PERCHÉ L’EUROPA NON VUOLE DAVVERO CHE LA GUERRA FINISCA

A Ginevra sembrerebbe andare in scena una farsa.

Si parla di pace, eppure, un brivido di panico percorre le cancellerie europee. Un terrore freddo, poiché il piano di pace proposto dall’amministrazione Trump, pur con tutte le sue brutali imperfezioni, rappresenta un’uscita di emergenza da un edificio in fiamme, il cui incendio è stato provocato dall’incompetenza di tanti che ora temono di doverne pagare il conto.

Perciò l’Europa, invece di correre verso l’aria, sembra impegnata a sbarrare la porta dall’interno perché qualcuno resti tra le fiamme.

LA SINDROME DI GINEVRA E LA SPERANZA CHE DIVENTA MINACCIA

La reazione europea al vertice svizzero è pura dissonanza cognitiva.

Per due anni, l’intero apparato mediatico e politico occidentale ha costruito una narrazione monolitica, per cui la guerra è necessaria per arrivare alla pace.

Ora che una via d’uscita, per quanto impervia e sgradevole, si materializza, quella stessa architettura narrativa crolla, rivelando un’inquietudine profonda dei nostri leader belligeranti.

Non si tratta solo di contestare i dettagli del piano, come se nella storia ci fosse mai stato un piano di pace incontestabile.

La cessione di territori è una pillola amara, la limitazione delle forze armate è umiliante, ma queste sono le cicatrici che ogni guerra lascia sul corpo dei vinti.

Basta aprire un qualunque libro di storia per scoprire che non è mai esistita nessuna pace giusta, ma solo imposizioni dei vincitori ai vinti. Sempre e comunque. Vi sembra giusta la pace imposta al Giappone nel 1945? E quella alla Germania dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale?

L’agitazione febbrile, le contromisure affannose, le lettere di “perplessità” firmate da leader che fino a ieri non avevano un piano alternativo se non quello di fornire armi fino all’ultimo ucraino, non nascono dalla preoccupazione per Kiev, ma dalla paura di perdere il controllo della narrazione. E, con essa, il potere.

Il dialogo tra Stati Uniti e Russia, con l’Ucraina costretta a un ruolo da comprimaria, taglia fuori l’Europa. La rende irrilevante.

Un tweet in maiuscolo di Donald Trump, che accusa Zelensky di “zero gratitudine”, è sufficiente a gelare i “progressi enormi” decantati dal Segretario di Stato Rubio, perché l’Europa non ha ancora compreso che questo non è un negoziato tra pari, ma una dimostrazione di forza in cui l’Europa è semplicemente lo spettatore che pagherà il conto dello spettacolo, chiunque vinca.

Ed è solo questione di tempo. O con questa pace o con un’altra, più avanti, ma a un prezzo ancora più alto, proprio come quello di oggi è molto più elevato di quello della trattativa del 2022.

LA “PACE GIUSTA”: IL PIÙ NOBILE DEGLI ALIBI

Sentiremo ancora parlare, fino alla nausea, di “pace giusta”.

È l’alibi più nobile, la scusa più spendibile per giustificare l’inazione diplomatica. Una scusa che funziona con chi nelle ore di storie giocava a tris con il compagno di banco, perché la storia non conosce paci giuste, ma solo accordi dettati dai rapporti di forza sul campo.

La pace è sempre stata la firma apposta dal vincitore su un documento che il perdente è costretto a subire per non perdere molto più di quanto ha già perso.

Pretendere il contrario significa vivere in un mondo di fantasia. E, quando a vivere in un mondo di fantasia, è un leader a capo di una nazione europea, la cosa è preoccupante.

Perché tale fantasia ha un costo reale, misurabile in vite umane. Ogni singolo giorno in cui si procrastina un accordo in nome di una ridicola “pace giusta”, si aggiorna una contabilità macabra sui campi di battaglia ucraini.

Si aggiungono nomi a una lista infinita di giovani strappati per le strade e mandati a morire al fronte.

L’unica pace giusta è quella che ferma questo massacro in qualunque modo e a qualunque prezzo. Oggi. Non domani.

Tutto il resto è retorica sporca di sangue, una speculazione filosofica sulla pelle degli ucraini.

L’alternativa a una pace imperfetta non è una pace perfetta, che non è mai esistita e mai esisterà, ma la continuazione della guerra fino alla distruzione totale dell’Ucraina.

IL NEMICO NECESSARIO: L’ECONOMIA DI GUERRA COME NUOVO WELFARE

Perché, dunque, questa ostinazione degli europei?

La risposta segue il flusso del denaro e del potere.

La fine della guerra farebbe crollare il paradigma che l’élite europea ha faticosamente costruito negli ultimi due anni: l’esistenza di un grande e temibile nemico alle porte.

Questa narrazione non serve solo a compattare l’opinione pubblica, ma è il motore di un gigantesco progetto di riconversione industriale e sociale.

Giustifica il riarmo europeo. Permette di deviare miliardi di euro, che un tempo erano destinati a sanità, istruzione, pensioni e welfare, verso le industrie della difesa.

Non ci sono soldi per mettere in sicurezza scuole fatiscenti e ponti pericolanti, né per assumere più poliziotti e più infermieri e medici, ma si mandano miliardi in Ucraina e si spende fino al 5% in armamenti.

La guerra è diventata il nuovo, perverso, modello di sviluppo economico. Un’opportunità per ristrutturare le economie nazionali sotto la bandiera dell’emergenza securitaria, mettendo a tacere ogni dissenso interno.

Un’arma per rimettere in carreggiata il settore dell’automotive mandato a morire con le irresponsabili politiche green di von der Leyen, che hanno prodotto la cancellazione di 48.700 posti di lavoro in Germania solo nei primi nove mesi del 2025 e in gran parte proprio nel settore auto.

Se la minaccia del nemico alle porte svanisce, come si giustificheranno i tagli futuri?

Come si spiegherà ai cittadini che le loro pensioni sono a rischio mentre i bilanci militari esplodono?

La pace, per questi leader, non è la fine di un problema, ma l’inizio di un problema ben più grande: dover rispondere delle proprie scelte ai propri elettori.

L’Europa è già la grande sconfitta di questo conflitto. Si è privata dell’energia a basso costo russa per legarsi mani e piedi al più costoso gas liquefatto americano. Si è disarmata, svuotando i propri arsenali per riempire quelli ucraini.

E ora, mentre Washington e Mosca disegnano i contorni del futuro, si ritrova a discutere di come finanziare una ricostruzione che, in gran parte, arricchirà le multinazionali americane.

Il dramma non è solo la brutalità della guerra, ma l’ipocrisia di chi, pur avendone il potere, sceglie di non fermarla, perché, mentre a Ginevra si discute di virgole e si esprimono “perplessità”, sui campi dell’Ucraina si continuano a contare le croci.

Questa è l’unica verità che conta. E nessuno, in Europa, sembra avere il coraggio di dirla.

Né i politici né i tanti giornalisti che per quasi quattro anni ci hanno raccontato di pale, muli, sanzioni dirompenti e soldati russi senza calzini.

ZELENSKY IN TRAPPOLA, L’EUROPA IN SCACCO E IL GRANDE BLUFF OCCIDENTALE

Sei giorni. È il tempo concesso a Zelensky per scegliere tra due abissi.

Da una parte, la resa mascherata da accordo, una pace in cambio della perdita di sovranità e di dignità.

Dall’altra, la continuazione di una guerra ormai insostenibile, senza il respiro artificiale del suo alleato più potente.

Volodymyr Zelensky è inchiodato al centro di una morsa stretta da Washington e Mosca, con l’Europa a balbettare incredula.

Come abbiamo già scritto, si tratta della liquidazione di un conflitto diventato troppo costoso per l’America, di una strategia di uscita che Donald Trump, con la brutalità pragmatica che lo contraddistingue, ha imposto come farebbe un amministratore delegato che taglia un ramo secco dell’azienda.

Il documento in 28 punti, trapelato con chirurgica precisione e poi confermato con un ultimatum, è un capolavoro di Realpolitik che svela il grande bluff dell’Occidente: la sua presunta unità non era altro che una dipendenza strategica, e ora che il padrone ha deciso di chiudere la partita, i vassalli sono nel panico.

LA MORSA DELL’ULTIMATUM

“Zelensky dovrà farselo piacere” ha detto Trump. Non è un suggerimento, dunque.

È un ordine esecutivo mascherato da consiglio paternalistico. La semantica è tutto: l’ultimatum scade il giorno del Ringraziamento, un simbolismo quasi crudele che invita Kiev a essere “grata” per l’opportunità di sopravvivere, seppur mutilata.

Le opzioni sul tavolo sono inesistenti. L’alternativa all’accettazione non è la vittoria, ma “continuare a litigare”, come ha detto Trump, sapendo perfettamente che senza l’intelligence e le armi americane, “litigare” significa semplicemente scegliere un modo più lento e sanguinoso di perdere.

Di mandare altri ucraini a morire al fronte, di regalare altro territorio ai russi.

La cessione di Crimea, Donetsk e Luhansk è la ratifica di una conquista militare. Il ridimensionamento dell’esercito ucraino e la rinuncia alla NATO sono la demilitarizzazione imposta a uno stato sconfitto. Come ci insegnano i libri di storia, d’altronde, sulle pagine dei quali non esiste la fantomatica “pace giusta” venuta in mente ai leader europei, veri sconfitti di questa guerra. Commercialmente, industrialmente e geopoliticamente.

La concessione all’Ucraina dell’ingresso nell’UE è il contentino, una caramella offerta a un bambino a cui è stata appena sottratta la casa, utile soprattutto a scaricare sull’Europa il fardello economico e sociale di una nazione da ricostruire e sostenere per decenni.

E c’è ancora qualche giornalista che non comprende la genialità di Trump. Brutale, da elefante in una cristalleria, ma per gli americani è manna dal cielo: gli USA hanno incassato miliardi e miliardi per vendere armi, hanno annientato i competitor industriali europei, hanno spezzato i contatti commerciali dell’Europa con la Russia e limitato quelli con la Cina e hanno siglato contratti per vendere energia al Vecchio Continente a prezzi anche quadrupli rispetto a quanto ci faceva spendere Mosca.

E ora, anche i costi della ricostruzione saranno a carico dei leader europei, quelli che ancora non vogliono sentir parlare di pace. Quelli che ancora vorrebbero più guerra, per giustificare il piano di riarmo europeo.

IL SILENZIO ASSORDANTE DELL’EUROPA

L’Europa si credeva protagonista e si scopre comparsa.

Il panico che serpeggia tra Berlino, Parigi e Bruxelles non è dovuto alla preoccupazione per l’Ucraina, ma alla terrificante presa di coscienza della propria irrilevanza. Della sconfitta netta e inequivocabile.

Per anni, i leader europei hanno interpretato il ruolo dei “volenterosi”, spingendo Kiev verso il baratro della guerra totale, sabotando ogni timido tentativo di negoziato, e promettendo un sostegno incrollabile che si è rivelato essere solo un assegno staccato sul conto corrente americano per acquistare armi.

Ora, esclusi dal tavolo dove si decide il destino del loro continente, balbettano ancora, come malati di mente, chiedendo una “pace giusta” e di essere coinvolti.

È un lamento patetico di chi non ha esercitato la propria influenza quando poteva, perciò non ha il diritto di parola quando le decisioni vengono prese.

L’Europa ha scelto di essere un protettorato e ora ne paga il prezzo. Ha rinunciato alla propria energia a basso costo per legarsi mani e piedi al GNL americano, ha svuotato i propri arsenali, si è indebitata per finanziare una guerra per procura e ora, come beffa finale, i miliardi che verserà per la ricostruzione andranno in gran parte a rimpinguare le casse delle multinazionali americane che gestiranno i lavori.

È un cappio economico e politico che si stringe, ed è stato tessuto con le stesse mani dei leader che oggi si dicono “spiazzati”.

Gli americani hanno un presidente a cui dire grazie, noi leader che entreranno nei libri di storia come il più grande fallimento politico del nuovo millennio.

IL REALISMO DI MOSCA E WASHINGTON

In questo teatro dell’assurdo, gli unici attori razionali, nella loro spietatezza, sono Trump e Putin.

Entrambi hanno compreso che la partita si giocava su un piano diverso da quello della retorica sui “valori”.

Putin, definendo il piano una “base per la pace”, accetta di buon grado di formalizzare le sue conquiste, come qualunque vincitore ha sempre fatto in passato.

Ha raggiunto i suoi obiettivi militari minimi, ha dimostrato la debolezza strutturale della NATO e ha accelerato la frattura del blocco occidentale.

Ora può permettersi di sedersi al tavolo, da vincitore di fatto. La sua minaccia di conquistare altri territori non è un bluff, ma la logica conseguenza di un eventuale rifiuto di Zelensky: se la guerra deve continuare, sarà una guerra di logoramento che la Russia, a questo punto, sa di poter vincere.

E i fatti, al di là della becera propaganda di pale ottocentesche, microchip delle lavastoviglie, muli e mancanza di calzini, lo dimostrano senza se e senza ma.

Trump, dal canto suo, chiude una partita che non ha mai voluto giocare, ereditata dall’Amministrazione Biden e considerata un cattivo investimento.

Il suo obiettivo non è una pace giusta, ma una pace rapida che gli permetta di concentrarsi sui veri avversari strategici e di presentarsi agli elettori come l’uomo che ha fermato una guerra infinita. Ha trattato direttamente con l’unica controparte che riconosce come pari, perché è l’unica che ha armi come le sue: la Russia.

L’Europa e l’Ucraina, in questa equazione, sono semplici variabili dipendenti.

L’ULTIMO ATTO: LA TRAGEDIA DELLA DIGNITÀ

Alla fine, tutto converge sulla figura tragica di Zelensky.

Nel suo discorso alla nazione, ha elencato ciò che era in gioco: “la nostra sovranità, la nostra indipendenza, la nostra terra, il nostro popolo”.

È un lapsus freudiano di straziante onestà che il “popolo” arrivi per ultimo, dopo i concetti astratti e il territorio fisico. È la sintesi di una guerra in cui la vita umana è diventata l’ultima delle priorità.

E visti quanti ucraini ha fatto rastrellare per le strade per mandarli a morire al fronte, quando poteva trattare tre anni fa, si capisce quanto gli stia davvero a cuore il suo popolo.

La sua scelta tra “perdita della dignità” e “perdita di un partner chiave” è la confessione di un fallimento che non è solo suo, ma soprattutto di un’intera generazione di leader occidentali.

La dignità è già stata persa nel momento in cui si è accettato di combattere una guerra senza comprendere che non si aveva la forza di vincerla e senza la saggezza di negoziarla.

Una sconfitta che è anche di tantissimi giornalisti italiani che hanno raccontato fake news e narrazioni irrealistiche e che ora devono fare i conti con la realtà che dimostra la loro colossale incompetenza.

Leader che hanno accettato l’attentato al Nord Stream continuando ad appoggiare l’esecutore. Che hanno tentato più volte la carta dello sconfinamento russo, con i droni, i missili in Polonia, con l’invenzione dell’attacco all’aereo di von der Leyen e altre sciocchezze prive di fondamento.

Tutto per orientare l’opinione pubblica a favore della guerra. E la cosa triste è che tanti sono convinti ancora che siano fatti veri e non fake news, come dimostrato dai fatti.

Perciò, in un mondo giusto e onesto, il minimo sindacale sarebbe le dimissioni in blocco degli attuali leader europei e dei direttori dei quotidiani per manifesta incompetenza.

Ora, a Zelensky non resta che scegliere quale tipo di sconfitta amministrare.

Questo piano non è la fine della storia, ma è solo la fine del racconto che ci siamo narrati per anni.

Perché che la Russia avrebbe vinto noi, e pochi altri, lo scrivevamo già nel 2022, quando i grandi quotidiani parlavano di sanzioni dagli effetti dirompenti, di pale, microchip e muli, dandoci dei putiniani e dei complottisti.

La verità è che erano solo degli sciocchi incompetenti o delle voci al soldo dei potenti. Quale delle due ipotesi vi sembra più corretta?

Il mondo multipolare è qui, ed è un luogo molto più freddo e pragmatico.

E ci dice che se gli accordi si fossero firmati nel 2022, migliaia di famiglie ucraine non avrebbero sedie vuote intorno al tavolo. Milioni di ucraini non sarebbero fuggiti all’estero. Kiev non sarebbe indebitata in maniera insostenibile.

E per cosa? Per giungere tre anni dopo a essere costretti a firmare trattati ancora più stringenti, ma, peggio, con la consapevolezza di una NATO molto meno forte di quanto tutti immaginavano tre anni fa.

La pace di Trump, se mai si realizzerà, non porterà giustizia. Porterà silenzio. E in quel silenzio, l’Europa dovrà finalmente fare i conti con i fantasmi della propria impotenza.

Se la pace non si realizzerà, ci saranno altre settimane, forse mesi, di morti e di territori ucraini conquistati dai russi, fino a quando non si arriverà comunque a una resa.

Zelensky può solo scegliere quale livello di fallimento accettare. L’Europa può solo osservare la sua misera irrilevanza.

Noi possiamo renderci conto di quante boiate ci hanno raccontato i “giornalisti accreditati”. Per scegliere da chi informarci in futuro. Da chi ha scelto di raccontarvi balle o da chi vi ha raccontato ciò che il tempo e i fatti hanno certificato?

HA RAGIONE LA FAMIGLIA O HA RAGIONE LO STATO?

Hanno circondato la casa con le auto blu e il filo spinato. Hanno portato via i bambini, non dalla sporcizia, ma da un’idea alternativa di vita.

Nell’aria dei boschi, dove il silenzio è una preghiera alla terra, lo Stato ha compiuto un’esegesi forzata, come un critico dell’esistenza, al di là dei diritti e delle libertà.

Ha interpretato un sogno e l’ha dichiarato incubo.

SE NON FAI PARTE DEL SISTEMA, SEI UN DIFETTO SOCIALE

Una famiglia anglo-australiana, una casa colonica senza acqua, luce e gas. Tre bambini immersi nei boschi, lontani dal caos della nostra realtà. Ma la verità indossa abiti complessi.

Se è un diritto scegliere come vivere e far crescere dei bambini immersi nella natura, può essere un diritto isolarli dal mondo e dalla socializzazione?

Il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ha emesso una sentenza di eresia contro un modo di essere.

L’assenza del bagno diventa il simbolo dell’assenza di civilizzazione. La mancanza di corrente elettrica, perciò di Internet, dei social network, – e anche delle bollette da pagare, – metafora di un cortocircuito col Patto Sociale.

Qui non si discute di igiene, ma di ortodossia. Perché non si comprende come mai non si sia usato lo stesso metro di giudizio che si mette in atto quando si parla di certi campi rom, per esempio.

Lo Stato, nell’atto di proteggere, giudica la scelta di vita radicale di una coppia, ma pur sempre legittima, come negligenza e disadattamento.

Ma è lecito che un tribunale possa invadere fino a questo punto la sfera intima e le scelte di vita di una famiglia, oppure è corretta l’interpretazione dei giudici, per favorire i minori?

IL CONFLITTO DELLE LIBERTÀ: UNA TRAGEDIA GRECA MODERNA

Il filosofo Isaiah Berlin insegnava a distinguere tra libertà “negativa” e “positiva”. I genitori reclamano la prima: libertà dallo Stato, dalla scuola obbligatoria, dalla rete idrica. Il diritto di essere lasciati soli con il proprio ideale di purezza.

Lo Stato agisce in nome della seconda, libertà dei bambini di avere degli amici, un futuro, di accedere al mondo delle possibilità, di non essere irrevocabilmente determinati dalla scelta esistenziale dei genitori.

Chi ha ragione? Entrambi.

E in questo sta la tragedia.

Per garantire la libertà positiva dei figli, lo Stato deve calpestare la libertà negativa dei genitori.

Per affermare la propria libertà negativa, i genitori rischiano di compromettere la libertà positiva dei figli. È un circolo vizioso di nobile tensione. Un dilemma senza soluzione, dove soltanto il buonsenso può trovare una ragione. E il buonsenso, nell’incertezza, dovrebbe portare il genitore a scegliere il bene maggiore, o il male minore, per i propri figli.

L’UN-SCHOOLING COME ATTO RIVOLUZIONARIO E COME PRIGIONE

L’educazione parentale è legittima e perfettamente legale in Italia, purché i genitori abbiano titoli accademici idonei al percorso di studi dei figli. Ma quello della coppia in questione sembra più un rifiuto del monopolio statale sulla formazione delle coscienze, un colpo al cuore del dispositivo di riproduzione sociale.

Quei bambini non accumulavano “capitale umano” nel senso convenzionale. Accumulavano un altro tipo di sapere: botanico, ecologico, esistenziale.

Ma fino a che punto i figli possono essere il campo di battaglia per la realizzazione di un ideale genitoriale?

Il sociologo Zygmunt Bauman parlerebbe di “amore liquido”. Io vedo un amore troppo solido, troppo ideologico. Un amore che rischia di diventare una gabbia di significati preconfezionati, seppur alternativi.

E, per essere alternativi, si rischia di diventare il male supremo per quei bambini che si dice di voler proteggere.

I bambini stavano imparando dai boschi e dalla visione del mondo dei genitori, ma, se l’isolamento sociale può essere autenticità e una libera scelta, per quanto riguarda i genitori, per i figli è diverso perché i minori non hanno consapevolezza delle proprie scelte, non hanno la maturità e le competenze necessarie per scegliere. Per loro, l’isolamento è la privazione del “multiverso” relazionale necessario a forgiare un’identità complessa, matura, strutturata, equilibrata.

L’intervento dello Stato è stato di tipo militare, con assistenti sociali, forze dell’ordine, blocchi stradali.

E questo, forse, va oltre il legittimo intervento della legge a favore dei diritti dei minori, perché non si stava compiendo un semplice trasferimento, ma si stava riaffermando il monopolio statale sulla definizione di “vita dignitosa”.

Beh, a chi ama la filosofia sarà venuto in mente Michel Foucault, il quale avrebbe sorriso amaramente, perché quanto accaduto è biopolitica allo stato puro, per cui il potere si prende cura della vita dei corpi, normalizza, medicalizza ogni devianza dalla norma.

La mancanza di un water diventa sintomo di una patologia sociale da curare in una “comunità educativa”.

In quest’ottica, dunque, lo Stato non sarebbe intervenuto in favore dei minori, ma per tutelare la normalità sociale. E, se così fosse, sarebbe un dramma, perché significherebbe punire scelte di libertà. Quei bambini, infatti, se fossero adulti, avrebbero tutti i diritti di scegliere stili di vita alternativa.

Eppure, lo Stato non è solo un mostro burocratico, ma anche il garante, seppur imperfetto e contraddittorio, che un bambino non sia proprietà esclusiva dei genitori. Che sia un cittadino del mondo, non solo del bosco di famiglia.

Molti genitori, infatti, dimenticano che i figli non sono una proprietà, ma semplici adulti del futuro che bisogna guidare. I figli sono di sé stessi e di nessun altro. Perciò, soltanto i minori, una volta acquisita maturità e competenza, possono scegliere con consapevolezza se ritirarsi nei boschi. Non può essere un genitore a compiere una scelta così radicale.

L’ASCESI MODERNA E IL SUO PREZZO

La famiglia ha scelto un’ascesi che potremmo definire laica, o di stampo buddista, alla ricerca di un contatto più profondo con la natura, quasi alla ricerca di una illuminazione. Un ritorno a uno stato di natura che farebbe eco a Rousseau.

Ma il “buon selvaggio” non esiste. Esiste l’essere umano, animale culturale per eccellenza, che costruisce la sua identità nello specchio degli altri.

I bambini non possono costruirla isolati nei boschi.

La ricerca dell’autenticità, portata all’estremo, diventa una nuova forma di alienazione. L’utopia si trasforma in distopia quando, per sfuggire alla gabbia d’acciaio della modernità, ci si rinchiude in una gabbia di legno, per quanto bella e naturale.

Il padre che accusa il sistema italiano non ha tutti i torti. La madre che segue i figli nella comunità non ha tutte le colpe. Sono attori di un dramma i cui copioni sono stati scritti da forze più grandi di loro, come la globalizzazione, la crisi ecologica, la sfiducia nelle istituzioni.

Ricordiamo che esistono politici che vorrebbero imporre i trattamenti sanitari ai bambini, bypassando il consenso dei genitori, perciò il tema dello scontro tra Stato e famiglia è complesso e va al di là della vicenda capitata alla famiglia di Chieti.

Anche perché, un conto sono l’educazione, la socializzazione e lo sviluppo cognitivo del bambino, ben altra cosa è sottoporre il corpo a medicinali, vaccini e trattamenti, per cui prevale il dovere genitoriale di tutelare il corpo dei figli, fino a quando non avranno raggiunto la maturità per compiere scelte consapevoli sul proprio corpo.

IL FUTURO SOSPESO DELLA FAMIGLIA DI CHIETI

I bambini sono in una struttura protetta, con la madre.

Sotto osservazione. E il “periodo di osservazione” è la sospensione del dramma. È il limbo in cui l’utopia e la norma si studiano a vicenda, diffidenti.

Il ritorno a Palmoli, Comune in cui la famiglia viveva, in mezzo ai boschi, dipenderà dalla capacità della famiglia di tradurre il proprio sogno in un linguaggio che lo Stato possa accettare, uno stile di vita che consenta ai bambini la socialità e lo sviluppo più idonei.

Forse si giungerà a un compromesso: i boschi, sì, ma con un allaccio all’acquedotto. L’educazione familiare, forse, ma con qualche esame di validazione e con la possibilità che i bambini abbiano una vita sociale con i loro coetanei.

Ma dove finisce il diritto di sognare un mondo diverso per i propri figli e inizia il dovere di prepararli al mondo che, per ora, è il nostro?

Perché un mondo migliore sarebbe auspicabile, ma è lecito non preparare i propri figli al peggio?

Non lo sappiamo. Non c’è una risposta migliore di altre e non esiste una ragione più ragione di altre.

Sappiamo solo che in quei boschi, per un attimo, due umanità inconciliabili si sono scontrate, quella della realtà e dell’utopia.

Entrambe hanno a cuore lo sviluppo e il futuro di quei bambini. Entrambe, a modo loro, vogliono proteggerli.

Ed è proprio in questo scontro di amori e di doveri che emerge tutta la complessità della natura umana.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’INVERNO DELLA VERITÀ: MENTRE IL FRONTE UCRAINO SI SGRETOLA, A MIAMI E MOSCA SI DISEGNA IN SEGRETO LA PACE DEI VINCITORI

Il fango non mente. E non ammette sciocchezze su pale, muli e soldati russi senza calzini.

Sotto i cieli plumbei del Donbass, dove l’odore acre della cordite si mescola a quello della terra umida, la guerra scrive la sua unica, spietata verità. Una verità ben lontana dai racconti della propaganda occidentale.

Una verità fatta di logoramento, di vite spezzate, di una linea del fronte che, contrariamente alla narrazione ufficiale propinata per mesi alle opinioni pubbliche occidentali, non è affatto in stallo.

Si sta sbriciolando. E mentre il sangue continua a scorrere in un sacrificio che appare sempre più insensato, lontano, nelle stanze climatizzate di Miami e nei corridoi del Cremlino, si sta consumando l’atto finale, con la stesura di una pace che non sarà negoziata, ma dettata.

Le indiscrezioni, emerse da fonti autorevoli come Bloomberg, Axios e Reuters, non sono più semplici sussurri, ma i contorni sempre più nitidi di un brutale esercizio di politica reale.

Funzionari americani, presumibilmente legati alla sfera d’influenza dell’amministrazione Trump, e i loro omologhi russi stanno tessendo la tela di un accordo che esclude i principali attori del dramma: l’Ucraina e un’Unione Europea ridotta al ruolo di spettatore pagante.

E pagante un biglietto a caro prezzo.

Le condizioni sul tavolo sono quelle di una resa mascherata da trattato: cessione di territori, una rinuncia alla Crimea e al Donbass, e una drastica riduzione dell’arsenale ucraino. In altre parole, la neutralizzazione. La fine del sogno.

Un’offerta di pace ancora più stringente di quella di qualche mese fa. Nettamente peggiore di quella del 2022, a testimonianza di come ogni giorno che passa è una sconfitta per l’Ucraina sempre più drammatica.

Questo non è un tradimento inaspettato, ma la conseguenza matematica di un fallimento strategico e, soprattutto, comunicativo.

IL CROLLO DELLA NARRAZIONE: DAL MITO DELLO STALLO ALLA REALTÀ DEL COLLASSO

Per quasi tre anni, i burattini della propaganda hanno messo in piedi un castello di carte per sostenere il morale interno, giustificare un flusso senza precedenti di capitali e armamenti e, soprattutto, per mascherare l’asimmetria fondamentale del conflitto.

La parola “stallo” è stata il pilastro di questa costruzione, un termine rassicurante che evocava le trincee della Grande Guerra, suggerendo un equilibrio di forze che, nella realtà dei fatti, non è mai esistito.

La realtà, come sottolineato da analisti militari svincolati dalla propaganda, tipo Mikael Valtersson, ex ufficiale delle forze armate svedesi, è un’altra. La Russia non ha mai puntato a una guerra lampo, bensì a una metodica e inesorabile strategia di logoramento.

Non ha cercato lo sfondamento spettacolare, ma la morte lenta del nemico. Il fronte ucraino non è una linea Maginot, ma un colabrodo dove le forze russe, con pazienza, identificano i punti deboli, avanzano, creano “sacche” operative e strangolano le linee di rifornimento.

Le mappe che vediamo sui media mainstream sono fotografie statiche di un processo dinamico di erosione.

Pokrovsk, Myrnohrad, Lyman sono i prossimi capitoli di una tragedia annunciata.

IL PREZZO DEL DELIRIO: L’ULTIMO UCRAINO E IL MICROCHIP DELLA DISUMANIZZAZIONE

In questo teatro della percezione, il presidente Zelensky sembra aver smarrito il contatto con la realtà del campo di battaglia.

La sua ostinazione a difendere ogni metro di terra, trasformando città come Bakhmut in tritacarne simbolici, ha un costo umano che nessuna vittoria politica potrà mai ripagare. Il sacrificio fino all’ultimo ucraino non è una metafora iperbolica, ma una strategia politica.

La rimozione di un generale pragmatico come Valerij Zaluznyj, che per primo osò parlare di “stallo” per preparare il terreno a una necessaria rinegoziazione degli obiettivi, è stata la prova definitiva di questa deriva. Zaluznyj, rispettato dalle truppe e dagli alleati occidentali, è stato esiliato a Londra perché la sua lucidità era diventata un ostacolo alla narrazione del trionfo imminente.

L’ultimo, agghiacciante sviluppo è la proposta, discussa nel parlamento ucraino, di “microchippare” i soldati e i cittadini in età di leva per tracciarne i movimenti.

Al di là delle implicazioni etiche, questo delirio orwelliano rivela come, in Ucraina, l’essere umano, il soldato, sia stato ridotto a un asset da monitorare, una risorsa da spendere fino all’esaurimento.

Non più un cittadino che difende la patria, ma un numero in un database da inviare al macello. Quando un governo arriva a concepire i propri uomini in questi termini, la sconfitta morale ha già preceduto quella militare, perché l’umanità è già morta prima che muoiano uomini in carne e ossa.

LA PACE DEI CONTABILI: L’AMERICA TAGLIA LE PERDITE, L’EUROPA PAGA IL CONTO

L’investimento ha smesso di rendere.

Un’impresa, in questo caso, il progetto di infliggere una “sconfitta strategica” alla Russia attraverso l’Ucraina, è stata finanziata con un capitale politico ed economico colossale. Ma i ritorni sono negativi.

La Russia non è crollata, la sua economia si è riconvertita alla guerra e il suo esercito, dopo gli errori iniziali, impara e si adatta. L’Ucraina, al contrario, è un asset in via di esaurimento.

Milioni di ucraini hanno abbandonato il Paese, la sua economia è al collasso e la fiducia in Zelesky da parte degli ucraini è ai minimi termini.

L’amministrazione Trump, o chi per essa, ragiona con la logica del bilancio. È tempo di tagliare le perdite e uscire dall’affare prima che il passivo diventi insostenibile.

Il piano di pace segreto non è altro che questo: una procedura di liquidazione controllata.

Gli Stati Uniti salveranno la faccia, manterranno un’influenza sulla futura architettura di sicurezza europea e lasceranno all’Europa il “cerino acceso” in mano: la gestione di un’Ucraina smembrata, economicamente distrutta e socialmente traumatizzata.

Per Trump, sarebbe una vittoria su tutta la linea.

Il tour europeo di Zelensky, con le sue richieste disperate di armi che l’Europa non ha o non può dare, non è che la patetica passerella finale di un leader che si rifiuta di leggere il bilancio e di comprendere che è già un ricordo pronto per essere archiviato nel cassetto dei ricordi.

La guerra in Ucraina sta già finendo nei conciliaboli segreti tra le uniche due potenze che hanno realmente il potere di deciderne le sorti, al di là delle tante, troppe, balle partorite da chi doveva informare i cittadini, invece ha scelto di diventare megafono della propaganda.

La pace che si profila non sarà quella dei giusti, ma quella dei sopravvissuti. E, come in tutte le guerre, quella dei contabili.

Ma sarà pur sempre una pace che salverà vite umane. Quelle per Zelensky e per chi ha proposto il microchip sottocutaneo non contano, ma per le famiglie ucraine che hanno troppe sedie vuote intorno al tavolo, invece, sì.

IL PALAZZO SUSSURRA, LA STAMPA SOFFRE. IL DOPPIO PESO DEL COLLE NELL’AFFARE GAROFANI

L’incidente che coinvolge il consigliere presidenziale Francesco Saverio Garofani non è solo una crisi politica, ma un termometro della reale situazione politica italiana, al di là delle strette di mano di circostanza.

Non è la frase a definire lo scandalo. È il frastuono selettivo che ne consegue.

Una cena privata, qualche parola di troppo attribuita a un uomo chiave del Quirinale, Francesco Saverio Garofani, e l’architettura istituzionale italiana trema.

L’auspicio di un “grosso scossone” per archiviare il governo Meloni, riportato da La Verità, ha innescato una reazione a catena che va ben oltre la normale dialettica politica.

Ha aperto una crepa nel rapporto, sempre delicato, tra il Governo e la Presidenza della Repubblica, trasformando quello che è un semplice sussurro in un boato che ora rischia di travolgere la credibilità del Garante della Costituzione.

Perché questa vicenda, più delle parole di Garofani, parla delle reazioni del Colle. E, soprattutto, dei suoi silenzi.

La cronaca è ormai nota. Garofani, stimato consigliere di Sergio Mattarella, avrebbe teorizzato la necessità di una nuova grande coalizione per sostituire l’attuale maggioranza.

Parole incendiarie, immediatamente trasformate in un’arma politica. Il quotidiano La Verità le ha pubblicate, il centrodestra, per bocca del capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, ha chiesto conto di una presunta “macchinazione”, evocando fantasmi di trame e interventi esterni.

La risposta del Quirinale non si è fatta attendere: una nota ufficiale, secca e sdegnata, ha liquidato il tutto come “un attacco costruito e ridicolo”, declassando le esternazioni a “chiacchiere da bar”.

Lo stesso Garofani ha parlato di “libere discussioni tra amici”, mostrando amarezza per una strumentalizzazione feroce.

D’altronde, in democrazia, potrai anche essere consigliere del Presidente della Repubblica, ma hai tutto il diritto di avere un’opinione sul governo. Contraria o a favore che sia. Soprattutto se la tua opinione non la esprimi in un contesto istituzionale, ma tra amici.

Ma il mistero si è infittito con la comparsa di una mail anonima, che ha fatto circolare le medesime dichiarazioni, alimentando il fuoco del sospetto.

L’ANATOMIA DI UNA CRISI

L’incidente Garofani è un perfetto caso di studio di sociologia della comunicazione politica, perché è un cortocircuito dove il confine tra privato e pubblico si dissolve, dove l’informalità diventa atto politico e l’interpretazione supera il fatto.

Da un lato, l’ipotesi delle semplici “chiacchiere da bar” è plausibile nel contesto di una Roma dove i destini della nazione si discutono spesso a tavola.

Ma dall’altro, la posizione di Garofani non è quella di un cittadino qualunque. I suoi pensieri, anche se espressi in privato, assumono un peso specifico, un valore simbolico che la politica non può ignorare.

Perciò, bisognerebbe stare attenti a ciò che si dice, soprattutto nella forma con cui si parla.

L’accusa di “destabilizzazione”, brandita dalla maggioranza, è la naturale conseguenza della fragilità dei nervi istituzionali.

In un sistema politico cronicamente instabile, in un’Italia perennemente in campagna elettorale, ogni parola fuori posto proveniente da un centro di potere percepito come “altro” – e il Quirinale lo è, per definizione – viene letta come una potenziale minaccia.

La vicenda, dunque, non misura tanto la volontà del Colle di interferire, quanto la perenne insicurezza di una classe politica che teme di essere delegittimata da un’entità superiore.

Anche perché il caso Berlusconi del 2011 è ancora vicino.

La reazione veemente del Quirinale, a sua volta, è un grossolano errore di comunicazione, perché non solo tradisce la volontà di proteggere la propria imparzialità, ma mostra anche il fastidio per un’erosione della propria sacralità, scadendo nell’arena del pettegolezzo politico.

IL SILENZIO ASSORDANTE SULL’ARTICOLO 21

La difesa, per quanto dovuta, dell’onorabilità di un collaboratore e della Presidenza è lecita?

Il Quirinale si è indignato. Giustamente, dirà qualcuno, per tutelare un’istituzione che deve apparire al di sopra delle parti. Ed è qui che la vicenda smette di essere un pettegolezzo e diventa un sintomo grave, quasi patologico.

Perché quello stesso sdegno, quella stessa levata di scudi, quella stessa difesa appassionata dei principi fondanti della Repubblica sono mancati, evaporati, mai nati, quando a essere colpito non era un uomo del Palazzo, ma l’articolo 21 della Costituzione: la libertà di stampa, di opinione e di espressione.

Fa specie, anzi, sgomenta, che il Garante della Carta Costituzionale si sia sentito in dovere di intervenire per delle “chiacchiere da bar”, ma non abbia sentito il medesimo imperativo morale quando il giornalista Gabriele Nunziati è stato licenziato per aver osato porre una domanda sgradita al potere. Un giornalista licenziato per aver compiuto il suo dovere di porre domande. Licenziato non a Mosca o a Pyongyang, ma a Roma.

Un atto di epurazione che ha il sapore di quelle latitudini, come Russia o Corea del Nord, che dovremmo guardare con preoccupazione, non con emulazione.

E fa ancora più specie che un silenzio tombale sia calato dal Colle sull’attentato subito da Sigfrido Ranucci, un giornalista la cui unica colpa è continuare a fare inchiesta anziché propaganda.

Non una sillaba da parte di Sergio Mattarella. Non un gesto di solidarietà. Non un richiamo solenne al valore sacro di una stampa libera, senza la quale una democrazia smette di essere tale e diventa un regime di apparenze.

OLTRE LE CHIACCHIERE: LA POSTA IN GIOCO

La vicenda Garofani, quindi, cessa di essere una banale contesa politica per diventare una cartina di tornasole della salute democratica del Paese.

Il Presidente della Repubblica ha fatto bene a chiarire con il governo, a proiettare un’immagine di simbolo super partes.

Ma la sua indignazione a comando rivela una scala di priorità preoccupante: la reputazione del Palazzo viene prima della libertà di un giornalista. La quiete istituzionale conta più del diritto dei cittadini a essere informati.

La vera tempesta non è quella scatenata dalle presunte parole di un consigliere, ma il silenzio che ha coperto il rumore delle minacce alla stampa libera, il vuoto lasciato da un’autorità morale che avrebbe dovuto tuonare e invece ha sussurrato, ma solo quando ha sentito minacciati i propri confini.

E in quel silenzio, si misura la distanza tra un’istituzione che si protegge e una democrazia che si difende.

Una distanza che, oggi, appare pericolosamente ampia.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL PATTO DEI DISILLUSI: I GABIBNETTI D’ORO DI KIEV STANNO SCRIVENDO LA PACE A WASHINGTON

La storia non viene scritta dagli eroi. Quelli fanno sempre una brutta fine.

La storia viene scritta dai contabili, dai cinici e, più spesso di quanto si ammetta, dai disillusi.

Mentre il fango delle trincee ucraine continua a inghiottire giovani ucraini e russi in un’atroce contabilità quotidiana, la vera pace, quella sporca e pragmatica che i leader europei non vogliono, sta prendendo forma a Washington, dettata da un’equazione spietata che ha più a che fare con i sondaggi elettorali in Ohio che con la sovranità dell’Ucraina.

Si mormora di un piano in 28 punti. Un documento fantasma, un accordo segreto negoziato lontano dagli occhi indiscreti di Macron, Merz, von der Leyen, sempre più irrilevanti.

Gli Stati Uniti e la Russia stanno definendo i termini della resa ucraina, e a Zelenskyy, come all’Unione Europea, verrà presentato il conto a cose fatte.

Perché la guerra è tra USA e Russia e l’Ucraina presta “solo” il campo di gioco e gli uomini da mandare al macero.

Ma perché adesso? Perché questo scatto verso la diplomazia del disimpegno?

LA GEOMETRIA VARIABILE DEGLI INTERESSI

La guerra, per l’Occidente, è stata un investimento. Un massiccio investimento finanziario, militare e, soprattutto, narrativo.

Abbiamo investito nella favola di Davide contro Golia, del baluardo della democrazia contro la tirannia. Ma ogni investimento richiede un ritorno, o quantomeno una sua giustificazione. E qui, il castello di carte crolla.

Notizie, sempre più insistenti, di corruzione sistemica a Kiev – i famigerati “cessi d’oro”, metafora grottesca di un sistema che marcisce dall’interno – hanno compiuto ciò che l’artiglieria russa non è riuscita a fare: hanno eroso la credibilità dell’investimento.

L’elettore medio americano, che paga le tasse e vede il costo della vita aumentare, inizia a percepire la guerra come un pozzo senza fondo in cui i suoi dollari scompaiono per arricchire un’élite straniera.

Una narrazione potente, quella della resistenza eroica, è stata soppiantata da una verità ancora più viscerale, quella dello spreco e del tradimento.

L’amministrazione americana, con un occhio alle prossime elezioni presidenziali, sa che non può permettersi questa emorragia di credibilità. Non si tratta più di fermare Putin, ma di non perdere il Michigan.

Senza dimenticare il caso Epstein, che vede Trump in grande difficoltà.

E così, l’exit strategy, un tempo un’eresia, diventa una necessità politica.

L’URLO DEL CONDANNATO: IL MISSILE COME MESSAGGIO

Come reagisce un attore politico quando scopre di essere stato escluso dal tavolo dove si decide il suo destino? Fa rumore. Fa più rumore possibile.

L’uso recente e spettacolare dei missili ATACMS da parte dell’Ucraina non è un evento militare, ma un disperato atto di comunicazione politica. È un messaggio urlato ai suoi stessi padrini a Washington: “Non potete fare un accordo senza di me. Guardate cosa posso fare ancora con le vostre armi. Posso ancora far precipitare gli eventi.”

Un gesto che arriva immediatamente dopo l’attentato ferroviario in Polonia, altro fatto che vede coinvolti due ucraini, sbrigativamente indicati come al servizio di Putin.

Sono gesti estremi di chi sa che l’unica sua leva rimasta è la capacità di sabotare una pace che lo annienterebbe per sempre a livello politico. E, forse, non soltanto politico.

Colpendo in profondità il territorio russo con tecnologia americana, Zelenskyy non cerca una vittoria sul campo, ormai un miraggio per chi ha solo spazio tra le orecchie, ma cerca di rendere politicamente impossibile una de-escalation negoziata da altri.

Vuole alzare la posta, costringere la NATO a entrare in guerra contro la Russia, legare le mani di chi, a Washington, vorrebbe semplicemente chiudere la partita.

È il ricatto del condannato, la cui unica speranza di sopravvivenza è trascinare tutti con sé nell’abisso.

È la dimostrazione del fatto che se Zelensky fosse stato Putin, l’atomica l’avrebbe già usata mesi fa. Altro che eroe!

BRUXELLES, IL GIGANTE DORMIENTE SENZA SVEGLIA

E l’Europa che fa?

L’Europa osserva, protesta, si indigna, perché i suoi piani di un grande riarmo perderebbero la scusa da dare in pasto agli europei.

La premier estone Kaja Kallas tuona che “l’accordo deve coinvolgere l’UE e Kiev”. Cioè quelle che l’accordo non lo vogliono. Parole nobili. Parole vuote. Parole che valgono meno di zero. Parole di chi non ha alcuna intenzione di salvare vite ucraine.

Siamo di fronte al più grande teatro dell’assurdo della politica internazionale contemporanea.

L’Unione Europea, che ha svuotato i propri arsenali, che non ha una capacità produttiva militare autonoma sufficiente, che dipende energeticamente e militarmente da attori esterni, che ha messo in ginocchio le sue imprese e tanti cittadini europei, che non parla di pace, ma di guerra alla Russia nel 2028, forse 2029, al più tardi nel 2030, pretende di dettare le condizioni.

È la quintessenza dell’incompetenza politica.

Lo sconfitto, perché sul piano strategico, commerciale, militare e industriale, l’Europa è la vera sconfitta di questo conflitto, si presenta al tavolo del vincitore, quella Russia che avanza lentamente, ma inesorabilmente, e del finanziatore stanco, gli USA, pretendendo di avere voce in capitolo.

Un po’ come quando i leader europei andarono a lezione da Trump. Ricordate Trump dietro la scrivania e i leader europei davanti a lui, su sedie anonime, come ad ascoltare un dibattito?

È la dimostrazione lampante di una leadership che ha perso ogni contatto con la realtà, credendo che la forza delle dichiarazioni possa sostituire la forza degli eserciti e delle economie.

LA LOGICA SPIETATA DEL CREMLINO

Dall’altra parte, il Cremlino osserva con una calma glaciale e ride dell’incompetenza degli europei.

La portavoce Maria Zakharova nega, ovviamente. La diplomazia ufficiale è una facciata. La vera partita si gioca altrove. Come si è sempre fatto e come chiunque abbia un briciolo di studi di diplomazia sa.

La Russia non ha fretta.

Sa che il tempo, le risorse umane e la capacità industriale sono dalla sua parte. Il piano dei 28 punti, per Mosca, non è una concessione, ma un’offerta al nemico sconfitto: “Potete darci ciò che ci stiamo già prendendo sul campo, risparmiando entrambi tempo e vite umane, oppure possiamo continuare a prendercelo con la forza, senza che voi possiate fare nulla se non continuare a strozzare le vostre economie come fatto finora.”

Non è una richiesta, ma la constatazione di un rapporto di forza.

Mosca non scenderà a compromessi sui suoi obiettivi strategici minimi, la Crimea, il Donbas, la neutralità dell’Ucraina, perché sa di non averne bisogno, al di là delle tante balle raccontate dalla propaganda occidentale di questi anni (1000 russi uccisi ogni giorno, armati solo di pale ottocentesche, a dorso di muli perché senza mezzi corazzati, senza divise e senza calzini, umiliati dalle nostre sanzioni dirompenti e in fuga per l’ennesima controffensiva ucraina).

L’unica variabile è il costo per raggiungere gli obiettivi fissati nel 2022.

L’accordo segreto, dunque, è semplicemente un tentativo americano di abbassare quel costo per tutti, prima che diventi politicamente insostenibile per l’Amministrazione Trump.

Perché Putin non ha elezioni alle porte da non perdere. Lui, invece, sì.

Il sipario sta calando sulle illusioni.

La grande narrazione della vittoria ucraina e dell’unità occidentale si sta sgretolando sotto il peso della corruzione, della stanchezza e del calcolo politico più cinico.

L’epilogo di questa guerra non sarà la ridefinizione dei confini sulla mappa, ma la consapevolezza che le vite di centinaia di migliaia di ucraini sono state sacrificate sull’altare di una favola a cui i leader europei hanno scelto di credere per fare dell’Europa una superpotenza militare, mentre l’hanno resa politicamente insignificante, commercialmente dipendente da altri e industrialmente al tappeto.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

CACCIA GROSSA NEL MONDO DELLA MODA

Da quando qualcuno ha avuto il coraggio di parlare chiaro, nella moda si susseguono i richiami, i suggerimenti, le rivisitazioni. 

Il chiacchiericcio dei salotti buoni delle Maison sta lasciando il posto alle analisi per prendere delle decisioni che potrebbero anche ridefinire tutti i contorni finora praticati.

O buona parte di essi.

In questo intervento si parla degli ultimi 30 anni come epoca alla quale far risalire l’inizio della deformazione del comparto. 

È un lancio di concetti inevitabili dopo le variabili individuate, con l’incrocio dei dati dei tabulati di vendita e sulle analisi delle tendenze dei consumatori. 

Frazionando i consumatori e classificandoli secondo norma (gen z, baby boomers, silver gen,..), non sfuggirà che c’è una spasmodica necessità di individuare nuovi idiomi, nuove “sirene” per ammaliare un consumatore sempre più distratto o meno incline ad ascoltare il canto lusinghiero degli affascinatori. 

Sembra quasi che si giochi al contrario.

Una volta erano le maison che dettavano le regole della nuova stagione a cui i consumatori dovevano adeguarsi. Ora sembra che siano gli acquisti che informano cosa sarebbe giusto produrre e a quale criterio sarebbe corretto uniformarsi per realizzare qualcosa di vendibile e che arrivi subito al mercato.

Con buona pace dei bilanci e dei resti di magazzino che pesano anche per il pianeta perché comunque vanno smaltiti oltre che per i bilanci delle aziende stesse. E qui si direbbe: finalmente.

Chi fa le indagini di mercato per aiutare chi produce, arriva normalmente con un po’ di ritardo rispetto a quello che è già successo e viene recepito con altrettanto ritardo nella logica della catena di produzione.

Non va certo imputato a chi fa analisi di mercato e a chi tenta di rispettare quei risultati proponendo l’adeguamento con formule più o meno stratificate nella logica della propria visione aziendale. 

Il mercato poi cambia molto più rapidamente rispetto a chi fa analisi con dati che diventano obsoleti dopo poco tempo.  Quasi mai quello che cambierà domani mattina e che permetterebbe di anticipare  le linee produttive con evidenti grandi risparmi nella filiera, viene percepito ed adattato ai propri criteri produttivi con altrettanta rapidità. 

Quello a cui stiamo assistendo ascoltando i “formatori” sono concetti base da sviluppare. Ma sembrano anche lanci di ipotetici ganci per una nuova stagione produttiva.

Cioè da prodotto a benessere, a rappresentazione della autenticità, a simbolo di etica e mettiamoci pure tutti gli aggettivi di cui ci riempiamo la bocca oggi.

Se non li citi non sei nemmeno degno di bere un caffè al bar. Potrai solo disquisire del mancato Gol nel derby rimediato dalla tua squadra del cuore! E ti sentirai disperato, emarginato, fuori dal coro. Una nullità consumistica insomma. 

Passare dai bei vaporosi concetti proposti nei convegni di settore ad un esercizio produttivo concreto che tenga conto di tutto quello che “ti abbiamo insegnato”, non è problema da poco.

E allora avanti.

Perché la caccia grossa, che ti fa ragionare su tutto quello che sei e quello che fai, non è mai finita e non puoi permetterti di essere stanco perché altrimenti la macchina (la tua azienda) potrebbe iniziare a scricchiolare e la rottamazione potrebbe essere dietro l’angolo. 

Buona “caccia grossa” a tutti!

Intanto, potete approfondire come operano i cinesi e perché leggendo questo articolo: https://it.fashionnetwork.com/news/Perche-i-consumatori-cinesi-preferiscono-i-brand-locali-a-vuitton-e-gucci,1783337.html

Dott. Danilo Preto

Giornalista pubblicista, Scienze Politiche, Esperto di Comunicazione e arte concettuale.

SABOTAGGIO IN POLONIA: L’OMBRA RUSSA E LA MANO UCRAINA. UNA NUOVA, PERICOLOSA NARRAZIONE

Due ucraini. Una linea ferroviaria polacca sabotata. Un colpevole: ovviamente, la Russia.

No, non è la premessa di un romanzo di spionaggio, ma la sintesi nuda e cruda della dichiarazione del Primo Ministro polacco Donald Tusk al suo Parlamento.

È una sequenza che, nella sua disarmante linearità, rivela molto più di un semplice atto di sabotaggio, poiché mostra l’architettura di un copione di guerra che non ammette più sfumature, un copione già scritto in cui il colpevole è designato prim’ancora che le prove vengano completamente vagliate.

E, ancora una volta, la Polonia si ritrova epicentro di un incidente che lambisce pericolosamente i confini della NATO, gettando benzina su un fuoco che l’Europa intera fatica a contenere.

Anche se poi, dal 2022 a oggi, le indagini hanno sempre sbugiardato le parole del governo polacco.

LA CRONACA DI UN’ACCUSA ANNUNCIATA

I fatti, o almeno la loro versione ufficiale, sono politicamente esplosivi.

Tra il 15 e il 17 novembre, una linea ferroviaria, un’arteria vitale per il trasporto di aiuti militari e umanitari verso Kiev, subisce due attacchi. Il primo, quasi artigianale: una fascetta d’acciaio fissata ai binari, un ostacolo grezzo progettato per il deragliamento.

Il secondo, decisamente più inquietante: la detonazione di un ordigno “di tipo militare” al passaggio di un treno merci.

Fortunatamente, non ci sono state vittime.

Il premier Tusk, citando inquirenti e procuratori, indica i responsabili: due cittadini ucraini, veterani della collaborazione con i servizi segreti russi.

Uno, un residente del Donbas occupato.

L’altro, un individuo già condannato per sabotaggio a Leopoli.

Stando alle voci, i due sarebbero entrati in Polonia dalla Bielorussia, per poi svanire presumibilmente nella stessa direzione dopo aver compiuto la loro missione.

L’accusa è chiara, la logica apparentemente ferrea. Ma è davvero così?

Sono così certi che si tratti di questi due ucraini? Se li hanno seguiti dal loro ingresso, perché non li hanno fermati prima, visto che sapevano fossero spie al soldo di Mosca? Perché ne hanno perso le tracce, mentre, a quanto pare, fino all’attentato li seguivano passo passo?

A CHI GIOVA? LA DOMANDA CHE L’EUROPA NON OSA PIÙ FARSI

Come abbiamo scritto fino ala nausea, in ogni inchiesta degna di questo nome, la prima, fondamentale domanda è sempre la stessa: A chi giova?” Chi ne trae vantaggio?

La Russia, additata come mandante, guadagnerebbe ben poco da un’operazione del genere e spingerebbe l’Europa a riarmarsi ancora di più. Sarebbe un fallimento strategico di proporzioni bibliche.

Infatti, un sabotaggio a basso impatto materiale, ma dall’altissimo costo politico serve solo a cementare ulteriormente l’ostilità europea, a rafforzare la coesione della NATO e a giustificare un nuovo giro di vite nelle sanzioni e nel supporto militare a Kiev.

Dal punto di vista strategico del Cremlino, sarebbe un autogol.

Un’azione che aliena anche i più tiepidi sostenitori di una de-escalation, offrendo su un piatto d’argento ai “falchi” occidentali la prova che cercavano della minaccia russa sul suolo dell’Alleanza.

Perciò, anche solo per logica, la Russia va scartata come principale indiziata.

Allora, spostiamo lo sguardo.

Chi, invece, ha tutto da guadagnare da un’azione che spaventa la Polonia e, di riflesso, l’intera Europa?

La risposta è dolorosa ma inevitabile: l’Ucraina.

In un momento in cui l’attenzione mediatica globale si sposta, in cui le risorse economiche e militari occidentali iniziano a mostrare segni di affaticamento, un atto terroristico sul territorio NATO, attribuibile a Mosca, è un potentissimo acceleratore di consenso.

È un modo per gridare al mondo: “Vedete? La minaccia non è confinata al Donbas. È qui, alle vostre porte”.

È la leva perfetta per chiedere, con ancora più forza, un intervento occidentale più massiccio, più armi, più soldi, più impegno.

Non è un giudizio morale, ma una fredda analisi geopolitica: per una nazione che combatte una guerra esistenziale, ogni strumento per mantenere vivo il sostegno internazionale è, per definizione, vitale. Probabilmente, lo faremmo anche noi nelle condizioni disperate del governo Zelensky.

La narrazione dello spionaggio russo diventa così solo il comodo e impenetrabile scudo dietro cui giustificare l’incredibile: un atto ostile compiuto da cittadini di una nazione amica sul suolo di un’altra.

Suona come la sciocchezza per cui a danneggiare il Nord Stream erano stati i russi, che si erano auto inflitti un danno enorme. E, anche allora, il vero colpevole era l’Ucraina.

IL PRECEDENTE PERICOLOSO: DA PRZEWODÓW AL NORD STREAM

Questo episodio non nasce nel vuoto, ovviamente, ma è solo l’ultimo capitolo di una saga di incidenti ambigui che hanno scandito il conflitto.

Ricordiamo il missile caduto a Przewodów nel novembre 2022. Per ore, forse giorni, il mondo ha trattenuto il fiato mentre Varsavia e i media internazionali puntavano il dito contro Mosca, evocando lo spettro dell’articolo 5 della NATO.

Solo in un secondo momento, con tanta riluttanza, si ammise la verità: era un missile della contraerea ucraina, finito fuori rotta.

E come dimenticare il sabotaggio del gasdotto Nord Stream?

Anche in quel caso, l’accusa istintiva e corale fu rivolta alla Russia. Eppure, le inchieste giornalistiche più approfondite, dal New York Times allo Spiegel, hanno progressivamente fatto convergere i sospetti su un commando di operativi ucraini, con il probabile coinvolgimento dei vertici di Kiev.

La costante è evidente anche a un cieco. Davanti all’incertezza, la narrazione scelta è sempre la più incendiaria, quella che dipinge Mosca come l’unica, onnipresente forza del caos.

L’incidente ferroviario, con i suoi esecutori ucraini, si inserisce perfettamente in questo schema. Non potendo negare la nazionalità degli attentatori, si ricorre alla spiegazione più semplice e politicamente utile: erano marionette del Cremlino.

Senza dimenticare che, più va avanti la guerra in Ucraina, maggiori sono gli introiti delle fabbriche di armi europee e, soprattutto, americane. Un dettaglio, ma pesante come un treno merci.

LA FABBRICA DELLA PAURA E L’ECONOMIA DELLA GUERRA

Assistiamo alla perfezione di un meccanismo di costruzione della paura. La “guerra ibrida” russa, un concetto tanto reale quanto abusato, diventa un contenitore onnicomprensivo per ogni evento anomalo, un asso nella manica che risolve ogni complessità.

Questa costante alimentazione della paura non è fine a sé stessa, ma serve a oliare gli ingranaggi di una gigantesca economia di guerra.

Lo stesso Ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, ha candidamente ammesso che il sostegno all’Ucraina serve principalmente a “guadagnare tempo”, non necessariamente a vincere.

Guadagnare tempo per cosa? Per riarmare l’Europa. Per riempire i magazzini dell’industria bellica americana e continentale. Per giustificare di fronte a un’opinione pubblica sempre più stremata sacrifici economici che, in tempo di pace, sarebbero politicamente insostenibili.

Ogni sabotaggio, reale o presunto, ogni allarme, fondato o gonfiato, diventa un’altra rata versata per il mantenimento di questo stato di emergenza perpetua.

I cittadini europei, distratti dalla minaccia esterna, sono meno inclini a mettere in discussione le politiche interne che erodono il loro benessere, con la costruzione di una potenza di guerra.

LA VERITÀ COME PRIMA VITTIMA

La linea tra informazione e propaganda è diventata così sottile da essere quasi invisibile.

L’attentato in Polonia è un caso studio emblematico.

A prescindere da chi abbia realmente armato la mano di quei due uomini, il modo in cui l’evento è stato immediatamente inquadrato e offerto al pubblico dimostra che, in questa guerra, la verità non è solo la prima vittima, ma è diventata uno strumento, un’arma flessibile da brandire a seconda delle necessità strategiche del momento.

L’interrogativo che dovremmo porci, non è tanto “chi ha piazzato la bomba?”, ma “chi beneficia di più dalla spiegazione che ci viene data?”.

Finché non avremo il coraggio di affrontare questa domanda onestamente, rimarremo spettatori passivi di un gioco pericoloso, le cui regole sono scritte da altri.

E mentre la nebbia della propaganda si addensa sui binari d’Europa, chi sta davvero pagando il prezzo di questo gioco d’ombre?

Gli ucraini mandati a morire nelle trincee e gli europei, che vedono erosi i loro soldi e i loro diritti (sanità, istruzione, welfare).

Fino a quando non si arriverà alla guerra vera. Allora, quando non ci saranno più ucraini da mandare al fronte, manderanno gli europei. Solo che dubito che Crosetto, Macron, Meloni, Merz & C. mandino i loro figli.

Perciò, fate un po’ voi.

IL CONTO SALATO DELLA GUERRA IN UCRAINA CHE L’EUROPA NON VUOLE VEDERE

Le persone comuni non lo sanno o, forse, non riescono ancora a quantificarlo.

Non vedono il nesso diretto tra il carrello della spesa, sempre più vuoto, e le decisioni prese dai leader europei. Non collegano le buche nell’asfalto delle loro strade con gli stanziamenti miliardari per le armi.

Eppure, il conto è arrivato. Ed è salatissimo.

La guerra in Ucraina è entrata in una nuova fase di logoramento. Non solo sul campo di battaglia, dove l’esercito ucraino è decimato da perdite spaventose e da una crisi morale che conta centinaia di migliaia di diserzioni.

Il vero logoramento è qui, in Europa. Un logoramento economico, politico e, soprattutto, strategico. È un’emorragia. E nessuno sembra avere la volontà, o la lucidità, di fermarla.

IL TEATRO DELLA SOLIDARIETÀ E IL PREZZO NASCOSTO

Mentre le televisioni ci mostrano il tour europeo di Zelenskyy, intento a chiedere, – quasi a pretendere in verità, – nuovi e più potenti armamenti, la narrazione ufficiale si concentra sulla “solidarietà necessaria”.

Ma dietro questa retorica si cela una realtà ben più concreta e drammatica.

I 178 miliardi di euro che l’Unione Europea ha già speso – una cifra tra le otto e le dieci manovre finanziarie italiane, per intenderci – non sono un atto di generosità, come qualcuno potrebbe pensare, dopo una lettura superficiale di ciò che accade. In realtà, sono un gigantesco affare.

Un accordo decennale con la Francia per cento caccia Rafale, sistemi di difesa aerea, droni. Questi non sono regali, ma commesse per l’industria bellica francese, pagate con i soldi dei contribuenti europei, erogati all’Ucraina affinché possa “fare spesa” proprio in Europa.

È un circolo vizioso perfetto, un capolavoro di ingegneria finanziaria dove il banco, che, in questo caso, è l’industria della difesa, vince sempre.

A perderci sono i contribuenti europei con il loro potere d’acquisto e intere generazioni di ucraini mandati al macero. Altro che “solidarietà agli ucraini”!

Nel frattempo, la richiesta di maggiore trasparenza sulla gestione di questi fondi viene sistematicamente ignorata, nonostante i tanti allarmi di queste ultime settimane.

Le agenzie anticorruzione ucraine che osano sollevare dubbi su una “mafia della guerra”, interna intenta a dirottare il denaro, vengono messe a tacere o delegittimate.

Ma la risposta di Bruxelles, anziché pretendere indagini serie, è inviare più soldi. È come tentare di curare un alcolizzato inondandolo di vodka, sperando che prima o poi si disseti.

Ma quale amministratore delegato continuerebbe a dare soldi a un partner commerciale che avesse fatto sparire soldi e prodotti?!

L’ECONOMIA DI GUERRA IN TEMPO DI (NON) PACE

Non che in casa nostra le cose vadano meglio.

L’Italia, fanalino di coda per crescita economica in Europa, con stime che rasentano lo “zero virgola niente”, con le stime dimezzate dalla previsione d maggio dello 0,7% a un più realistico 0,4, approva il dodicesimo pacchetto di aiuti militari.

Aiuti secretati, ovviamente. Perché il popolo sovrano… conta come la crescita economica: lo zero virgola niente, appunto.

Occhio non vede, cuore non duole. Ma il portafoglio degli italiani, quello sì che duole!

E mentre si finanziano armamenti, le nostre infrastrutture crollano.

Le liste d’attesa nella sanità pubblica si allungano a dismisura, costringendo quegli stessi cittadini le cui tasse finanziano la guerra a rivolgersi al privato, pagando due volte.

L’unica, vera occasione di rilancio, il PNRR, viene gestita… – sembrerebbe non essere gestita affatto, – con fondi spesi a pioggia senza una visione strategica, se non forse per opere faraoniche come il Ponte sullo Stretto, quando ci sono ponti e viadotti su cui ci si fa il segno della croce prima di attraversarli.

L’enorme indebitamento pubblico schiaccia ogni possibilità di politica espansiva interna, ma non sembra essere un ostacolo quando si tratta di sostenere lo sforzo bellico.

La pacchia per l’Europa, quella che secondo gli slogan elettorali dell’attuale maggioranza di governo doveva finire, non solo continua, ma prospera sulle nostre macerie economiche.

LA FRATTURA INTERNA: MORALE, CONSENSO E VERITÀ CENSURATE

La narrazione mediatica occidentale dipinge un’Ucraina eroica e compatta, ma la realtà sul terreno racconta un’altra storia. Il gradimento di Zelenskyy è in caduta libera, crollato del 40% in una sola settimana secondo fonti parlamentari ucraine, non secondo blog russi.

Un dato che riflette la crescente frustrazione di un popolo stremato e la consapevolezza di una corruzione sistemica che prospera anche durante il conflitto.

L’esercito è al collasso. Le perdite sono immani, il morale è a terra e il fenomeno delle diserzioni ha raggiunto proporzioni epidemiche. I soldati vengono mobilitati a forza, rastrellati per le strade, in un disperato tentativo di tappare le falle di un fronte che si sgretola sempre di più.

Questa non è affatto propaganda russa, come la propaganda occidentale sbraita ogni giorno, ma sono i segnali inequivocabili di un sistema che sta implodendo dall’interno, come si comprende ascoltando ciò che raccontano i parlamentari ucraini e l’informazione ucraina messa a tacere da Zelensky.

Ma guai a dirlo. Guai a mettere in discussione il dogma. Qualsiasi analisi critica, qualsiasi dato che incrini la facciata della narrazione ufficiale, viene immediatamente bollato come “guerra ibrida”, “disinformazione”, “propaganda del Cremlino”.

Si progetta un “Ministero della Verità” europeo per filtrare le notizie, in un delirio orwelliano che confonde il giornalismo con la propaganda di Stato. Perché per qualunque potere dispotico, il dissenso non è più un pilastro della democrazia, ma un’infezione da debellare.

Perciò, secondo questa logica, le persone critiche sono il nuovo male.

EUROPA, SENZA STRATEGIA, SOLO COSTI

Siamo di fronte a un bivio storico.

Continuiamo a versare miliardi in un conflitto che non possiamo vincere militarmente, indebolendo le nostre economie e sacrificando il nostro stato sociale, oppure ci fermiamo a riflettere e cominciamo a comportarci da adulti?

Qual è la strategia?

Spendere cifre colossali in armamenti, senza un esercito europeo, senza una politica estera comune, senza un comando unificato, è pura follia.

Significa delegare la nostra sicurezza e la nostra politica a potenze esterne, principalmente agli Stati Uniti, i cui interessi industriali ed economici sono i veri beneficiari di questo conflitto, sia a livello commerciale sia sotto il profilo geopolitico.

L’Europa sta finanziando la propria irrilevanza. Sta pagando un prezzo esorbitante per dimostrare una lealtà atlantica che nessuno le aveva chiesto in questi termini suicidi.

È un paradosso letale, per cui più spendiamo per questa guerra, più diventiamo deboli, poveri e, in ultima analisi, meno sovrani.

La vera “guerra ibrida” non è quella combattuta con le fake news, ma quella che stiamo conducendo contro noi stessi. Il vero nemico non è a Est, ma sulle nostre teste. I veri nemici degli europei sono quei leader le cui politiche vanno contro il nostro futuro. Contro ogni logica.

E sono anche quei giornalisti che hanno scelto di non informare più, ma di diventare megafoni del potere, come denuncio nel libri LA FABBRICA DELLA PAURA.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

CROSETTO GIOCA CON LE PAROLE.

MENTRE KIEV AFFONDA, CROSETTO SI PRODIGA IN GIRI DI PAROLE PER LITIGARE CON BORGHI

Un tweet e una domanda.

È bastato questo a Claudio Borghi, senatore della Lega, per scoperchiare il vaso di Pandora della maggioranza italiana sulla crisi ucraina che si avvita su se stessa da quasi quattro anni.

La sua domanda, tanto logica quanto velenosa – “Ma se per caso gli Usa attaccassero il Venezuela che facciamo? Mandiamo 12 pacchetti di armi a Maduro?” – è il sintomo di una narrazione occidentale che fa acqua da tutte le parti.

La risposta del Ministro della Difesa, Guido Crosetto, è stata immediata e chirurgica, eppure profondamente fragile. Un colpo di fioretto retorico che, nel tentativo di difendere la democrazia, ne ha mostrato le contraddizioni.

L’ELEGANZA DELLA DISTRAZIONE: DECIFRARE LA RISPOSTA DI CROSETTO

Il Ministro ha articolato la sua difesa su due pilastri apparentemente inscalfibili.

Il primo, la distinzione di intento: gli Stati Uniti, a suo dire, “non hanno mai invaso una nazione per occuparne stabilmente il territorio con la scusa che alcuni parlassero inglese”.

Il secondo, la distinzione di metodo: la libertà di espressione che permette a Borghi di dissentire in Italia, sarebbe impensabile nella Russia di Putin.

Analizziamo il primo punto con lucidità.

Crosetto ha tecnicamente ragione. L’obiettivo manifesto delle recenti avventure militari americane non è stata l’annessione territoriale in stile ottocentesco praticata da Mosca con la Crimea e il Donbas.

Tuttavia, è proprio qui che la sua argomentazione, da un punto di vista del Diritto internazionale e della logica politica, si rivela un sofisma. Non ha risposto nel merito, perché il quesito di Borghi non verteva sulla modalità dell’occupazione, ma sulla legittimità dell’aggressione.

Sostenere che le invasioni americane siano moralmente superiori perché non mirano all’annessione è come affermare che un’aggressione a scopo di rapina sia meno grave di un’aggressione a scopo di sequestro.

L’atto primario, la violazione della sovranità di una nazione, resta identico. È un atto contrario al Diritto. Punto.

D’altronde, la storia pesa come un macigno sulla credibilità occidentale e ci ricorda che gli USA hanno dato il via a conflitti devastanti sulla base di menzogne costruite a tavolino, come le famose armi di distruzione di massa in Iraq, una fake news partorita nelle stanze della CIA; altre volte, hanno agito in palese spregio del consenso internazionale, come con il bombardamento del Kosovo, nel 1999, senza uno straccio di mandato ONU.

Un attacco al Venezuela, dunque, sarebbe un atto di pirateria internazionale esattamente come l’invasione russa dell’Ucraina. Con qualsiasi intento.

La domanda di Borghi, per quanto provocatoria, è dunque logicamente impeccabile. Crosetto, eludendola, ha mostrato tutta la sua debolezza, politica e dialettica.

LA LIBERTÀ A CORRENTE ALTERNA E LO SPETTRO DI NUNZIATI

Il secondo pilastro della difesa di Crosetto è ancora più insidioso: la libertà di parola.

Un inno alla democrazia che suona meraviglioso, ma che stride con una realtà più complessa e amara.

“Mi ostinerò a difendere il diritto di Claudio Borghi… di dire tutto ciò che gli passa in testa”, scrive il Ministro. Eppure, con questa difesa appassionata, dimentica, o sceglie di ignorare, che la libertà nel nostro Occidente non è un monolite, ma un ecosistema delicato e spesso condizionato.

Il caso del giornalista Gabriele Nunziati, licenziato per un post ritenuto scomodo, non è avvenuto a Mosca. È avvenuto qui. In Italia.

L’autocrazia reprime col carcere, invece certe democrazie logore emarginano con la precarietà economica e l’ostracismo professionale.

Il risultato, per la singola voce dissenziente, non è poi così diverso.

E già che ci siamo, sarebbe il caso di ricordare Julian Assange, il giornalista che rischiava più di 175 anni di carcere per aver pubblicato documenti che provano i crimini di guerra americani (quelli degli invasori “buoni”, per intenderci).

Assange non è stato detenuto a Mosca, ma a Londra, in attesa di essere estradato proprio in quegli USA che il ministro dipinge come il paradiso della libera espressione.

Forse la libertà di cui parla Crosetto è quella di poter criticare Putin dal salotto di Bruno Vespa. O quella di Damiano dei Maneskin, super star perché ha insultato il leader russo dal comfort degli Stati Uniti d’America.

Quella, sì, è garantita. Per il resto, meglio chiedere il permesso.

O, come direbbe il Ministro, meglio avere l’opinione giusta, altrimenti la libertà di parola diventa libertà di trovarsi un altro lavoro. Proprio come accaduto a Nunziati.

L’argomento di Crosetto, dunque, si configura come un’arma a doppio taglio, perché glorifica un ideale che la prassi quotidiana, anche in Italia, spesso prende a calci.

IL VERO FRONTE SIAMO NOI

Lo scambio tra Borghi e Crosetto non è un battibecco politico come tanti altri, ma è la fotografia di un problema di credibilità che rivela un Occidente in crisi, dopo anni di conflitto.

La stanchezza economica, le popolazioni sempre più scontente di chi comanda e, soprattutto, il peso delle proprie contraddizioni storiche stanno erodendo il fronte atlantico dall’interno.

La vera minaccia per l’Ucraina, oggi, non è solo la superiorità russa, ma la disintegrazione della volontà politica occidentale.

Le nostre democrazie, impantanate nelle loro stesse sinapsi digitali e incapaci di sostenere uno sforzo prolungato senza frammentarsi in mille polemiche, hanno ancora la coerenza per difendere i principi che affermano di rappresentare, in qualsiasi caso e contro qualunque soggetto che violi il Diritto internazionale?

Oppure, continueremo a dare l’impressione al resto del mondo che il Diritto internazionale sia soltanto una lista di norme di poco conto per gli occidentali, ma tassative per il resto del mondo?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.