REALTÀ E NARRAZIONE: L’EUROPA SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO

Siamo intrappolati in un paradosso letale.

La sofferenza reale del popolo ucraino, la distruzione del Paese, il sacrificio dei suoi giovani e meno giovani mandati al macello in una guerra ormai insostenibile, vengono usati come carburante per alimentare una macchina propagandistica che ha un solo obiettivo: giustificare una spesa militare senza precedenti.

Non si parla più di pace. La diplomazia è una parola dimenticata, roba da complottisti e putiniani, quasi un’eresia.

L’unica soluzione proposta è l’escalation: più armi all’Ucraina per prolungare la sua agonia e più armi a noi per prepararci a una guerra che, a detta degli stessi leader, è inevitabile.

La vera minaccia per gli europei e per gli italiani non è l’orso russo alle porte, azzoppato e sanguinante. La vera minaccia è questa pericolosa dissociazione dalla realtà dei nostri leader, europei e italiani, la loro volontà di ignorare il collasso dell’Ucraina per inseguire i fantasmi di una guerra futura.

E mentre noi discutiamo su quando e come la Russia ci attaccherà, ma mai sul perché dovrebbe farlo, con quale obiettivo, con quali mezzi e quali soldi, c’è un intero popolo che, semplicemente, sta morendo di freddo, di fame e di bombe.

Oggi.

Non domani e non nel 2029 o nel 2030.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

VOLEVANO RECLUTARE ANCHE LA GUARDIA DEL CORPO DI ANGELINA JOLIE

Angelina Jolie, si è recata a Kherson in qualità di Ambasciatrice di Buona Volontà delle Nazioni Unite, per una missione umanitaria.

Il copione era perfetto, tra sorrisi ai bambini, visita a un ospedale e la narrazione della resilienza ucraina.

Poi, la realtà si è dissolta in maniera brutale, goffa e inesorabile.

Uno dei suoi bodyguard è stato prelevato con la forza a un posto di blocco, trascinato in un centro di reclutamento per spedirlo a morire al fronte.

Si è trattato di un errore?

No, è l’immagine plastica di un apparato militare così disperato, così affamato di uomini, da agire in modo automatico e indiscriminato, quasi cieco.

L’episodio si è risolto solo quando l’attrice di Hollywood è intervenuta di persona. Ma, se lei non fosse stata Angelina Jolie, attrice famosissima e, soprattutto, statunitense, quell’uomo sarebbe stato spedito al fronte poiché di origini ucraine.

Un episodio che è una crepa che si apre nella facciata accuratamente costruita di un’Ucraina efficiente e in pieno controllo, mentre affonda nel caos operativo che si cela dietro il sipario mediatico.

Se questo è il livello di coordinamento durante un evento ad altissima visibilità internazionale, cosa accade realmente per le strade ucraine e nell’ombra delle trincee, dove le telecamere non arrivano e dove non possono intervenire star hollywoodiane?

La risposta è Pokrovsk.

IL BUCO NERO STRATEGICO DI POKROVSK

Mentre i media si dilettavano con la disavventura della guardia del corpo di Angelina Jolie, a centinaia di chilometri a est, la stessa disorganizzazione e la stessa negazione della realtà stavano consumando una tragedia ben più vasta.

La città è sempre più inghiottita. Fonti militari russe e think tank occidentali come l’ISW concordano sulla tattica messa in atto dall’esercito russo: una lenta, quanto inesorabile manovra a tenaglia per strangolare la città tagliando ogni via di rifornimento.

Le forze russe avanzano, stabiliscono posizioni di fuoco, creano depositi logistici e si infiltrano progressivamente, chiudendo il cappio.

E Kiev? Nega.

Il comando ucraino, in una propaganda spettrale, tra le più disastrose del XX secolo, continua a smentire l’accerchiamento.

Lo Stato Maggiore parla di “attacchi respinti”, mentre le sue stesse mappe militari mostrano un corridoio di rifornimento ridotto a un sottile filo di pochi chilometri, costantemente bersagliato dall’artiglieria russa.

Beh, questa non sembra affatto una strategia difensiva, ma piuttosto il sacrificio deliberato di migliaia di soldati sull’altare di una narrazione. Si stanno lasciando a morire tanti soldati, pur di non ordinare loro il ritiro, per dare in pasto ai media occidentali un martirio emozionale su cui puntare per altre armi e altri soldi.

Quei giovani ucraini sono lasciati lì come carne da macello, come un sacrificio, in una posizione militarmente insostenibile, per poter dire di non aver ancora perso.

È un investimento fallimentare dove la valuta non sono i dollari, ma le vite umane di quegli ucraini che, invece, Zelensky e i suoi sostenitori dicono di voler salvare.

Si posticipa una sconfitta tattica al costo di una potenziale catastrofe strategica, perché ammettere la verità, per Zelensky è politicamente inaccettabile.

LA DIPENDENZA DALLA NARRAZIONE E L’INCUBO DELLA VERITÀ

Qui si svela la patologia dell’Ucraina e dei partner europei.

La leadership ucraina – e l’Europa – è prigioniera di una dissonanza cognitiva strategica, costretta a gestire due realtà inconciliabili.

La prima è quella interna, fatta di coscrizione forzata, perdite spaventose e un morale che inevitabilmente vacilla, con le famiglie ucraine sempre più contrarie al governo.

La seconda è la realtà di facciata, costruita per un’immagine patinata di eroismo e successo, un prodotto di marketing essenziale per mantenere aperto il flusso vitale di miliardi di dollari e armi dalla NATO.

La guerra, nella sua dimensione politico-economica, è diventata un’impresa il cui bilancio dipende dalla percezione degli investitori, ovvero i governi e le opinioni pubbliche occidentali.

Ammettere il crollo imminente di un nodo strategico come Pokrovsk equivarrebbe a un crollo del “valore azionario” del conflitto, rischiando di far dubitare i finanziatori sulla bontà del loro investimento.

Quale investitore vincola soldi su un asset destinato a fallire?

E così, per non perdere i finanziamenti di domani, si sacrificano gli uomini di oggi. Si nega la realtà sul campo per sostenere la finzione necessaria a Washington e, soprattutto, a Bruxelles.

DALLA NEGAZIONE SUL CAMPO ALL’ESCALATION GLOBALE

La narrazione, per sopravvivere, ha bisogno di un evento che cambi le regole del gioco. Ecco che il discorso si sposta, quasi per magia, sul piano nucleare. Si diffonde la notizia che gli Stati Uniti potrebbero riprendere i test atomici, un tabù infranto per la prima volta in decenni.

D’altronde, gli USA hanno bisogno di mostrare i muscoli dopo i test russi andati a buon fine sui missili ipersonici e a propulsione nucleare.

E la reazione di Mosca non è una minaccia proattiva, come viene maliziosamente dipinta da certa stampa occidentale, ma una risposta quasi ovvia, un calcolo da manuale della deterrenza: se voi alzate la posta con le armi nucleari, noi dobbiamo dimostrare di poter vedere la vostra puntata.

Di fatto, la Russia avverte che, se il trattato viene violato, si sentirà libera di fare altrettanto per non restare tecnologicamente indietro.

Anche perché non è Mosca ad aver iniziato l’escalation, ma la sua reazione, con i test degli ultimi mesi, è lo specchio del fallimento della strategia occidentale in Ucraina, fatta di riarmi e voci di guerra.

La prospettiva di riprendere anche i test nucleari è il sintomo più grave della malattia: quando la vittoria sul campo diventa un miraggio, si inizia a evocare l’apocalisse per alterare l’equilibrio strategico.

Il legame è sottile, ma potente.

Si inizia negando un accerchiamento locale per non incrinare la narrazione, si finisce per contemplare la rottura di equilibri globali per non ammettere il fallimento di quella stessa narrazione.

L’incidente della guardia del corpo di Angelina Jolie e le vite gettate via a Pokrovsk sono facce della stessa, tragica medaglia. Raccontano una guerra dove la propaganda ha divorato la strategia.

Il pericolo più grande non è un esercito nemico alle porte, ma una leadership che, per compiacere i propri sponsor che fabbricano armi, sceglie di credere alle proprie menzogne.

E quando si scommette contro la realtà, il banco vince sempre.

Il prezzo da pagare in questo Casinò della propaganda, purtroppo, non lo pagano i giocatori al tavolo verde della geopolitica, non lo pagano i politici in giacca e cravatta, ma i giovani ucraini senza nome mandati a morire nel fango come vittime sacrificali.

NUNZIATI, BALDAN, RANUCCI. L’EUROPA INDOSSA “IL BAVAGLIO” DI KIM JONG-UN

Dal caso Nunziati a Baldan, fino all’auto di Ranucci, il potere silenzia il dissenso in Europa, come nella Russia di Putin o in Corea del Nord.

Porre domande è il motore del mestiere di giornalista. E quelli davvero bravi, quelli delle grandi inchieste, pongono domande scomode. Scomodissime. Che imbarazzano.

Chi pone domande preconfezionate e concordate fa il portavoce del potere. Il megafono della propaganda.

I giornalisti veri sono salvaguardati nelle democrazie, altrimenti, lo scandalo Watergate non sarebbe mai scoppiato, nel 1974.

Il giornalismo libero è il motore del progresso, il bisturi della verità, il fondamento di ogni civiltà democratica.

Ma se il sistema decide che alcune domande hanno un costo troppo alto e arrivano rappresaglie contro chi le pone, non siamo Roma e Bruxelles, ma Mosca e Pyongyang. Anzi peggio, perché accusiamo Mosca e Pyongyang di essere dittature e ci vantiamo di essere democrazie.

Ma la nostra democrazia mostra la sua crepa più profonda, una frattura in cui intravediamo l’ombra di un autoritarismo che credevamo di aver relegato sui libri di Storia e di scorgere solo lontano da noi, invece pende sulle nostre teste.

Purtroppo, non si tratta di un’idea allarmistica, ma della realtà dei fatti di questi ultimissimi giorni del 2025.

IL PECCATO ORIGINALE: UNA DOMANDA

Il 13 ottobre, a Bruxelles, il giornalista Gabriele Nunziati ha posto una domanda logica. La più ovvia e scontata che qualunque giornalista degno di tal nome avrebbe posto in quel contesto.

Non una di quelle programmate o edulcorate, da pennivendolo della propaganda, ma una che scoperchiava l’ipocrisia europea.

«Pensa che anche Israele debba pagare la ricostruzione di Gaza, come la Russia quella dell’Ucraina?»

Per questa domanda è stato licenziato.

Ma se il caso Nunziati è un avvertimento, la vicenda di Frédéric Baldan è l’esecuzione.

Frédéric Baldan, autore del libro inchiesta “Ursula Gates: La von der Leyen e il potere delle lobby a Bruxelles”, è un ex lobbista che, dopo aver denunciato la Presidente della Commissione Europea per abuso d’ufficio e corruzione riguardo le trattative opache con Pfizer, si è visto chiudere tutti i conti dalla sua banca. Personali e aziendali. Persino il conto del figlio, di cinque anni.

La sua colpa è quella di aver scritto un libro per svelare le macchinazioni di von der Leyen, macchinazioni per cui la Magistratura dà ragione a Baldan e continua a chiedere documentazioni alla Presidente della Commissione europea, che ancora non ha prodotto.

Negli stessi giorni, l’attentato intimidatorio a Ranucci, un altro giornalista che fa il suo mestiere, che non si è trasformato in un megafono del potere.

Tre fatti che dimostrano come l’Europa non sia diversa dalla Corea del Nord o dalla Russia.

L’EUROPA È DIVENTATA CIÒ CHE DICEVA DI COMBATTERE

Il meccanismo è di una perfezione spietata.

Per anni abbiamo puntato il dito contro Cina, Russia e Corea del Nord, denunciando la loro repressione del dissenso, ma, oggi, scopriamo, con orrore, che lo stesso software autoritario gira sui server europei, solo con un’interfaccia grafica più amichevole.

Non servono più i manganelli. Basta una comunicazione bancaria. Non serve più il carcere. Basta una lettera di licenziamento. È una violenza pulita, amministrativa, che genera l’arma più potente di tutte: l’autocensura. Perché il vero obiettivo non è punire Nunziati, Ranucci o Baldan, ma educare i mille che verranno dopo di loro.

È insegnare a un’intera generazione di professionisti, giornalisti, attivisti e cittadini che ci sono recinti invisibili che non vanno superati, dogmi che non vanno messi in discussione.

Il risultato è l’informazione addomesticata che ci ha raccontato sciocchezze su pale e microchip; conferenze stampa che sono messe in scena, con domande preconfezionate e una cittadinanza a cui viene negato il diritto fondamentale di comprendere la complessità del mondo.

La storia di questi uomini non è un campanello d’allarme, perché siamo già oltre. È un incendio che divampa in ciò che resta della democrazia europea.

Difendere il loro diritto a chiedere, a denunciare, non è una questione di solidarietà, ma di sopravvivenza per chiunque creda che il potere debba rispondere delle proprie azioni.

Perché domani, in un mondo senza contante e con un giornalismo preoccupato dalle rappresaglie del potere, l’auto incendiata, la lettera di licenziamento e i conti chiusi potrebbero essere i nostri.

Per questa ragione ho scritto “La Fabbrica della Paura”, un libro in cui sviscero i meccanismi della propaganda, gli sponsor definiti esperti e la negazione del contraddittorio per non infastidire lobby e sponsor.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IN EUROPA, SE FAI IL GIORNALISTA E PONI DOMANDE SCOMODE, TI LICENZIANO

Purtroppo, non si tratta di un’idea allarmistica, ma della realtà dei fatti.

Il 13 ottobre, a Bruxelles, in quell’Europa che si dice faro di democrazia, il giornalista Gabriele Nunziati ha posto una di queste domande. E per questo ha perso il lavoro.

Licenziato per aver chiesto alla portavoce della Commissione Europea, Paula Pinho, una cosa di una linearità disarmante: «Se la Russia dovrà pagare per la ricostruzione dell’Ucraina, anche Israele dovrà farlo per Gaza?»

Una domanda che non contiene un’opinione, né un pregiudizio. Contiene un parallelo. Un test di coerenza per l’architettura etica e politica dell’Unione Europea. Un test di intelligenza per chiunque abbia superato almeno un esame di Diritto internazionale all’università.

La risposta della portavoce è stata un capolavoro di elusione: «La sua è una domanda molto interessante sulla quale però non vorrei commentare in questo momento.»

Un non-detto che, col senno di poi, era già una sentenza.

Pochi giorni dopo, a seguito di telefonate definite dallo stesso Nunziati come “abbastanza tese”, il suo rapporto di collaborazione con l’Agenzia Nova è stato interrotto. Senza un motivo ufficiale nella lettera di licenziamento.

Il motivo, tuttavia, è chiaro a tutti: quella domanda non doveva essere posta in nome di una censura su certi argomenti che non è scritta da nessuna parte ma vive e aleggia in questi comportamenti, che giudicare fascisti è ancora poca cosa.

QUANDO LA “RAGION DI STATO” DIVENTA LA RAGION D’EDITORE

La giustificazione postuma dell’Agenzia Nova è un documento che andrebbe studiato nei manuali di sociologia della comunicazione come un esempio plastico di autocensura preventiva e di sottomissione del giornalismo a logiche che con l’informazione non hanno nulla a che vedere.

Secondo la versione tragicomica dell’agenzia, la domanda di Nunziati denotava “ignoranza dei principi fondamentali del diritto internazionale” ed era “tecnicamente sbagliata”.

Roba da scompisciarsi dal ridere.

La Russia, argomentano, è un aggressore non provocato; Israele ha subito un’aggressione. Una giustificazione che ci si aspetta dall’eroe del bar sport, non certo da chi dovrebbe conoscere la realtà dei fatti. Un sofisma fragile, che crolla sotto il peso della logica e della realtà fattuale.

La domanda di Nunziati non verteva sulla legittimità dell’inizio di un conflitto, ma sulle responsabilità per la distruzione di infrastrutture civili.

Quello di Agenzia Nova è un tentativo goffo di spostare il dibattito, di confondere le acque per non ammettere il vero peccato di Nunziati: aver messo in imbarazzo la linea editoriale dell’agenzia, esponendone forse le pressioni o le convenienze politiche.

Un po’ come se il Washington Post, per paura di Nixon, avesse licenziato i giornalisti del caso Watergate.

Di fatto, si ammette che non si possono porre certe domande. Oggi, fare il giornalista in Europa, e farlo in maniera seria, non si può.

La parte più rivelatrice del comunicato, tuttavia, è un’altra.

L’agenzia si duole che il video della domanda sia stato ripreso da canali Telegram russi e media vicini all’Islam politico, causando “imbarazzo in termini di indipendenza informativa e oggettività”.

E tali affermazioni sono un paradosso ancora più inquietante.

Un giornalista non viene più giudicato per la pertinenza della sua domanda, ma per chi la strumentalizza.

L’agente della “colpa” diventa la reazione di terzi, non l’atto giornalistico in sé.

Ma questa è la capitolazione del giornalismo alla propaganda. Significa ammettere che la propria linea editoriale è dettata dalla paura di come i “nemici” potrebbero interpretare una semplice domanda.

E si ribadisce la censura, quindi.

DUE PESI, DUE MISURE: IL TABÙ GEOPOLITICO CHE SOFFOCA LA VERITÀ

Il caso Nunziati è la cartina di tornasole di una schizofrenia morale che attraversa l’Occidente, a livello politico e a livello mediatico, dove tanti giornalisti hanno ucciso l’informazione, scegliendo di diventare megafoni del potere. O, almeno, di non disturbarlo.

Le giustificazioni di Agenzia Nova sono le stesse che si sentono in Cina e in Russia e contro cui per anni abbiamo puntato il dito, gridando, giustamente, alla dittatura.

Ma è l’Europa oggi, gente.

Per la Russia, giustamente, si chiede conto di ogni mattone distrutto in Ucraina.

La condanna è unanime, le sanzioni severe, la richiesta di riparazioni un imperativo morale. Ma quando il teatro delle operazioni si sposta a Gaza, il metro di giudizio cambia radicalmente. La critica a Israele diventa un tabù, la richiesta di responsabilità un’eresia.

E se poni domande vere, supportate dalla logica, dal Diritto internazionale e dai fatti, ecco che diventi un problema e ti censurano, ti chiudono un canale, ti licenziano.

Il licenziamento di Nunziati non è un episodio, non l’atto di un singolo editore, ma il sintomo di un clima di censura che è gravissimo.

È il segnale inviato a un’intera categoria professionale. È un avvertimento in stile mafioso, per cui ci sono santuari intoccabili, narrazioni che non possono essere messe in discussione. Altrimenti, si resta senza lavoro.

Si può raccontare la guerra, ma solo da una trincea ideologica e solo se al potere sta bene.

Il giornalista non è più un testimone critico, non è più nemmeno il cane da guardia del potere, ma un soldato, consapevole o meno, di una guerra di narrazioni. Un soldato che, se si macchia di insubordinazione, deve pagarne le conseguenze.

Chiunque osi tracciare parallelismi scomodi, chiunque applichi un principio di universalità etica, viene bollato come ingenuo, ignorante o, peggio, come fiancheggiatore del nemico.

LA NUOVA CENSURA NON USA IL BAVAGLIO, MA LA LETTERA DI LICENZIAMENTO

Dimenticate l’immagine romantica del censore del regime che annerisce gli articoli con un pennarello.

La nuova censura europea è più elegante, più sottile, e forse per questo più pericolosamente fascista.

È una censura economica. Agisce sulla precarietà dei rapporti di lavoro, sulla vulnerabilità di collaboratori e freelance che possono essere allontanati con una semplice comunicazione, senza clamore e senza la necessità di scomodare leggi liberticide.

Oppure, come accaduto ad altri, si chiudono i conti, con un clic.

Questa forma di repressione soft genera un’arma potentissima: l’autocensura.

Per ogni Gabriele Nunziati che perde il lavoro, ce ne sono cento che, la prossima volta, ci penseranno due volte prima di formulare una domanda “interessante”. Fino a quando nessuno avrà più il coraggio di porre domande e la dittatura… ops, il potere andrà avanti indisturbato, come se fosse tutto normale.

È un meccanismo di addomesticamento di massa che svuota il mestiere del giornalista del primo dovere di questo mestiere: il coraggio di chiedere.

Una situazione che indebolisce il giornalismo libero e indipendente, come hanno denunciato diversi esponenti politici, che hanno chiesto ad Agenzia Nova di fare chiarezza sulle reali motivazioni del licenziamento.

Un episodio che dimostra come sia sempre più difficile trovare fonti di informazione che non siano viziate da interessi politici superiori, non a caso, sono proprio i blog come Tamago quelli che non hanno avuto bisogno di raccontare sciocchezze di pale e microchip, ma vi hanno sempre raccontato i fatti reali.

Un’involuzione che denuncio nel mio ultimo libro, La fabbrica della paura.

UNA DERIVA AUTORITARIA NEL CUORE DELL’EUROPA

Quando fare una domanda diventa un atto sovversivo, la democrazia è malata. Molto malata.

L’episodio di Nunziati lo dimostra.

Le classifiche sulla libertà di stampa vedono l’Italia e altri Paesi europei in una posizione preoccupante, con crescenti pressioni da parte di attori politici ed economici che minano l’autonomia dei media.

Questa “deriva fascista”, nel suo significato più profondo di soppressione del dissenso e di imposizione di una verità di Stato, si nutre del silenzio.

Si alimenta della paura dei giornalisti di perdere il lavoro e della conseguente omertà che trasforma le conferenze stampa in rituali coreografati, dove le domande sono addomesticate e le risposte sono scritte in anticipo.

La storia di Gabriele Nunziati è un monito per tutti.

È la storia di un uomo che ha fatto semplicemente il suo mestiere, con coraggio e lucidità. Uno dei pochi ancora capaci di porre domande intelligenti, serie e nel momento opportuno.

La sua epurazione è una ferita inferta al diritto di ogni cittadino europeo di essere informato, di conoscere la verità al di là delle narrazioni ufficiali.

Difendere il diritto di un giornalista di porre qualsiasi domanda, per quanto scomoda, significa difendere l’ultimo argine che ci separa da un futuro in cui il potere non dovrà più rispondere a nessuno.

E quel futuro, per chiunque creda nella libertà, è semplicemente inaccettabile.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

TRUMP, LO SO CHE MI STAI GUARDANDO. ALZA IL VOLUME

Martedì 4 novembre 2025, mentre il governo degli Stati Uniti entrava nel suo 36° giorno di asfissia autoindotta, New York mandava un chiaro segnale sia ai repubblicani sia ai democratici.

Washington, invece, era un fantasma. Silenziosa.

La sua paralisi, il più lungo shutdown nella storia della nazione, non era solo un’interruzione dei servizi, ma un’abdicazione. Un’ammissione di impotenza urlata attraverso i corridoi deserti del potere, una crisi che ha lasciato i controllori di volo a scrutare i radar con gli occhi cerchiati dalla stanchezza e senza stipendio, mentre l’economia nazionale trema.

Eppure, l’America è viva e c’è un uomo che, contro mille pronostici iniziali, ieri ha vinto.

Un uomo di New York.

Lì, in una sala da ballo gremita di Brooklyn, un uomo di 34 anni, Zohran Mamdani, socialista democratico e primo sindaco musulmano eletto della città, ha preso il microfono e ha riempito il vuoto federale con la sua voce. Una voce che non chiede permesso.

ANATOMIA DI UN TERREMOTO POLITICO

Non si può comprendere l’uragano Mamdani senza prima aver misurato la depressione sociale che lo ha generato. Le elezioni di medio termine non sono state una sconfitta per il Partito Repubblicano, ma addirittura un ripudio.

La Virginia è caduta. Il New Jersey ha rafforzato le sue difese democratiche. Gli elettori, interrogati all’uscita dai seggi, non parlavano di ideologia astratta, ma di conti da pagare, di incertezza.

Del disgusto nel vedere una nazione che si dichiara ancora Superpotenza incapace di tenere aperti i suoi parchi nazionali o di pagare i suoi dipendenti.

Una nazione al collasso finanziario che indossa belle maschere per darsi un tono e raccontare un’America che esiste ancora soltanto nella propaganda di Hollywood.

Lo stesso presidente Trump, in un raro momento di trasparenza tattica, lo ha ammesso: lo shutdown e la mancanza del suo nome alle urne sono stati la causa della disfatta repubblicana.

Ma questa non è la storia completa. Sarebbe un racconto parziale e riduttivo.

Il vero motivo della vittoria del nuovo sindaco di New York è stato la frattura esposta tra l’establishment, di ogni colore politico, e la vita reale dei cittadini.

È una frattura che Andrew Cuomo, ex governatore democratico caduto in disgrazia, non ha compreso.

Si è candidato come indipendente, convinto che il suo nome e la sua vecchia rete di potere potessero bastare. Si è persino alleato, in un patto tanto surreale quanto disperato, con il suo vecchio nemico, Donald Trump, nel tentativo di fermare Mamdani.

Hanno unito le loro forze non per un’idea, ma contro. E hanno fallito miseramente.

Perché Zohran Mamdani non ha semplicemente vinto un’elezione, ma ha offerto una risposta a quella frattura.

“ALZA IL VOLUME”: IL MANDATO OLTRE LA VITTORIA

Il discorso di Mamdani, nella notte della vittoria, non sarà certo ricordato per la sua eleganza retorica, ma per la sua brutale onestà.

Ha liquidato Cuomo con freddezza, come una seccatura, dichiarando di non voler più pronunciare il suo nome. Come a voler dire che la sua politica sarà lontana anni luce da ciò che rappresentano Cuomo e i suoi alleati.

Poi ha definito la sua vittoria un mandato per una politica al servizio dei “molti, non dei pochi”.

Frasi che sembrerebbero i soliti slogan retorici in bocca a un politico tradizionale, ma che nel contesto di un governo federale assente e di un’alleanza di potere grottesca, hanno il peso di un manifesto rivoluzionario.

Mamdani ha guardando dritto in camera, si è rivolto a Donald Trump. “So che stai guardando”, ha detto, con un mezzo sorriso tagliente. “Ho quattro parole per te: alza il volume”.

Non è stata soltanto una provocazione, ma una dichiarazione di esistenza. Un’affermazione che le sue idee, autobus gratuiti per la città, negozi di alimentari pubblici per combattere la povertà, blocco degli affitti, non sono più sussurri ai margini del dibattito, ma sono diventate la politica della più grande città d’America.

Della Capitale finanziaria del Paese.

Parole e politiche che hanno un suono da acufene per il silenzio di Washington.

NEW YORK COME LABORATORIO, L’AMERICA COME INTERROGATIVO

Cosa significa, dunque, questa vittoria?

Gli analisti si affretteranno a etichettarla. Parlano già di un’ondata progressista, della radicalizzazione del Partito Democratico, di un’anomalia newyorkese.

Si sbagliano.

Perché questa non è una storia di destra contro sinistra, ormai da accantonare nel cassetto dei ricordi.

È la storia di chi agisce contro chi è paralizzato. È la storia di una generazione che ha smesso di chiedere il permesso di cambiare le cose.

Mamdani ha vinto perché, mentre il sistema politico nazionale dimostra la sua totale incapacità di risolvere i problemi fondamentali, lui ne propone di nuovi, audaci e tangibili. Propone una politica diversa a chi non cerca nomi altisonanti sulle schede elettorali, ma qualcuno che parli il linguaggio della povera gente e che proponga fatti per risolvere i loro problemi.

La vittoria di Zohran Mamdani non è la fine della storia, ma l’inizio di una faglia nella politica statunitense.

Una faglia che si allunga da una Washington D.C. ammutolita a una New York City in festa.

New York è ora il laboratorio del futuro politico americano. E il resto della nazione, ancora seduta nel silenzio innaturale di uno stato in panne, senza soldi per gli americani, alla faccia della politica trumpiana dell’”America prima di ogni altra cosa”, è costretta a guardare e ad ascoltare.

Perché il volume, ora, è stato alzato. Non solo per Trump.

E non potrà più essere abbassato.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’ITALIA CADE A PEZZI MENTRE L’EUROPA GIOCA ALLA GUERRA

Un boato sordo. Poi la polvere.

Sembrava una bomba, ma non è stato un attacco nemico, ma un pezzo d’Italia che crolla su se stessa, seppellendo chi ci lavorava dentro. Come accade ogni tanto con i ponti, con le scuole fatiscenti, con gli smottamenti per un po’ di pioggia in più, per intenderci.

Stavolta, è toccato alla Torre dei Conti, un cantiere nel centro della Capitale, diventato il mausoleo di un operaio e il simbolo plastico, e tragicamente perfetto, di una nazione che si sgretola dall’interno.

Mentre accade questa tragedia, a Bruxelles e nelle altre capitali europee, i discorsi sono altisonanti, le priorità chiarissime: miliardi di euro da destinare allo sviluppo di armi sempre più sofisticate, e un impegno incrollabile per un fronte lontano migliaia di chilometri.

C’è una schizofrenia, una disconnessione patologica tra la realtà che i cittadini vivono ogni giorno e la narrazione che le élite politiche perpetuano.

È il grande inganno del nostro tempo: distrarre l’opinione pubblica con il feticcio di una guerra per procura da vincere a ogni costo, mentre si lascia marcire il fronte interno, quello del lavoro, della sicurezza, della dignità.

E a chi si lamenta, si pone dinanzi il martirio degli ucraini. Già, quegli stessi ucraini che mandiamo al martirio rinunciando a qualsiasi intervento diplomatico.

IL FRONTE INTERNO: MORIRE DI PACE

Parliamo di lavoro. O meglio, del suo fantasma.

In Italia, il lavoro è diventato povero, precario, mortale. Non è un’iperbole, è statistica.

L’incidente di Roma non è un caso isolato, ma la logica conseguenza di un sistema che, per massimizzare il profitto, taglia sistematicamente sulla sicurezza, sulla manutenzione, sulla formazione.

Io stesso, quando lavoravo in fabbrica, ho visto chi doveva vigilare sulla sicurezza chiudere un occhio sulle porte aperte dei centri di lavoro e delle macchine a taglio laser, bloccate con delle forchette nei micron. Perché accade in migliaia di aziende?

Semplice: perché il sistema consente che una società privata si occupi di sicurezza. Perciò può diventare fornitrice per un’impresa cliente. E ciò comporta il fatto che, se troppo fiscale e precisa, l’azienda cliente si rivolge ad altri più permissivi.

Perché lavorare rispettando le regole aumenta il costo singolo di un pezzo, perciò si preferisce tagliare sulla sicurezza di chi lavora.

Oggi, a distanza di tanti anni, la situazione è molto peggiorata.

Si tagliano i costi perché i margini sono risicati, perché l’economia è stagnante, perché il potere d’acquisto si erode. E così, si taglia la vita. Si muore di pace, nei cantieri, nelle fabbriche.

È un paradosso che diventa beffa quando la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, sfrutta cinicamente la nostra tragedia per dileggiarci.

“Finché il governo italiano continuerà a spendere inutilmente i soldi dei suoi contribuenti,” ha dichiarato, “l’Italia crollerà tutta, dall’economia alle torri”.

L’umiliazione non sta nel fatto che lo dica lei, ma nel fondo di verità che le sue parole, per quanto inopportune e strumentali, contengono.

Siamo diventati così fragili che persino i nostri avversari geopolitici possono usare le nostre crepe interne come arma di propaganda. Persino avversari che il nostro Mario Draghi dava per spacciati nel 2022, quando parlò degli effetti “dirompenti” delle nostre sanzioni.

Questo degrado non è solo economico, ma istituzionale. Mentre si discute di inviare armi per “difendere la democrazia” in Ucraina, in Italia si approva una riforma della giustizia che, con la separazione delle carriere, rischia di porre il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo.

Si indebolisce uno dei pilastri fondamentali dell’equilibrio democratico per interessi di parte, mentre lo Stato si dimostra incapace di garantire la sicurezza più elementare ai suoi cittadini.

IL FRONTE ESTERNO: L’AGONIA DI UNA VITTORIA IMMAGINARIA

E mentre il fronte interno cede, cosa succede su quello esterno, quello che ossessiona i nostri media e i nostri governi?

La narrazione ufficiale parla di resistenza eroica e di una vittoria possibile. La realtà, per chi ha l’onestà intellettuale di analizzare i dati, racconta un’altra storia.

La caduta di Pokrovsk, roccaforte logistica e ultimo baluardo ucraino nel Donetsk, è imminente. La sua perdita, secondo l’autorevole Institute for the Study of War (ISW), -non certo al soldo di Putin,- non sarebbe un normale arretramento, uno dei tanti di questi ultimi mesi, ma il potenziale collasso dell’intero fronte orientale.

I russi avanzano, lentamente, ma inesorabilmente, intensificando la pressione proprio lì, declassando le operazioni altrove.

L’idea stessa di “vittoria” è diventata un concetto favolistico, che si rimpicciolisce con il passare dei mesi.

Dalla fantasiosa riconquista della Crimea, paventata fino alla fine dell’anno scorso, si è passati alla speranza di tornare ai confini pre-2022 dell’ultima estate, per arrivare all’obiettivo odierno, molto più modesto e disperato: difendere la linea del fronte abbastanza a lungo da costringere Putin a “congelare” il conflitto.

Non è proprio una strategia di vittoria, ma una strategia di logoramento, in cui a logorarsi non è solo la Russia, ma soprattutto l’Ucraina, e con essa le economie europee che la spingono ancora a combattere.

Il presidente Zelenskyy, sempre più in difficoltà, cerca capri espiatori interni.

Le purghe di generali, le accuse ai sindaci di Kiev e Odessa, l’incriminazione dell’ex capo della compagnia energetica nazionale per un contratto di sette anni fa, sono tutti segnali di una leadership che, di fronte al fallimento sul campo, ha un disperato bisogno di scaricare le responsabilità.

È la politica che prevale sulla strategia militare, e, storicamente, è sempre un presagio di sconfitta.

In questo quadro desolante, la Commissione Europea plaude ai “progressi” dell’Ucraina verso l’adesione all’UE, ignorando una corruzione dilagante e un sistema democratico sempre più autoritario. Una farsa per mascherare un fallimento su tutta la linea.

IL PREZZO DELLA FINZIONE E L’INVIDIA DEI PICCOLI UOMINI

C’è chi, di fronte a questa analisi, reagisce con fastidio. Sono quelli che credevano alle scemenze della propaganda occidentale fatta di microchip rubati alle lavastoviglie ucraine, di muli usati al posto dei mezzi corazzati distrutti, di sanzioni dirompenti, di soldati russi armati solo di pale.

Spesso commentano, nascosti dietro account creati ieri, e, comunque, non argomentano, denigrano.

Attaccano chi scrive, non le idee.

E, quando si attacca chi scrive e non le idee, significa che un’analisi basata sui fatti smaschera la propaganda e dà fastidio.

Ma c’è una seconda ragione, più umana e più triste: l’invidia.

La mediocrità non tollera chi esce dal coro.

Chi non ha idee proprie, né il coraggio di esporle, può solo tentare di demolire quelle altrui. Passa il suo tempo a distruggere, perché è l’unico modo per sentirsi, per un istante, meno piccolo.

Ed è su queste persone che fa perno la propaganda, quel sistema di giornalisti che hanno scelto di non informare più, per diventare megafoni del potere. Per soldi, per interessi, per disegni diversi, per meccanismi di sponsorizzazione.

Ho provato a sintetizzare le ragioni di questa deriva del giornalismo italiano in questo libro: “La Fabbrica delle Paura”. Un libro in cui tratto della gestione pandemica e della guerra in Ucraina, smontando la fabbrica della paura e le propagande di casa nostra e svelando i meccanismi degli ospiti fissi in televisione.

Il libro è un’esclusiva Amazon e puoi trovarlo qui a un prezzo irrisorio:

La società è guidata da una classe politica che ha scelto di abitare un mondo di favole. La favola di una guerra giusta che si può vincere, la favola di un’economia che regge, la favola di un’Italia al centro del mondo.

Il prezzo di questa finzione lo pagano persone reali. Lo paga l’operaio di Roma e la sua famiglia. Lo paga il soldato ucraino mandato al fronte a morire per una causa già persa. Lo paghiamo noi, cittadini europei, i cui soldi vengono bruciati per alimentare un conflitto che ci impoverisce e ci rende più insicuri.

Fino a quando potremo permetterci di far sgretolare casa nostra per inseguire una vittoria immaginaria altrove?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.