I FUNERALI DELL’IPOCRISIA: QUANDO LA COERENZA DIVENTA UN REATO

Oggi si seppellisce un uomo scomodo.

Un uomo che ha scelto di parlare quando tutti urlavano, di ascoltare quando tutti giudicavano, di sfidare i dogmi mentre il mondo si accartocciava in slogan.

Papa Francesco è morto tre volte: la prima volta, quando i leader occidentali lo hanno isolato, perseguendo la strada della guerra e del demonio; la seconda, quando ha smesso di respirare; la terza, quando i potenti hanno iniziato a celebrarlo ancor prima di giungere in Vaticano per le esequie.

IL SILENZIO DI PAPA FRANCESCO, CHE URLA PIÙ FORTE DEI DPCM

Partiamo dalle critiche.

Durante la pandemia, Francesco scelse di non trasformare il Vangelo in un tweet di protesta.

Silenzio, dissero i critici. Forse, persino complicità con l’autoritarismo.

Peccato che tanti di quelli che muovono tali critiche siano gli stessi che ieri applaudivano ai balconi, bevendosi la retorica dell’“andrà tutto bene” mentre morivano Camilla Canepa e Stefano Paternò, ma… per “nessuna correlazione”, non sia mai.

LA FOLLIA DEL RIARMO E IL BUSINESS DELLA GUERRA

Ma veniamo agli ultimi anni.

L’Europa si vanta di essere il faro dei diritti, ma fabbrica cannoni.

La Germania spinge per la terza guerra mondiale perché il green è un flop, i droni no.

Le fabbriche di automobili hanno investito l’impossibile per riconvertire all’elettrico la produzione, e adesso chiedono il conto alla politica per i miliardi gettati in fumo.

Papa Francesco ha detto a chiare lettere: «La corsa al riarmo è follia!»

Una verità lapalissiana, ma a Bruxelles preferiscono ascoltare i lobbisti delle armi, non un vecchio vestito di bianco che predica la pace.

Perché la pace non fa fatturato. La guerra sì.

E allora via libera ai contratti militari, ai crediti d’imposta per chi vende morte, alle lacrime di coccodrillo sui bambini di Kiev. Purché non si tocchino gli affari nel Donbass, dove TotalEnergies, BP, Shell e altre società anglofrancesi estraggono risorse.

Immagine con Papa Francesco e una colomba in mano e un giornale con su scritto PACE.

RUSSIA, UCRAINA E LA DANZA DELLE MENZOGNE

Per circa tre anni, i media hanno dipinto la Russia come un branco di ubriachi senza armi né addestramento.

Mancavano persino le divise, poiché le sanzioni devastanti dell’Occidente avevano reso il rublo carta straccia e l’economia russa era al collasso.

Poi, all’improvviso, la Russia è diventata il nuovo Reich millenario, dotata di armi di ultima generazione e di un esercito di alieni imbattibili.

Un cambio di narrazione che non sarebbe riuscito nemmeno a una di quelle pellicole spazzatura degli anni Novanta, di quelle in cui l’eroe veniva pestato per un quarto d’ora, prima di ricordarsi di saper menare più forte dell’avversario.

Allora partiva la musica motivazionale e, a suon di calci e pugni, batteva quello che sembrava insuperabile.

Un po’ come i giornalisti di oggi ci raccontano la Russia. Prima allo sbando, per supportare la scelta dei loro padroni di inviare armi a Kiev. Adesso per supportare gli stessi padroni, che spingono per il riarmo europeo.

Francesco non ha abboccato a cotanta cialtroneria dei mezzi d’informazione italiani.

Ha chiesto dialogo, mentre i leader occidentali sventolavano bandiere ucraine con una mano e firmavano contratti per il gas con l’altra.

Il pacifismo è eresia quando il complesso militare-industriale ha bisogno di nemici.

E così, chi invoca la pace viene tacciato di putinismo. Proprio come i novax durante la pandemia.

Perché le etichette si sprecano in bocca a due categorie di persone: gli idioti e chi non ha argomentazioni.

Ma, chissà perché, sia i novax sia i putiniani, tempo e fatti alla mano, avevano ragione. – Ma non gridiamolo ai quattro venti. Altrimenti alcuni giornalisti della propaganda vanno in cortocircuito.

GAZA: DOVE I BAMBINI VALGONO MENO DELLE TERRE RARE

Quando Israele ha cominciato a bombardare ospedali, l’Occidente ha parlato di “autodifesa”.

Quando Francesco ha usato la parola “genocidio”, hanno tirato fuori dalla naftalina persino la senatrice Segre per tacciarlo di estremismo antisemita.

Perché i palestinesi non hanno terre rare da vendere, né lobby potenti. Solo bambini sotto le macerie.

Ma quei bambini, ahimè, non hanno azioni in borsa. Non fanno gola alle multinazionali americane o anglofrancesi.

Perciò, sono vittime scomode, come lo è chi le difende. Come lo è stato Papa Francesco.

L’IPOCRISIA POSTMODERNA: CANONIZZARE CHI SI È CROCIFISSO

Eppure, oggi tutti piangeranno Francesco.

I politici che lo hanno isolato. I giornalisti che lo hanno ridicolizzato. Gli stessi che ieri lo chiamavano “comunista”, poi “putiniano”, infine “antisemita”, oggi ne esalteranno il coraggio.

È il trucco sporco dell’ipocrisia postmoderna: trasformare gli eretici in monumenti, una volta resi innocui.

Francesco è stato emarginato, deriso, lasciato solo. Perché una voce fuori dal coro fa paura. Perché chi rompe il gioco del potere viene espulso dal tavolo.

Immagine sull'ipocrisia di politici e giornalisti con Papa Francesco

LA PACE COME RIVOLUZIONE: L’EREDITÀ SCONVENIENTE

In un’epoca in cui la guerra è business, la follia è genialità e l’idiozia è saggezza, la pace è l’unica rivoluzione rimasta.

Francesco l’ha capito. E ha pagato per questo.

E ora, mentre i potenti gli rendono omaggio con discorsi pieni solo di retorica, viene da chiedersi quanti di loro sogneranno di tradurre quelle parole in azioni.

Quanti smantelleranno le fabbriche di droni, restituiranno le terre rubate, fermeranno i bombardamenti prima che non ci siano più ospedali da bombardare.

La risposta è in quel silenzio assordante. Quello che segue sempre, immancabile, quando muore un uomo scomodo.

Perché le verità sgradevoli si seppelliscono con chi le ha pronunciate.

Ma l’ipocrisia, si sa, non fa funerali. Mai, neppure a se stessa.

TAMAGO: L’UOVO DELLA VERITÀ IN UN MONDO DI GUSCI VUOTI

C’è un momento, nella storia delle idee, in cui il silenzio diventa rumore. Quando le parole smettono di essere ponti e si trasformano in muri. Quando la narrazione pubblica, anziché specchio, diventa un caleidoscopio di bugie.

È qui che nasce Tamago, un nome che sa di origine, di forma senza spigoli, di un guscio che contiene ciò che il mondo esterno vorrebbe soffocare.

LA POLITICA È RESPIRO, NON SPETTACOLO

Ogni respiro è politica. Ogni boccone di pane, ogni pixel dello schermo, ogni lacrima versata in una notte insonne. La politica non è solo leggi e trattati, ma è la mano invisibile che modella il prezzo del latte, la qualità dell’aria, il destino di un soldato in trincea, il lavoro che avrai o che non troverai.

Eppure, da tre anni, i media mainstream hanno trasformato la guerra in un reality show.

Ci hanno raccontato di soldati russi che combattevano a mani nude, di microchip rubati dalle lavastoviglie ucraine, di un rublo ridotto a carta da parati. Poi, come in una farsa scritta male, hanno cambiato copione: l’economia di Mosca non era più in ginocchio, ma florida, e la Russia era armata fino ai denti, pronta a sfidare l’Europa intera e persino la NATO.

IL GIORNALISMO DIVENTATO PROPAGANDA

Dov’erano i giornalisti mentre i fatti si liquefacevano come neve al sole?

Occupati a insaponare gli F-16 di cui non si è sentito più parlare dopo che i primi due sono stati abbattuti dopo poche ore dal loro primo utilizzo, a celebrare controffensive ucraine mai avvenute, a trasformare le fabbriche tedesche di auto elettriche- fallimentari – in arsenali di guerra.

Hanno sostituito l’inchiesta con l’adulazione degli autocrati, glorificando Draghi, Von der Leyen, Meloni… chiunque faccia parte del copione del “noi contro loro”, dei buoni contro i cattivi.

Hanno sostituito il dubbio con la certezza, la verità con il qualunque cosa serva al potere. Così, la politica è diventata un teatrino di marionette, e noi – spettatori impotenti – abbiamo smesso di credere.

TAMAGO: UN UOVO CHE NON TEME DI ROMPERSI

Tamago nasce da qui: dalla frattura tra parole e realtà, tra verità e menzogna, tra dignità e propaganda.

È un contenitore che non ha paura di sporcarsi le mani. Un luogo dove artisti, filosofi, scrittori e cittadini comuni si incontrano per ridare senso alle cose. Perché l’arte non è fuga dalla politica, ma il suo specchio più crudele. La letteratura non è evasione, ma memoria. Il teatro non è intrattenimento, ma processo alle intenzioni.

LA STORIA COME BUSSOLA, NON COME SPADA

Non ci interessa la retorica del “noi contro loro”. Non vendiamo verità precotte, ma domande scomode. Le nostre analisi si reggono sulla storia: quella vera, non quella riscritta dai vincitori. Perché chi dimentica il passato non è solo condannato a ripeterlo: è complice di chi lo manipola.

UNA PIATTAFORMA CHE SFIDA LA GRAVITÀ

Tamago è gratuito, aperto, vivo. Non chiediamo soldi, ma cervelli. Non pretendiamo di spiegare, ma di attivare le menti per ragionare.

Qui, ogni contributo è una tessera di un mosaico più grande.

Non ci sono redazioni blindate, solo voci che si incontrano, si scontrano, si contaminano.

Per ora, la redazione è composta da me, Pasquale Di Matteo, scrittore, critico d’arte internazionale, divulgatore culturale e opinionista, e dal direttore, il Dott. Danilo Preto, giornalista, ex manager di aziende pubbliche e private, nonché responsabile della comunicazione, scrittore, opinionista e artista concettuale.

Ma se vuoi entrare a farne parte anche tu, sei ben accetto. Scrivilo nella pagina contatti.

IL FUTURO È UN UOVO: FRAGILE, MA POSSIBILE

C’è chi dice che il mondo sia diviso in vincitori e vinti. Noi crediamo che sia diviso in chi si arrende e chi continua a cercare.

Tamago è per chi non smette di cercare. Per chi sa che ogni idea, per quanto piccola, può incrinare il guscio dell’indifferenza. Per chi crede che la politica – quella vera – non sia una guerra, ma un dialogo.

PERCHÉ TAMAGO È NECESSARIO

Perché la verità non è un optional. Perché ogni bugia raccontata è un pezzo di umanità rubato. Perché se l’uovo non si rompe, non nasce nulla.

ENTRA IN TAMAGO. IL TUO PENSIERO È IL NOSTRO OSSIGENO.

IL CAOS, L’OBLIO E L’IPOCRISIA: QUANDO LA STORIA SI RIPETE COME UNA TRAGEDIA GROTTESCA

Viviamo in un’epoca che sembra uscita dalla penna di uno scrittore cinico, dove il caos si mescola all’idiozia con la stessa eleganza di un elefante in una cristalleria.

E, come in ogni tragedia che si rispetti, il copione è già stato recitato: pandemia, caos, guerre devastanti, milioni di morti e una memoria corta quanto l’orizzonte di un tweet.

Dal 2014, l’Ucraina è stata il palcoscenico di un conflitto dimenticato, un sanguinoso monologo ignorato dall’Occidente finché Mosca non ha deciso di alzare il volume, nel 2022.

Solo allora i media hanno “scoperto” la guerra, come se prima fossero stati accecati da un sortilegio.

Eppure, c’era chi provava a sussurrarlo già l’11 aprile 2017: fu Sergio Mattarella, in un incontro con Putin, a chiedere a Mosca di usare la sua influenza per fermare il massacro. (Fonte)

LA NATO, CUBA E IL DOPPIO STANDARD DELLA PAURA

Aprite una cartina geografica.

Confrontate i confini della NATO prima del 1991 con quelli di oggi.

Qualcuno sostiene che la Russia debba tollerare interferenze ai suoi confini perché l’Ucraina e le altre nazioni sono sovrane.

Peccato che gli Stati Uniti, per molto meno, nel 1962, rischiarono di far esplodere il mondo per una crisi a Cuba.

Ma certo: quando si tratta di noi , è legittima difesa; quando si tratta di
loro , è aggressione. Perché la logica è un optional, quando si brandisce il martello della morale a doppio taglio.

Oggi, però, l’espansione della NATO verso est è presentata come un diritto divino, mentre la paranoia russa diventa il capriccio di uno zar folle.

E la logica?! E il buonsenso?!

GAZA, L’EUROPA E L’ARTE DI GUARDARE ALTROVE

Mentre si stracciano le vesti per l’Ucraina, i leader dell’Europa dimostrano di avere una miopia selettiva degna di un pirata con una benda sola.

A Gaza, bambini sotto le macerie, scuole bombardate, ospedali trasformati in bersagli e decine di migliaia di innocenti massacrati.

Eppure, nessuna sanzione contro Israele. Nessun invio di armi ai palestinesi, solo silenzi imbarazzati e qualche tweet di circostanza.

Il diritto internazionale? Una barzelletta.

Gli innocenti? Dettaglio trascurabile.

Qui non si tratta di schierarsi, ma di coerenza: se la Russia è un aggressore da isolare poiché aggressore, perché Israele viene trattato come il figlio prediletto che può permettersi di aggredire, ammazzare e commettere genocidi?

Il doppio standard è così sfacciato che persino un cieco lo vedrebbe. Ma in Europa, pare, abbiamo sostituito la vista con il copione.

I MEDIA, DA CANI DA GUARDIA A CAGNOLINI DA GREMBO

Tre anni di narrazione tossica: sanzioni “dirompenti” che avrebbero ridotto la Russia alla fame, il rublo a carta igienica, soldati russi in mutande e armati di pale. Poi, improvvisamente, il nemico è un orco pronto a divorare l’Europa intera e ad affrontare la NATO.

Come mai questo cambio di registro?

Semplice: i media non informano più.

Sono megafoni di poteri oscuri, burattini che danzano al ritmo di chi tiene i fili.

Quando osavi dubitare della vittoria di Kiev, ti zittivano con risatine sprezzanti. Ora ti vendono la paura, perché senza un nemico, come possono giustificare miliardi spesi in armi dai loro padroni?

IL RIARMO EUROPEO: LA GRANDE TRUFFA DEL SECOLO

“La Russia vuole invaderci!”.

Davvero? Con quale esercito? Con quali armi?

E perché mai dovrebbe sfidare la NATO, sapendo che significherebbe l’apocalisse?

La verità è più banale e più sporca: l’Europa ha bisogno della guerra.

I suoi tecnocrati, aggrappati alle poltrone come naufraghi a un relitto, hanno fallito su tutto.

Il turbocapitalismo è uno scheletro, l’impero americano un gigante dai piedi d’argilla e la transizione green?

Una farsa che ha strangolato l’industria, soprattutto in Germania.

E qui viene il colpo di genio, infatti: trasformare le fabbriche di auto in arsenali. La Volkswagen che produce droni, la BMW che forgia carri armati. Il sogno verde diventa grigio-verde, il colore del militarismo. Un colore che ogni volta abbia trovato spazio in Germania, l’Europa è diventata teatro di guerre mondiali.

BRICS, IL MONDO CHE L’OCCIDENTE NON VUOLE VEDERE

Mentre l’Europa gioca a fare la guerriera, il mondo cambia pelle.

I BRICS avanzano, silenziosi e inesorabili. Il dollaro trema, l’euro sussulta e i nostri leader continuano a credersi protagonisti di un film già finito.

Il capitalismo sfrenato ha fallito, ma invece di ammetterlo, si scatena una corsa al riarmo per mantenere l’illusione del controllo.

È come svuotare il mare con un secchio bucato, mentre la tempesta si avvicina.

C’è chi dice che questo caos sia un disegno.

Di chi? Di chi ha interesse a mantenere il potere mentre il vecchio ordine crolla.

Il turbocapitalismo ha fallito, l’impero americano è in regressione, eppure si continua a ballare sul Titanic.

Forse, il vero disegno è più triste: non c’è nessun burattinaio, solo uomini piccoli che giocano a fare gli dei, mentre il mondo brucia.

LA GUERRA È SEMPRE UN AFFARE, MAI UNA SOLUZIONE

Alla fine, restano le domande brucianti: chi ci guadagna? Chi perde? E soprattutto: quanta sofferenza servirà ancora per capire che la guerra non è uno spettacolo, ma una voragine che inghiotte vite, dignità, futuro?

L’Europa si illude di rinascere dalle ceneri dell’industria convertita in morte, ma ciò che costruisce sono bare dorate per le generazioni che verranno.

IL CORAGGIO DI GUARDARE NEGLI OCCHI IL MOSTRO

Forse è ora di smetterla di raccontarci favole. Di guardare negli occhi il mostro che abbiamo creato: un sistema marcio, basato sulla paura e sull’avidità.

La storia ci grida che il caos di oggi è figlio delle menzogne di ieri. E se non troviamo il coraggio di cambiare registro, di ascoltare chi parla di pace anziché di missili, finiremo come sempre: con un campo di battaglia davanti e un libro di storia futuro, pronto a giudicarci.

IL FUTURO È UNA SCELTA, NON UN INCIDENTE DI PERCORSO

Respira.

Senti il peso delle parole.

Ogni guerra inizia con un silenzio, con un “non è affar nostro”.

Ogni bomba è un pezzo di cuore spento. Forse, invece di prepararci a combattere, dovremmo ricordare come si fa a vivere. Prima che sia troppo tardi. Prima che il sangue di Kiev, di Gaza, di Mosca e di Ramallah diventi anche quello di Parigi, Milano, Roma…

Perché la storia non è un videogame. Non ci sono vite extra, né reset.

Ogni guerra, ogni bugia, ogni calcolo politico lascia cicatrici.

Ma forse, in questo mare di idiozia, c’è ancora spazio per una verità semplice: il mondo non si divide più tra buoni e cattivi, ma tra chi ha il coraggio di ascoltare e chi preferisce urlare.

E, mentre l’Europa si arrocca nelle sue illusioni, il futuro si scrive altrove. Nel silenzio.

IL TEATRO: AUTORI, ATTORI, LUOGHI E PUBBLICO

Era il 27 marzo 1961 quando è stato dichiarato che quel giorno sarebbe stato celebrato come giornata mondiale del teatro.

Dal 1962 l’Unesco ha riconosciuto questa data e ha redatto un albo degli autori iscrivendo ogni anno un autore diverso: nel 1973 il riconoscimento è stato dato a Luchino Visconti.

Ma, al di là di tutto questo, che è facilmente recuperabile online, qui vorremmo tracciare un quadro, per quanto possibile, sull’attuale stato dell’arte.

Partiamo dai teatri, forse la parte più semplice.

I teatri come sede delle rappresentazioni sono presenti in grande abbondanza in tutto il territorio nazionale.

Escludendo quelli romani e Greci, i teatri attualmente attivi in Italia sono circa 1200.

Un numero rilevantissimo ed è facile immaginare quale sia il costo di mantenimento solo per le infrastrutture ricordando che non sono tutti pubblici, ma vi sono anche i piccoli teatri privati ugualmente meritevoli di attenzione e spesso con cartelloni di notevole rilievo.

Secondo i dati ufficiali ci sono più di 80 compagnie professionali che operano in Italia mentre la FITA (FEDERAZIONE ITALIANA TEATRO AMATORI) conta circa 25.000 soci e 1400 compagnie associate.

Sono numeri che dicono molto rispetto al fenomeno nazionale, ma che parallelamente raccontano anche delle difficoltà oggettive di mantenere in vita un apparato così consistente. Sul fronte degli attori, a giudicare dalle richieste di percepimento del bonus sociale di € 600, al 2020 gli attori inscritti in questa lista erano più di 70.000.

Numeri sui quali potremmo avere qualche dubbio. Comunque gli stipendi che l’attore mediamente dichiara mensilmente vanno dai 500 ai 1000 euro e non parliamo certo degli stipendi percepiti dai pochi grandi attori con emolumenti più elevati.

Ora gli spettatori: vanno a teatro per un 13,5% le donne e il 10,5 % degli uomini sul totale di chi partecipa in generale a spettacoli.

Indipendentemente dalla correttezza di questi dati, che sono recuperati on-line e che potrebbero non avere validità scientifica o statistica, e quindi non godere di precisione, anche se facilmente riscontrabili da tutti, mi sembra di poter affermare che il comparto non goda di ottima salute generale e che non possa sostenersi se non per importanti interventi delle amministrazioni nazionali, regionali e locali oltre che dai finanziamenti delle fondazioni e delle aziende private.

Per chi volesse saperne di più c’è comunque un interessante studio del ministero preposto, un po’ datato per la verità, ma interessante.

In ogni caso il ministero pubblica i dati del FUS (fondo unico per lo spettacolo) consultabile facilmente online.

Al di là dei numeri, che in generale a me sembrano un po’ ballerini e certamente non tutti aggiornati, mi pare che la situazione sia, oltre che complessa anche un po’ asfittica, frutto di una forse finta affezione al teatro dove ad esempio non compaiono, mi pare, dati sullo stato di salute economico di chi affronta l’acquisto del biglietto di un teatro per uno spettacolo di qualità e con attori importanti.

Cioè, a me sembra che al teatro si vada, oltre che per la bellezza, attesa, della rappresentazione, ma anche, se non soprattutto, per farsi notare e per fregiarsi nel racconto con gli amici della partecipazione diretta a quell’incontro.

Se è vero che a teatro non ci sono solo gli spettacoli classici, ma anche quelli più leggeri e facilmente godibili e fruibili, il teatro rappresenta pur sempre un fenomeno d’élite, anche se sta certamente prendendo piede l’idea che a teatro ci possa essere anche qualcosa di non particolarmente culturalmente impegnativo.

Ben venga quindi una fruizione verticale verso il volere di un pubblico più vasto e disponibile allo spettacolo facile e comprensibile da subito.

Mi viene in mente che questa possa essere o lo sia già l’alternativa fra uno spettacolo visto in televisione e uno goduto in teatro che potrebbe diventare anche un happening collettivo, visto che non è più goduto fra le pareti domestiche con i propri cari, ma fruito in una location molto più ampia e molto più affollata.

E dove ci possa essere anche un confronto dialettico con chi ha partecipato da spettatore allo spettacolo.

Gli autori non si contano, ma contano molto insieme ai registi e agli altri partecipanti alla messa in scena.

Tra gli autori c’è solo l’imbarazzo della scelta: fra i classici, i contemporanei, quelli d’avanguardia e quelli di quartiere.

LA MUSICA TRA COGNIZIONE E CULTURA: UN DIALOGO TRA ETERNITÀ ED EFFIMERO

La musica non è solo suono. È il respiro dell’umanità, un linguaggio che precede le parole e sopravvive alle epoche.

Mentre le note di Beethoven risuonano ancora nei teatri, i brani commerciali che dominavano le classifiche due anni fa sembrano già reliquie dimenticate.

Perché? La risposta non sta solo nelle note, ma in come il nostro cervello le assorbe, le trasforma in emozioni, e le lega alla nostra identità.

La musica classica resiste perché parla alla nostra biologia, alla nostra mente antica. Quella commerciale, invece, è un riflesso delle nostre pulsioni più fugaci, schiava di un presente che non sa più diventare memoria.

LA MUSICA CLASSICA E L’ARCHITETTURA DELL’ANIMA

Immaginate un violino che disegna nell’aria una melodia di Bach. Ogni nota è un mattone di un edificio invisibile, costruito secondo proporzioni matematiche che il cervello riconosce come casa.

Studi di neuroscienza rivelano che le sinfonie classiche attivano la corteccia prefrontale, regione dell’astrazione, e l’ippocampo, custode dei ricordi. Non è magia, ma biologia.

Le progressioni armoniche di Mozart seguono schemi vicini alla sezione aurea, una geometria che l’occhio umano trova armonica senza sapere perché.

Qui non si tratta di gusto, ma di risonanza. Quando ascoltiamo il Requiem di Verdi, il sistema limbico si accende come un cielo stellato, rilasciando dopamina e cortisolo in un equilibrio tra dolore e piacere.

È un’esperienza che chiede partecipazione, non passività. La complessità strutturale costringe il cervello a cercare connessioni, a costruire significati. Ogni ascolto è una nuova scoperta, un dialogo tra l’opera e chi la vive.

LA MUSICA COMMERCIALE: UN FUOCO D’ARTIFICIO NELLA NOTTE

Ora pensate a un ritmo trap: battiti precisi, parole ripetute, una ripetizione che si insinua come un mantra.

È musica progettata per agganciare, non per durare. Il cervello la processa come uno zuccherino: la dopamina schizza, ma svanisce in fretta. È il principio della gratificazione immediata, lo stesso che ci fa scrollare Instagram per ore.

I brani commerciali sfruttano pattern semplici e ripetizioni ossessive, creando una dipendenza che si esaurisce con l’abitudine.

Le mode musicali sono specchi della società: riflettono ansie, desideri, ribellioni di un’epoca. Ma quando quel contesto cambia, i brani perdono senso.

Un successo pop degli anni ’90 oggi suona naif, come un abito fuori stagione. La musica commerciale è un prodotto, non un’opera: nasce per essere consumata, non per diventare eredità.

LA CLASSICA SOPRAVVIVE PERCHÉ È FATTA DI NOI

La Nona Sinfonia di Beethoven non invecchia perché non appartiene al Settecento: appartiene all’uomo.

Utilizza dissonanze che imitano il caos interiore, risoluzioni che ricordano la pace dopo la tempesta. È un viaggio nell’anatomia delle emozioni, capace di commuovere un adolescente del 2024 come un nobile ottocentesco.

La musica classica è un ponte tra culture perché parla un linguaggio pre-verbale, fatto di tensioni e rilasci che tutti riconosciamo. Anche chi non conosce la teoria musicale sente istintivamente la “giustezza” di un accordo di Bach, come riconosce il volto di una madre.

LA MUSICA È IL DIARIO BIOLOGICO DELL’UMANITÀ

La musica classica resiste perché non è artefatto, ma specchio. Riflette schemi neurali condivisi, bisogni ancestrali: ordine, bellezza, catarsi.

La commerciale, invece, è un selfie: cattura un attimo, ma non mette radici.

In un mondo dominato dal rumore, la musica classica ci ricorda chi siamo. È una carezza per il cervello, un promemoria che la vera bellezza non segue le mode: al più le ignora.

Perché, mentre i trend nascono e muoiono, il nostro cervello resta lo stesso. E in quel cervello, da millenni, risuonano le stesse note.

Ribellione contro il temporaneo, contro l’usa-e-getta. Questo è oggi l’ascolto della musica classica.

È scegliere di nutrirsi di complessità in un’epoca di semplificazioni. È abbracciare la propria umanità, fragile ed eterna, senza svendersi alle logiche delle mode del tutto e subito e del consumo compulsivo.

Perché quelle note non sono solo musica: sono la stessa sostanza dell’esistenza umana.

DEMNA IN GUCCI E ALTRE STORIE… FASHION: È TUTTO DA REINVENTARE?

Era il 30 di dicembre 2024, cioè meno di quattro mesi fa, quando ci si accorgeva improvvisamente che stava cambiando tutto nel settore della moda. 

Un giro di valzer di direttori creativi delle grandi maison con sostituzioni impensabili fino a qualche mese prima e tutto alla vigilia di importanti e imminenti sfilate. 

Cambi non solo per designer, ma anche nelle posizioni apicali. Non è un fenomeno da sottovalutare. 

Nel 2024 è cambiata una decina di creativi dopo anni di lavoro passati nello stesso brand. Maison Margiela, Bottega Veneta, Carven, Valentino, Moschino, Jil Sander, Blumarine, Céline, Tom Ford hanno cambiato direzione come fosse un gioco da tavolo e a risentirne è certamente lo stato di salute complessivo della moda.

E sono stati spesso cambi dell’ultimo minuto. È una instabilità dovuta alla fine degli anni verdi dove anche questo comparto ora deve fare i conti con una società capitalistica per cui il consumo sregolato non è più così presente, anche se queste maison fanno comunque sempre incassi da capogiro.

Qual è il motivo per cui il mondo della moda è diventato così incerto?

Essenzialmente, pesa la crisi finanziaria che ha colpito la Cina, che era il primo paese a trascinare il lusso insieme a Giappone e Corea del Sud. E, ovviamente, tutto questo comporta una rivoluzione anche nel campo del lusso.

Ad esempio, non si parla ormai più di “direttore creativo”, ma di “direttore artistico”. E questo si evince nelle ultime sfilate, dove la spettacolarizzazione supera i tradizionali confini ingabbiati in location usuali.

Immagine dall'articolo di Danilo Preto per Tamago.

Ormai si preferisce la strada, il capannone, l’inusuale contesto operativo. Cioè più marketing e meno creatività; in ogni caso, sempre con un occhio attento a quello che succede nel mercato di riferimento, dove le imitazioni al consumo di chi si può permettere acquisti a più zeri lasciano il posto ad una più evidente normalità, pur con le frange di produzione che richiamano le presentazioni dei leader del mondo fashion, così diverse e, appunto, fashinose.

Il consumo folle che trasferisce il breve termine nei consumi deve fare i conti con le disponibilità economiche attuali.

E le imitazioni perpetrate dal fast fashion europeo nulla hanno a che fare con le grandi maison che determinano le tendenze. Se il comparto globalmente fa comunque girare conti con molti zeri è anche altrettanto vero che questi numeri si confrontano, spesso spaventosamente, con i dati sociali ed occupazionali macroeconomici.

In questo contesto preoccupante, secondo una recente analisi di Infocamere su dati INPS, la moda italiana ha perso 28.500 addetti in meno di 10 anni ed è la filiera del manifatturiero che figura in cima alla lista dei settori che hanno perso più occupati.

Poi ci sono anche elementi di forte compressione dovuti al green effect.

Preoccupa ad esempio l’impronta idrica del comparto. Secondo alcuni studi, occorrono quasi 724000 litri di acqua per produrre, rifinire, tingere o stampare i capi di vestiario mediamente presenti nell’armadio dell’italiano medio.

In Europa, l’Italia è seconda solo al Portogallo. Ciò nonostante, secondo una stima del Centro Studi Confindustria, l’Italia è tra le nazioni con una produzione più sostenibile nel G20 e nell’UE.

Secondo questi studi, il 71,5% delle emissioni della intera manifattura italiana proviene da quattro settori. In ordine di responsabilità, vi sono minerali non metalliferi, derivati del petrolio, prodotti chimici, metallurgia.

Anche il tessile in questa graduatoria è responsabile per la sua parte per il 4,5%.

Poi ci sono le incertezze del lusso europeo che è in calo con l’incognita e le preoccupazioni dei dazi USA previsti e applicabili dal 2 aprile.

Vedremo a breve quali decisioni reciproche, in ambito europeo e mondiale, verranno adottate.

È chiaro che il comparto non sta a guardare, ma reagisce con cambi al vertice, acquisizioni, cambi di strategia, etc…

Chi, ad esempio, come Loro Piana, sembra aver scelto una strada interna con Frederic Arnault, rampollo di famiglia, ai vertici. Chi prova intese: il dialogo fra Prada e Versace ne è un chiaro esempio e gli advisor hanno dato tempo fino al 10 aprile.

In questo quadro, gli azionariati che si muovono come fosse un global economic game, le partecipazioni sono molto incrociate e molto intrecciate e potrebbero prevedere cambi di proprietà e cessioni veramente importanti.

Jimmy Choo, ad esempio, potrebbe far parte di questi cambi. Ma forse la parte che ha fatto più rumore è l’abbandono di Sabato De Sarno, che ha lasciato (o ha dovuto lasciare) Gucci proprio alla vigilia della Milano fashion week 2025.

Certo, De Sarno non ha prodotto gli effetti sperati, portando una perdita del 12% alla maison più importante del gruppo francese Kering, proprietarie del brand Gucci, appunto. Ma la MFW è già passata ed è recentissima la nomina di Demna come nuovo direttore creativo di Gucci, proveniente da Balenciaga, di cui è proprietaria la stessa Kering.

Ma la Borsa non ci crede. Certo nel settore moda c’è anche chi dichiara brillanti risultati.

Mango, ad esempio, denuncia un utile netto 2024 del 27% e non è l’unico. Ma Mango non è certo Gucci. Anche Miu Miu ha brillato come pochi nel 2024, salvando gli utili del gruppo a cui appartiene.

Altri, come Ferragamo, archivia il 2024 con una perdita di 68 milioni dopo un precedente utile di 26. Anche qui si attende la nomina del nuovo CEO. Ma qui una parola utile potrebbe essere spesa nel raccontare le discendenze dirette dei proprietari del lusso.

Sembra esserci una autarchia imperante ed una autocelebrazione incentrata sul dogma: Io sono l’icona e quindi fidatevi di me, seguitemi e non cercate altre vie. Perché non ce ne sono.

Un po’ come nelle famiglie dei grandi imprenditori d’altri tempi quando per i ricambi generazionali a dirigere le aziende venivano sempre escluse le discendenze femminili.

Ma il lusso sembra chiuso su se stesso (con poche eccezioni) e ha le sue regole di ferro che, visto che i cambiamenti sono sempre più rapidi, sembrano sempre più anacronistici e protettivi solo dei sistemi familiari.

Questo accade in tutti i campi e non solo nella moda, diventando sempre meno comprensibile. Potrebbe essere l’inizio della fine o l’inizio di un nuovo ciclo obbligatorio, ma magari ancora poco visibile e comprensibile? 

Le cronache, rimanendo in Italia, sembrano confuse ma non dobbiamo confondere i brand con le proprietà, dove i fondi internazionali vanno sempre alla ricerca di opportunità pronti a virare dove c’è il miglior guadagno. È nella loro natura. Il mondo degli affari è questo.

Togliamoci dalla testa che sia anche romantico.

È tutto da scrivere e da reinventare: ora per ora perché il business non aspetta.

Se si vede all’orizzonte una nuova opportunità di guadagno. Pronti, via! Si parte. C’è un brand del lusso da comperare, c’è una partecipazione da condividere, se c’è un mercato già pronto da conquistare, se c’è qualcuno da sistemare nella propria famiglia.

Meglio se esistono milioni di consumatori a cui sottoporre poco democraticamente le proprie scelte estetiche ed economiche. Perché tutto fa trend, spettacolo, mercato, business.

 Insomma nel lusso non ci si annoia. Quasi mai.

SULLA POESIA E DINTORNI

di Danilo Preto

Parlare di poesia è come parlare di un oceano.

La conosciamo perché ci è stata fatta imparare a memoria a scuola (Montale, Quasimodo, Pascoli, Leopardi, Carducci…), ci ricordiamo il nome di qualche autore greco o romano, ci immergiamo nella lettura e nella interpretazione di rime/non rime, di blocchi di scrittura che interpretiamo come poesia perché semplicemente non sono scritti in un testo a blocco, ma si va a capo riga quando l’autore lo desidera.

Poi ci viene in mente Tommaso Marinetti e ci domandiamo quante altre varianti ci sono nella poesia.

Oppure ci ricordiamo della scandalosa Edna St. Millay, di Ferlinghetti o di…

Sì perché la poesia non è solo un vanto italiano, greco o romano. Se mi posso permettere, chi non ha dogmi imparati ed assimilati nel sistema scolastico obbligatorio italiano, ha scoperto anche altre maniere e metodi per scrivere di poesia o poesie.

Perché il termine è talmente vago e difficile da incanalare per cui posso scrivere “Ei fu. Siccome immobile dato il mortal sospiro…” (di manzoniana memoria) o posso esprimere lo stesso concetto declinandolo più brutalmente, e rozzamente, con “Morto fu. E chi se lo cagherà più!” (ignobile anonimo).

Sì perché oggi sembra essere tutto ammesso nella poesia, nell’arte, nelle espressioni e… nella vita quotidiana. Sì, perché oggi tutto fa poesia, arte, romanzo…

Ritornando a noi, è proprio per una necessità narcisistica di scoprire quanto potremmo fare per essere ricordati a lungo e ben oltre la cerchia di amici e parenti, anche sotto il profilo poetico che ci abbandoniamo in braccio al dio Apollo?

Comunque sia c’è una rinata abbondanza di pensieri espressi in “poesia.”

Sia essa online o stampata dal furbo editore di turno. Ma se il mercato lo richiede, e visto che ultimamente c’è la riscoperta di questa espressione artistica, perché di arte bisogna parlare quando si pronuncia la parola “poesia”, allora via con la rima e con il business.

A nessuno in democrazia può essere negato un pensiero espresso liberamente con qualsiasi metodo possiamo esprimerci. È giusto così e deve essere sempre così. Se teniamo alla nostra indipendenza culturale.

La poesia la possiamo declinare come vogliamo perché forse è più libera di una scrittura da romanzo o da racconto.

A mio giudizio, però, bisogna avere ben presente i concetti e il modo di scrittura.

Se non si è ben padroni della tecnica, e per me molto di più rispetto alla costruzione di un romanzo, si rischia di far muovere le labbra del lettore fino ad un sarcastico sorriso.

Ma anche questo, se è questo l’effetto voluto, può valerne la pena per raccontare con una poesia qualsiasi cosa. Che faccia o meno una rima.

CENSURA E CANCEL CULTURE: L’ARTISTA DEVE ESSERE LIBERO O RESPONSABILE?

Censura o cancel culture? L'artista deve essere libero o responsabile? Un'analisi sociologica sul futuro dell'arte tra libertà creativa, etica e impatto sociale.

di Pasquale Di Matteo

L’ARTE TRA LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ, UN DILEMMA ANTICO COME L’UMANITÀ

L’arte è un grido nel vuoto che cerca un’eco. O, almeno, è ciò che dovrebbe essere.

Un atto di ribellione, una preghiera, una ferita aperta, non un abbellimento.

Da Socrate, costretto a bere la cicuta, alle statue romane sbriciolate nella damnatio memoriae; dalla censura religiosa del Medioevo, alla rimozione di film “scomodi” nel Novecento, la storia ha molte pagine che sono cimiteri di voci messe a tacere.

Oggi, quel silenzio ha un nome nuovo: cancel culture.

Un termine che divide, accende dibattiti, spacca il mondo in chi vede giustizia e chi urla alla censura.

Ma sotto la superficie, la domanda è sempre la stessa: l’artista deve rispondere alla società o alla propria coscienza?

L’ARTE COME SPAZIO DI CONFLITTO: QUANDO LA BELLEZZA SFIDA IL POTERE

L’Origine du Monde di Courbet, un corpo femminile senza veli, fu sepolto nel pudore dell’Ottocento. Egon Schiele, con i suoi nudi contorti, finì in cella.

Caravaggio, che dipingeva santi con i piedi sporchi e prostitute come madonne, fu bollato come blasfemo.

L’arte ha sempre sfidato i confini del lecito, trasformando la tela in un campo di battaglia. Ma oggi non sono più solo i tribunali o le chiese a giudicare, ma anche il pubblico, armato di tastiere, hashtag e like, a decidere cosa può esistere.

CANCEL CULTURE: GIUSTIZIA O CENSURA? IL DOPPIO VOLTO DELLA RIVOLUZIONE DIGITALE

Nel 2016, Dana Schutz dipinse Open Casket, ritraendo il volto sfigurato di Emmett Till, adolescente nero ucciso nel 1955.

L’opera fece scalpore: chi la difese, considerandola denuncia, chi la condannò come furto di dolore.

L’artista bianca, si disse, non aveva diritto a quel racconto.

Perché? A oggi non si registrano risposte che denotino la sanità mentale dei formulanti.

La mostra fu presidiata, il dibattito divampò.

Perché la cancel culture è così, un tribunale senza avvocati, dove l’indignazione diventa virale e il verdetto è immediato. È giustizia per chi non ha avuto voce, ma, spesso, diventa una ghigliottina che taglia senza appello.

Chi traccia il confine tra sensibilità e censura? Chi decide cosa può ferire e cosa può guarire?

LIBERTÀ ARTISTICA E RESPONSABILITÀ SOCIALE: UN EQUILIBRIO POSSIBILE?

L’artista vero è un esploratore dell’invisibile.

Deve poter camminare sull’orlo del vulcano, sfidare tabù, mostrare ciò per cui gli altri distolgono lo sguardo.

Tuttavia, in un mondo iperconnesso, ogni opera è un sasso nello stagno che forma increspature che arrivano ovunque.

Ignorare l’impatto sociale di un’opera significa negare il potere stesso dell’arte, relegandola al ruolo marginale di accessorio.

L’artista non è un dio distaccato, ma parte di una rete di sguardi, ferite, memorie, mentre la provocazione fine a se stessa diventa mero rumore.

IL FUTURO DELL’ARTE NELL’ERA DELLA SENSIBILITÀ GLOBALE: DIALOGO O DISTRUZIONE?

La cancel culture non è un mostro da abbattere o un angelo da adorare, ma uno specchio che riflette una società che chiede conto, che non accetta più di essere spettatrice.

Ma quando la condanna sostituisce il dialogo, quando la censura soffoca l’espressione di ogni punto di vista, l’arte muore.

Perché, per far vivere l’arte – e anche una società equa, giusta e democratica – servono ponti, non muri.

Bisogna contestualizzare, non cancellare. Spiegare perché un’opera ferisce e di cosa parla. Non bruciarla. L’arte deve inquietare, ma anche ascoltare. Deve essere un pugno nello stomaco, ma anche una mano tesa.

COSA VOGLIAMO SALVARE? IL DIRITTO DI FERIRE O IL DOVERE DI COMPRENDERE?

Il dilemma non è tra libertà e responsabilità, bensì tra paura e coraggio. Tra una società che cancella ciò che la turba e una che si sporca le mani nel confronto, per creare inclusione, sinergia e maturità.

L’arte non è un poster rassicurante, ma un urlo, una domanda che mette in discussione ogni cosa.

Se la riduciamo a un campo minato, dove ogni passo sbagliato fa esplodere una carriera, in virtù di schemi, preconcetti e barriere imposta da non si sa bene chi e per quale ragione, tradiamo la sua essenza.

L’artista deve essere libero di cadere, di sbagliare, di provocare. Il pubblico deve essere libero di criticare, di contestare, di piangere.

Ma insieme, devono trovare il coraggio di parlarsi. Perché l’arte, in fondo, è l’unico linguaggio che ci ricorda cosa significhi essere umani: imperfetti, contraddittori, pensatori, critici, vivi.

WE WILL HAVE GROWN UP WITHOUT 

Saremmo cresciuti bene anche senza 

Danilo Preto

Falsi miti e falsi profeti proposti per farci  crescere in un mondo dorato e perfetto fin da quando eravamo in culla ci hanno fatto vedere,  ascoltare, mordicchiare succedanei di educatori immaginari.

A volte e, nel migliore dei casi, per fortuna, provvisori.

Opera d'arte di Preda, Danilo Preto.

Sì perché poi, con il passare del tempo e crescendo, quei trastulli infantili sono stati integrati da ingegnosi e intriganti sostituti, suggeritori di comportamenti che avrebbero dovuto invece appartenere al DNA genitoriale e che in alternativa sono stati affidati a veri  giochi di ruolo ma con scopi e significati reali e voluti da terzi, ma a volte sconosciuti o non percepiti (per i più) correttamente.

Tutto questo è diventato così una rappresentazione di ricostruzioni fantasiose di mondi immaginari, irreali e improponibili.

In quest’opera ci viene riproposto con forza il tema del mercantilismo che ci costringe a servirci di stereotipi commercialmente ben proposti, ben suggeriti e ben promossi che ci consentono, o ci illudiamo che sia così, di  rifuggire dal nostro obbligo genitoriale come educatori e non solamente come generatori di nuova specie umana.

Le rappresentazioni, qui affidate a peluche o meglio a quello che resta dopo la loro frantumazione, appaiono come corollario di un’immagine centrale che ci ha accompagnato nel tempo fin da cuccioli.

L’icona commerciale proposta integra, invita ad attirare la nostra attenzione ripensando ad un mondo in cui le riletture debbano proporre una revisione dei nostri comportamenti e delle nostre logiche commerciali.

Vale per il mercantilismo che ci riconduce ad un mondo fatto di moneta e non di attenzioni verso i nostri figli quando, ad esempio, pensiamo che un peluche possa sostituire la nostra indispensabile necessità di andare a costruire un nuovo soggetto vivente capace di affrontare il mondo.

Insegnando loro, fin da piccoli, a non subire e a non affidarsi ai linguaggi dei prodotti esteticamente ricchi, dopo che li abbiamo visti in TV, nei giornalini e spesso a scuola perché i modelli vanno così passivamente replicati assimilando un bailamme indistinto di nozioni e falsi miti.

In quest’opera giocano due scenari: uno legato all’ambiente e uno legato ai modelli sviluppati, digeriti e imposti fino alla età adulta ed oltre.

È preferibile partire subito criticando quello che lasciamo intravedere ai più piccoli sotto forma di carillon, oggetti volanti che volteggiano sopra la loro testa quando i bimbi sono ancora in culla, o lasciati nelle mani dei più grandicelli con le costruzioni da realizzare ad imitazione di mondi spettacolari e perfetti.

Senza nessuna critica od opposizione da parte di chi ce li mette in mano fino ad arrivare all’età adolescenziale quando stampa, social media, televisione influiscono sui nostri comportamenti e che si rifletteranno in noi, quando saremo diventati adolescenti e avremo ormai assimilato mondi presentati come perfetti.

Fidandoci dei genitori che ci hanno educato – poco – e delle relazioni che avremo sviluppato o subito.

Alla fine ci saremo accorti che il consumismo che ci fa acquistare fast fashion, peluche e giocattoli a GoGo e ogni sorta di sovrastruttura elettronica ha bisogno di una regolata.

Per cui, e per fortuna, il riciclo, la produzione circolare, il riutilizzo e la trasformazione per un riuso a 360 gradi è ormai dogma ed è diventata di grande aiuto.

Come nel caso della produzione di quest’opera dove la sfrangiatura dei peluche è stata realizzata da un’azienda che riutilizza  eccedenze di produzione di abbigliamento creando nuovi oggetti ed evitando così che finiscano in discarica o nelle discariche del terzo mondo.

Certo nulla è gratis e anche questo nuovo canale di produzione di ricchezza al di là dei suoi meriti può avere effetti negativi sul modello economico e quindi del lavoro e della redistribuzione della ricchezza.

Non c’è solo da ripensare a singoli comparti produttivi che andrebbero rivisitati e ricomposti.

Credo che dovremmo ripensare ad un nuovo mondo attivo su basi diverse dove forse il pensiero filosofico, sociale, relazionale ed economico debbano essere rivisti alla luce di una critica al mondo nella sua totalità e alle sue distorsioni quotidiane.

Non è facile, non sarà facile, ma se non cominciamo a pensarci seriamente rinunciando a qualcosa di evidentemente inutile se non dannoso, il nostro mondo, insieme al nostro inesistente pensiero critico, ci potrà portare solo ad una immaginaria visione totale negativa e, forse, catastrofica.

Non sarà ovviamente e necessariamente che vada a finire così ma se tutto venisse annientato dovremmo pensare come ricostruire un mondo migliore senza falsi miti ed illusioni infantili.

Perché avremmo potuto crescere bene anche senza un mondo artificiale dove solo per alcuni valgono ricchezza, potere, dominio e annullamento del pensiero non conforme ai loro diktat.

Aiutati anche da chi dell’informazione fa una professione non sempre libera da pregiudizi e da comportamenti dove il pensiero ispiratore dovrebbe essere informato, libero, autonomo ed indipendente.