COME FUNZIONA LA PROPAGANDA? TI UCCIDONO, MA TI FANNO CREDERE CHE È PER IL TUO BENE

Inizierò e concluderò questo intervento con questa frase: il peggior pericolo di un popolo non è chi ha sulla testa, ma ciò che non ha nella testa.

Gli omuncoli della propaganda, quelli che hanno ancora la faccia tosta di definirsi giornalisti, la chiamano vittoria dell’Europa. Perché, in un momento difficile, l’Europa ha trovato 90 miliardi da regalare all’Ucraina a fondo perduto per i prossimi due anni.

Sì, lo so, gli omuncoli dicono che si tratta di un prestito, ma il FMI ha dichiarato che all’Ucraina servirebbero circa 137 miliardi di euro nei prossimi mesi solo per pagare gli stipendi della sua PA e non ha quei soldi.

Perciò, senza gli aiuti dell’Europa, l’Ucraina sarebbe in default. Cosa che dimostra che, senza le armi e i soldi NATO in Ucraina, la guerra sarebbe finita da almeno un paio d’anni. Forse prima.

Ma torniamo ai 90 miliardi. Poiché rubare soldi alla Russia sarebbe stato legalmente devastante per l’Europa, i leader europei hanno scelto una via che viene presentata come “una vittoria dell’UE”.

Il Consiglio ha approvato con la cooperazione rafforzata un prestito senza interessi all’Ucraina di 90 miliardi di euro che verranno raccolti con un indebitamento comune, ma verranno esclusi Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia, cioè paesi che si sono chiamati fuori perché non vogliono prolungare l’agonia della guerra e mandare al martirio altre migliaia di ucraini.

In pratica, al di là di come la vendono gli omuncoli, viene disintegrata la tesi per cui l’indebitamento comune era impossibile, quando si voleva salvare la Grecia o quando si voleva livellare l’economia dei paesi membri.

I 90 miliardi li hanno approvati nonostante il voto contrario dei paesi che si sono tirati fuori per salvare davvero l’Ucraina e i propri cittadini dalla scelleratezza dei leader europei a trazione guerrafondaia.

Secondo: l’Ucraina è un paese che, senza gli aiuti europei, sarebbe già in default. Circa un terzo della popolazione è fuggito all’estero; un’altissima percentuale di giovani è morta in guerra o resa invalida. A oggi, avrà bisogno di più di 500 miliardi per ricostruire solo le infrastrutture essenziali e i 90 miliardi non bastano neppure a pagare gli stipendi della PA nei prossimi due anni.

La probabilità che l’Ucraina restituisca anche solo parte del prestito sono pari a zero. La Russia non pagherà le riparazioni di guerra, a meno che non la perda, cosa possibile nel mondo dei sogni e della propaganda, ma da fantascienza nel mondo reale, perciò questo prestito si convertirà in un sussidio.

Facendo due conti spannometrici, escludendo le tre nazioni che si sono tirate fuori e applicando gli interessi, possiamo desumere che all’Italia questo prestito/sussidio costerà tra i 14 e i 15 miliardi. Ricordando che le ultime due leggi finanziarie sono state intorno a 25 miliardi, potete cogliere la proporzione della somma che dovremmo restituire all’Europa.

Ora, un compagno di stanza di mio padre è stato mandato a casa dall’ospedale perché le terapie intensive sono piene. Dovrebbe subire lo stesso intervento: asportazione di parte dell’intestino per un cancro al colon. Non una cosuccia, insomma.

I medici dicono che le TI dovrebbero essere potenziate, ma non ci sono soldi e si impongono sempre più restrizioni.

Eppure, il governo italiano, invece di seguire le nazioni che hanno detto NO a prolungare la guerra, finanziandola con altri 90 miliardi, ha scelto di seguire le istituzioni europee guerrafondaie, tirando fuori quasi cento miliardi, che saranno coperti da maggiori tasse e da minori servizi per i cittadini italiani, già piegati da anni di de-industrializzazione e da 30 anni di stagnazione all’interno delle regole europee.

Insomma, i pasti gratis per qualcuno si trovano, ma poi li mettono in conto agli italiani.

Ora, lo so: i tifosi degli omuncoli della propaganda diranno che il mio pensiero è populista. Perché per loro il popolo sovrano è un concetto troppo grande, evidentemente.

Loro, al più, possono sventolare bandiere con su scritto “andrà tutto bene” per sentirsi cittadini modello e sovrani. Invece, rendersi conto di avere dei diritti e dei doveri nei confronti delle generazioni future, per loro, è troppo difficile, come si evince.

Beh, mancano pochi giorni a Natale.

Quale migliore occasione per regalare LA FABBRICA DELLA PAURA, un breve saggio che ho scritto per spiegare i meccanismi della Comunicazione moderna, in modo che si comprenda perché nei talk show ci sono sempre le stesse figure, presentate come ospiti, ma che ospiti non sono. Perché si alimentano le propagande e perché il giornalismo è diventato un tifo da stadio e non più un controllo del potere.

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Il peggior pericolo di un popolo non è chi ha sulla testa, ma ciò che non ha nella testa. Cioè le conoscenze necessarie per comprendere cosa accade al di là della propaganda.

LA GEOPOLITICA DEL DEBITO E LA DISTRAZIONE ITALIANA

Come si spiega a un cittadino italiano che aspetta mesi per una tac che i fondi per la difesa sono “urgenti e illimitati”, mentre quelli per la sanità sono “compatibili con i vincoli di bilancio”?

Sarà un problema per la coalizione che tiene in piedi Giorgia Meloni, perché, mentre il mondo osserva la situazione in Ucraina con il fiato sospeso, in attesa di un accordo, tra i corridoi ovattati di Bruxelles si sta consumando un dramma che ridefinisce il concetto di sovranità e persino la priorità sociale.

Un dramma a cui l’Italia ha scelto di partecipare.

Da un lato, l’Europa sceglie la via del debito comune per armare prolungare la guerra; dall’altro, l’Italia arranca in una legge di bilancio che oscilla tra il tragico e il grottesco.

Il risultato è un’asimmetria comunicativa e una perdita di valori che merita un’analisi profonda, senza sconti.

IL PREZZO DELLA PACE E IL PARADOSSO DEGLI ASSET

Il Consiglio Europeo, alla fine, ha partorito il suo “compromesso”: 90 miliardi di euro in prestiti a tasso zero. Una dichiarazione di intenti finanziata attraverso Eurobond, ovvero debito che graverà sulle generazioni a venire.

90 miliardi che l’Ucraina non potrà restituire, visto che è finanziariamente al tappeto e tenuta in vita artificialmente da questi “prestiti”.

La decisione di accantonare l’uso diretto degli asset russi immobilizzati, circa 200 miliardi di dollari, è giunta dopo che alcuni paesi hanno puntato i piedi, manifestando la paura che il sistema finanziario occidentale potesse perdere la sua aura di “porto sicuro”.

Immagine che scricchiola comunque per il solo fatto che von der Leyen e altri abbiano potuto pensare di compiere un furto e farla franca.

Confiscare i beni di una banca centrale straniera, per quanto di un Paese aggressore, significa infrangere un tabù che scatenerebbe un esodo di capitali dai mercati europei, perché nessuno si fiderebbe più dell’Europa.

Tuttavia, il costo della voglia di trovare a tutti i costi soldi per la guerra ricade direttamente sulle spalle dei cittadini europei e dei loro figli.

Per l’Italia, la quota di garanzia su questo debito bellico potrebbe superare i 10 miliardi di euro, una mezza finanziaria.

Perciò, ribadisco: come si spiega a un cittadino italiano che aspetta mesi per una tac che i fondi per la difesa sono “urgenti e illimitati”, mentre quelli per la sanità sono “compatibili con i vincoli di bilancio”?

Anche perché la retorica del “soldi oggi o sangue domani” è un’arma a doppio taglio che rischia di recidere il legame di fiducia tra istituzioni e popolo. Anche perché suona come “condizionatori o pace?”, il cui valore l’abbiamo visto tutti.

L’AMNESIA DEL MINISTRO E IL TEATRO DELLE PENSIONI

Se Bruxelles non spicca per lungimiranza e per scelte responsabili, a Roma la scena si fa anche più confusa.

Abbiamo assistito allo spettacolo surreale di un Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che sembrava ignorare i dettagli di un emendamento cruciale sulle pensioni uscito dal suo stesso dicastero, come se non avesse idea di cosa stia partorendo. Come chi guida a fari spenti.

La stretta sulle pensioni anticipate rimane un nervo scoperto. Nonostante le correzioni di facciata, il 75% dei tagli è ancora lì, a pesare su chi ha costruito il Paese con decenni di contributi. Tagli alle pensioni per finanziare la guerra in Ucraina.

Mentre si discute di sacrifici, il Presidente del Senato organizza concerti di Natale e si blindano le vacanze parlamentari, in una dissonanza cognitiva che alimenta il populismo più becero, ma che ha radici in una gestione della cosa pubblica che ha smarrito la bussola della realtà quotidiana da un pezzo, almeno dal governo Monti in avanti.

VENDERE LA BELLEZZA MENTRE IL FUTURO BRUCIA

In questo scenario, l’evoluzione della campagna “Open to Meraviglia” appare come l’emblema perfetto dell’estetica della distrazione.

La Venere di Botticelli che si trasforma in una modella in carne ed ossa per promuovere i borghi italiani è un’operazione che rasenta il kitsch istituzionale.

Si investono centinaia di migliaia di euro per “estetizzare” il declino, cercando di vendere un’immagine di perfezione a un Paese che fatica a garantire i servizi minimi e non arriva alla terza settimana del mese.

Il turismo è certamente una risorsa, ma non può essere l’oppio dei popoli e non può reggere un sistema che alimenta guerre, quando non ha ospedali adeguati a garantire tempi d’intervento di una nazione civile.

Non si può compensare la perdita di potere d’acquisto e la precarietà lavorativa con un post su Instagram o su X. La bellezza dell’Italia è un patrimonio che va difeso con infrastrutture e dignità sociale, non con un marketing per tinteggiare un muro che cade a pezzi.

VERSO UN ORIZZONTE DI INCERTEZZA

Siamo di fronte a un bivio. L’Europa ha scelto la via bellica attraverso la leva finanziaria, un esperimento senza precedenti che potrebbe portarci verso un’integrazione forzata o a un collasso del consenso.

L’Italia, dal canto suo, deve decidere se essere un attore consapevole di questo processo o un semplice spettatore che subisce le decisioni altrui, mentre si perde in beghe condominiali sulla riforma degli amministratori.

Zelensky avverte che senza sostegno il Paese non sopravvivrà. L’Occidente risponde ipotecando il proprio futuro economico.

Ma quale società stiamo difendendo?

Una società che trova miliardi per i cannoni, ma non i milioni per i medici, che decanta la propria “meraviglia” virtuale mentre taglia il futuro reale dei suoi pensionati e dei suoi giovani, è una società che sta già perdendo la sua battaglia più importante, senza che se ne renda conto.

Stiamo pagando il prezzo di un’assenza di visione strategica con una moneta fatta di debito e distrazione.

E il conto, purtroppo, non potrà essere saldato con un semplice click su un social media.

Adesso, più che mai, servirebbe una “direzione contraria” per rimettere al centro l’uomo, il cittadino, e i suoi diritti, così come servono politici che vogliano salvare gli ucraini e non solo i dividendi delle fabbriche di armi.

Serve una direzione adulta, matura e onesta, da grandi statisti, una visione che non abbia bisogno di filtri fotografici e retorica per essere accettata.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

TRIONFO DELL’ARTE A VILLA TEODOLINDA. EMOZIONI E TALENTO AL PRIMO ART CONTEST 2025 CURATO DA MURIEL VILLA E PHAOS

di Redazione TZ.

VILLA D’ADDA (BG) – Ci sono luoghi che sembrano attendere l’arte per rivelare la loro vera essenza, e Villa Teodolinda è indubbiamente uno di questi.

In un pomeriggio di dicembre, sospeso tra l’emozione della competizione e la cultura offerta dai diversi linguaggi stilistici in esposizione, si è svolta la premiazione del concorso artistico organizzato dall’Associazione PHAOS in stretta sinergia con l’artista e curatrice Muriel Villa.

SINERGIE E TERRITORIO: UNA SCOMMESSA VINTA

L’atmosfera nella sala era elettrica, carica di quella tensione positiva che precede i grandi eventi. Soprattutto quando si attende un verdetto.

A fare gli onori di casa è stato Danilo Merelli, presidente dell’Associazione PHAOS, che ha voluto sottolineare l’importanza della collaborazione tra enti privati e istituzioni pubbliche.

Un ringraziamento sentito è andato alla proprietà della villa per l’ospitalità e, in particolare, al Comune di Villa D’Adda, rappresentato dall’assessore Edoardo Siniscalchi.

Siniscalchi, figura chiave non solo come rappresentante istituzionale, ma anche come membro della giuria tecnica in virtù del suo dottorato in conservazione dei beni culturali, ha incarnato in maniera perfetta il legame tra amministrazione e valorizzazione estetica.

L’evento, reso possibile anche grazie al supporto di partner locali come Mia Lab, Paolo Rossi, Stefano Ferrari, Fabio Durani di Stil Posa e Forniture Edili di Villa D’Adda, ha dimostrato come la provincia possa trasformarsi in un palcoscenico d’eccellenza.

LA LEZIONE DI PASQUALE DI MATTEO: L’ARTE OLTRE L’INVIDIA

Il momento più intenso, quello della premiazione, è stato preceduto dalle parole del critico d’arte Pasquale Di Matteo.

Il suo intervento non si è limitato ai convenevoli di rito, ma è stato un vero e proprio manifesto filosofico, un pugno nello stomaco al conformismo e una carezza all’orgoglio degli artisti presenti, spronati a essere Artisti con la A maiuscola, cioè capaci di sviscerare il presente.

Di Matteo ha tracciato un parallelo potente e doloroso tra l’Italia e il Giappone, Paese con cui collabora da anni. Se nel Sol Levante l’artista è venerato come una figura quasi sacra, custode di un sapere superiore indipendentemente dal successo commerciale, in Italia si combatte ancora contro lo svilimento del mestiere creativo.

«L’artista ci mette l’ingegno, le ore di studio, le notti insonni», ha ricordato il critico, ammonendo contro la domanda più volgare che si possa porre a un pittore: quanto tempo ci hai messo?»

Il discorso ha toccato vette di profonda introspezione quando il critico ha affrontato il tema della «bestia dell’invidia», vero cancro del sistema artistico nostrano.

L’invito rivolto alla platea è stato chiaro, quasi rivoluzionario nella sua semplicità: essere funzionali alla società, cercare l’armonia (“Wa” nella cultura giapponese) e smettere di guardare il collega come un nemico da abbattere per sopraffarlo.

Citando geni incompresi come Van Gogh, Di Matteo ha esortato i creativi a cercare di essere “importanti” per la storia e per il messaggio che portano, piuttosto che ossessionati dall’essere ricchi o famosi.

Un monito a lasciare un segno, un’eredità visiva che vada oltre la propria vita.

I VINCITORI E LE MENZIONI: IL PODIO DEL TALENTO

La giuria, composta tra gli altri anche da Marco Locatelli (Presidente dell’Associazione Ponte San Pietro – Fiume d’Arte) e dalla stessa Muriel Villa, l’anima propulsiva dell’evento per la sua instancabile dedizione, ha avuto l’arduo compito di selezionare i vincitori tra opere di stili e linguaggi eterogenei.

Il momento della premiazione è stato un susseguirsi di applausi scroscianti e qualche momento di genuina confusione gioiosa per le foto di rito, che ha reso tutto estremamente umano e vero.

Ecco la classifica finale che ha decretato i vincitori di questa prima edizione del concorso:

PIER GIORGIO NORIS – Primo Classificato.

ADRIANO CANTON – Secondo Classificato.

ADELIO BONACINA – Terzo Classificato.

FRANCESCO AVVISATI – Quarto Classificato.

DAVIDE FERRARI – Quinto Classificato.

Non sono mancate le menzioni d’onore, assegnate ad artisti che si sono distinti per la qualità della loro ricerca: Luca Bonadeo, Elio Roberti e Katia Villa.

Un riconoscimento speciale, la Menzione Comune di Villa D’Adda “Premio Teodolinda” per l’Art Contest 2025, è stato conferito a Danielle Dorrington, a suggellare un legame ancora più stretto con il territorio ospitante.

UN BRINDISI AL FUTURO

Tra scatti fotografici rubati, strette di mano vigorose e sorrisi che tradivano la tensione sciolta, la serata si è conclusa con un aperitivo conviviale e lo scambio degli auguri natalizi.

Quello che resta, a luci spente, non è solo la lista dei vincitori, ma la sensazione che a Villa Teodolinda sia stato piantato un seme importante.

Muriel Villa e l’associazione PHAOS non hanno solo organizzato un concorso, ma sono riusciti a dare vita a una comunità. E, come ha ricordato Di Matteo nel suo intervento, l’essere artista è proprio questo: avere la forza di dire cose importanti attraverso un’opera, creando connessioni che l’invidia non potrà mai spezzare.

L’appuntamento è già fissato, idealmente, al prossimo anno. Perché l’arte, quella vera, non si ferma mai.

Redazione TZ

IL GRANDE RISVEGLIO

Il mondo guarda alla Silicon Valley per l’innovazione e a Wall Street per la direzione del vento, eppure, se volgiamo lo sguardo a Oriente, lo puntiamo verso il tragitto che faranno ingenti capitali nel prossimo futuro.

Verso un Paese che, per trent’anni, ha vissuto un lungo periodo di deflazione e stagnazione. Quel Giappone che si è svegliato. E non è un risveglio gentile, ma un cambio di paradigma.

Perché quanto che sta accadendo a Tokyo non è una semplice “correzione tecnica”, bensì la fine di un’era finanziaria.

LA MORTE DELLA DEFLAZIONE E LA PSICOLOGIA DEL MERCATO

Per quindici anni, dal 1998 al 2013, il Giappone è stato prigioniero della certezza che domani i prezzi sarebbero stati più bassi di oggi, condizione che blocca i consumi e uccide l’innovazione.

Oggi il quadro si è capovolto.

L’inflazione “sottostante” viaggia al 3%. Le aziende, storicamente riluttanti, aumentano i salari. Non è un caso.

La Banca del Giappone (BoJ) ha orchestrato un capolavoro di ingegneria finanziaria: ha lasciato correre l’inflazione post-Covid invece di soffocarla subito come hanno fatto Fed e BCE, perché aveva bisogno di questo shock termico per bruciare le vecchie aspettative deflazionistiche.

Ora, il governatore Kazuo Ueda si prepara a normalizzare la situazione. Il tasso di interesse, inchiodato a zero o sottozero per un’eternità, si sta muovendo verso lo 0,75% e oltre. L’obiettivo è un tasso “neutrale” dell’1% entro l’estate del 2026.

Sembra poco, in un mondo abituato ai tassi statunitensi. Ma per il Giappone, passare da tassi negativi all’1% è come passare dalla bicicletta a un Frecciarossa.

Significa che il denaro ha di nuovo un costo. E quindi, un valore.

IL PARADOSSO DEL DEBITO: PERCHÉ IL 250% È UN NUMERO BUGIARDO

La narrativa mainstream vi dirà di scappare dal Giappone perché ha il debito pubblico più alto del mondo industrializzato: il 250% del PIL e oltre.

È una lettura superficiale. Perché quel debito è quasi interamente interno. Inoltre, il debito “netto”, ovvero quello che rimane dopo aver sottratto la liquidità e gli asset finanziari detenuti dal governo e dai fondi pensione, crolla intorno al 130%. Siamo ai livelli dell’Italia, non lontani dagli Stati Uniti.

E, a differenza dell’Italia, il Giappone non ha sprecato il suo debito, ma lo ha usato per comprare asset che rendono più di quanto costi il debito stesso. È una leva finanziaria su scala nazionale. E con quasi metà dei titoli di stato in pancia alla stessa BoJ, e gran parte del debito detenuto dagli stessi giapponesi, il rischio di un default tecnico è, in termini pratici, inesistente.

Il mercato obbligazionario si sta adeguando al successo della reflazione, non al panico del debito.

LO YEN: L’ASSET PIÙ SOTTOVALUTATO DEL PIANETA

Goldman Sachs stima che lo yen sia sottovalutato del 30% circa.

Dall’era Abe, lo yen ha perso oltre il 40% del suo valore. È stato il carburante dell’export, certo. Ma ora è diventato un problema politico e sociale a causa dell’inflazione importata. Con il differenziale dei tassi che si restringe, la Fed taglia, la BoJ alza e la gravità farà il suo corso.

Lo yen è una molla compressa pronta a scattare, ma un apprezzamento della valuta non ucciderà l’economia giapponese; cambierà solo i nomi dei vincitori in borsa. Le multinazionali esportatrici soffriranno nel breve termine, ma il potere d’acquisto interno esploderà.

LA PARTITA A SCACCHI DI SANAE TAKAICHI E KAZUO UEDA

Siamo di fronte a una dinamica affascinante tra politica fiscale e monetaria. Da un lato, abbiamo la prospettiva di una politica fiscale espansiva sotto la leadership del Primo Ministro Sanae Takaichi, pronta a iniettare liquidità, aumentando il deficit “temporaneamente” per sostenere la crescita. Dall’altro, la BoJ che toglie il piede dall’acceleratore monetario.

Sembra una contraddizione, ma non lo è.

La politica monetaria si ritira per evitare bolle speculative, mentre la politica fiscale interviene per garantire che la transizione non faccia deragliare l’economia reale. È un equilibrio precario, certo. Ma se eseguito correttamente, porterebbe il Giappone a una “normalità” che non vede dagli anni ‘80.

COSA SIGNIFICA PER LE IMPRESE OCCIDENTALI

Banche e assicurazioni giapponesi sono i veri beneficiari del rialzo dei tassi.

Per anni, hanno prestato a margine zero. Ora, i loro margini di interesse netti sono destinati a espandersi drasticamente. Ed è lì che si trova il valore.

In secondo luogo, il rialzo dei rendimenti a lungo termine, in particolare sui 30 anni, creerà scosse. Non è il momento di essere lunghi su bond giapponesi a lunga scadenza, senza copertura.

Infine, c’è un rischio per le economie occidentali che pochi calcolano. I fondi pensione giapponesi detengono trilioni in asset esteri (USA, Europa).

Se i rendimenti in patria diventeranno attraenti e lo yen si rafforzerà, potremmo assistere a un rimpatrio massiccio di capitali, una situazione che drenerebbe liquidità dai mercati occidentali proprio mentre ne hanno più bisogno. Situazione tutt’altro che rosea per Europa e USA.

IL CODICE GIAPPONE

Mentre l’Occidente – in particolare l’Europa – combatte con mancanza di soldi e incertezze politiche, il Giappone applica al Paese una ristrutturazione aziendale, vedendo la fine della deflazione e valutazioni ancora ragionevoli.

Il Giappone non dorme più. Si sta stiracchiando. E quando un’economia da trilioni di dollari cambia direzione, la terra trama in tutto il mondo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’ECLISSI DELLA RAGIONE E LA SCONFITTA DELLA DEMOCRAZIA

Bruxelles non è più la luce di un sogno, ma è diventata la sala operatoria dove si sta praticando una lobotomia di massa su mezzo miliardo di persone.

Forse l’immagine è un po’ forte, ma rende bene l’idea di cosa stia accadendo.

Mentre camminiamo sonnambuli verso il baratro, convinti di marciare verso la vittoria contro una superpotenza atomica, l’architettura democratica che abbiamo impiegato settant’anni a costruire viene smantellata. Pezzo dopo pezzo. Silenziosamente.

LA NUOVA INQUISIZIONE E LA MORTE CIVILE

Non servono più i gulag e il filo spinato è obsoleto, nell’era digitale.

Oggi la dissidenza si spegne con un click bancario.

Già avevamo avuto un’avvisaglia con i casi Baldan e Nunziati. Al primo avevano chiuso tutti i conti per un libro sulle magagne di Ursula von der Leyen; il secondo è stato licenziato perché, da giornalista, ha posto una domanda scomoda. (Trovate l’articolo su questi casi in calce).

Perciò, il caso di Jacques Baud non è affatto un incidente di percorso, ma è il prototipo della nuova giustizia amministrativa europea. Un ex colonnello, un uomo dei servizi, un tecnico che ha servito la NATO e l’ONU, si trova improvvisamente trasformato in un fantasma.

Non per aver venduto segreti. Non per aver tradito. Ma per aver osato articolare un pensiero complesso in un mondo che accetta solo slogan binari.

Kaja Kallas, sacerdotessa di questa nuova religione della follia contro il dissenso, ha firmato una condanna che non prevede appello, né tribunale, né difesa.

Senza nessun potere giuridico, come una qualunque dittatura che l’Europa dice di voler combattere, la stessa Europa ha congelato la vita di un uomo sulla base di un “reato d’opinione” retroattivo.

L’accusa di essere “portavoce di teorie complottiste”, come quella, ormai documentata storicamente, delle responsabilità occidentali nell’escalation ucraina, è la versione postmoderna dell’eresia.

Baud è stato cancellato finanziariamente e socialmente non perché le sue analisi fossero false, ma perché erano intollerabili. Perché la verità, quando diverge dalla narrazione di guerra, diventa un atto di sabotaggio per il pensiero dominante. Proprio come accade in qualsiasi dittatura.

E il sabotatore va annientato. Questa è la morte del Diritto ed è la morte civile: l’esilio stando fermi, la cancellazione dell’identità giuridica ed economica del cittadino colpevole di non applaudire al momento giusto. O, peggio, di andare contro al pensiero di chi comanda.

IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI E LA RESA DELL’INTELLETTO

Ma il virus del pensiero unico non colpisce solo i singoli, ma infetta le istituzioni culturali.

Quello che sta accadendo intorno a Limes e alla figura di Lucio Caracciolo è, se possibile, ancora più inquietante. Non siamo di fronte a una semplice divergenza editoriale, ma ad una “serrata dei ranghi” di stampo militare. Quasi di stampo fascista.

Le dimissioni coordinate di generali e accademici dalla rivista non sono un atto di protesta, ma un chiaro segnale di allineamento. È il sistema che espelle il corpo estraneo.

Caracciolo, colpevole di esercitare il dubbio metodico e l’analisi geopolitica invece della propaganda, è diventato un bersaglio. In un tempo di guerra, la sfumatura è tradimento.

Chiunque osi dire “il Re è nudo”, o anche solo “il Re è vestito male”, viene automaticamente etichettato come agente del nemico.

Addirittura, si arriva a sostenere che sia il momento per scegliere da che parte stare, incuranti del fatto che chi fa analisi serie e oneste non può che stare dalla parte della Storia e dei fatti.

Invece, oggi prevale il tifo sulla professionalità e chi è professionale è un difetto sociale perché non crede ciecamente alla religione del pensiero dominante.

Hanno trasformato la complessità del reale in una favola infantile di Buoni contro Cattivi, per cui il dubbio è un peccato mortale. La società aperta si sta chiudendo a riccio, soffocando nella propria camera dell’eco, terrorizzata dall’idea che la realtà possa essere diversa dai comunicati stampa di Kiev o di Bruxelles.

IL FURTO DEL FUTURO: L’ECONOMIA DI GUERRA NELLE TASCHE DEGLI ITALIANI

Mentre l’intelletto viene anestetizzato, le tasche vengono svuotate. La narrazione eroica del riarmo europeo, il fantomatico piano “Readiness 2030”, non è un’astrazione, ma una mano che entra nel vostro portafoglio. Ora.

La Legge di Bilancio italiana è lo specchio di questa follia. Un governo che si dichiara solido, forte di un mandato popolare, si muove come un ladro nella notte, approvando manovre cruciali a colpi di fiducia, bypassando quel Parlamento che dovrebbe essere il tempio della sovranità.

E tra le pieghe di questi decreti troviamo il saccheggio del risparmio privato per finanziare il debito pubblico e, di riflesso, l’industria bellica.

Il meccanismo del silenzio-assenso sul TFR è una forma di coscrizione finanziaria. Se non urli “no” entro sessanta giorni, i soldi della tua liquidazione, il sudore di una vita di lavoro, verranno spostati dalle casse aziendali ai fondi d’investimento, per iniettare liquidità in un sistema che brucia risorse in armamenti.

Ci promettono tagli del cuneo fiscale, sventolano bandiere di vittoria per tre euro netti al mese in più in busta paga, mentre dall’altra parte ci spostano l’età pensionabile di anni, tradendo ogni promessa elettorale sulla Legge Fornero.

LO STATO DI DIRITTO COME ARMA GEOPOLITICA

L’aberrazione finale si consuma sul piano giuridico internazionale. La bramosia di mettere le mani sugli asset russi congelati, quei famosi 200 e passa miliardi, segna la fine della credibilità finanziaria dell’Occidente.

La Kallas e i tecnocrati di Bruxelles stanno cercando di riscrivere il concetto di proprietà privata e di immunità sovrana. Vogliono trasformare la “culla del diritto” nel suo sepolcro.

Non importa che il Belgio tremi per le conseguenze sul sistema Euroclear; non importa che sia illegale secondo ogni norma vigente. Non importa nemmeno che nessuno sano di mente investirà più in Europa, temendo espropri a ogni alito di vento.

La legge non è più un limite per i vertici del potere europeo, ma uno strumento per esercitare quel potere.

Se non c’è una norma per rubare quei soldi, ne scriveranno una nuova domani mattina. È la legalizzazione del saccheggio. E il messaggio che mandiamo al resto del mondo, al Sud Globale, alla Cina, all’India, è devastante: i vostri soldi sono sicuri da noi solo finché obbedite alla nostra politica estera.

Il che significa che quei paesi scapperanno a gambe levate e non investiranno più.

L’ULTIMO RESPIRO DELLA RAGIONE

Siamo in guerra. Non ce lo dicono apertamente, ma lo siamo.

Siamo in guerra contro la Russia, certo, ma soprattutto siamo in guerra contro noi stessi, contro la nostra storia, contro la logica.

L’Europa dei popoli è in guerra contro l’Europa dei tecnocrati.

La Russia non accetterà mai un “cessate il fuoco” farsa che serva solo a riarmare l’Ucraina, proprio come scrivevamo nel 2022; Mosca vuole trattati, garanzie, realtà.

L’Europa, invece, vive nell’allucinazione.

L’unica, tragica speranza che ci rimane è il fallimento. Il paradosso supremo è che potremmo essere salvati solo dalla nostra stessa inettitudine. Forse, solo il collasso economico, l’incapacità fisica di trovare i miliardi necessari per alimentare questa follia bellica, potrà fermare la locomotiva europea prima che deragli definitivamente e mandi milioni di giovani europei a morire al fronte.

Siamo arrivati a questo: sperare nella bancarotta per evitare l’apocalisse, per colpa della follia di omuncoli che qualcuno ha l’ardire di definire leaders.

Ci stanno vendendo la povertà come virtù civica e la censura come protezione. Hanno creato un mostro burocratico che, nel tentativo di uccidere Putin, sta divorando il futuro dei giovani europei.

E mentre il sipario cala sulla ragione, l’unica cosa che si sente è il silenzio assordante di chi avrebbe dovuto gridare, invece ha creduto alle quattro tipologie di cancro di Putin, ai microchip smontati dalle lavastoviglie, ai muli, alle pale ottocentesche, alle sanzioni dirompenti di cui parlava Draghi a settembre 2022, quelle che nei mesi successivi avrebbero messo la Russia al tappeto.

Insomma, follia di chi comanda e ignoranza di chi ha fagocitato ogni panzana, pensando di respirare il profumo di grandi statisti.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

L’IGNORANZA È IL PEGGIOR NEMICO DELL’UCRAINA E DEGLI UCRAINI

Ovviamente, non è un’offesa per nessuno. Si tratta di Ignoro, as, avi, atum, are, verbo latino che significa ignorare, non conoscere, “essere all’oscuro di…”.

Non è l’ignoranza dell’Ucraina, ma di quella pletora di eroi “di guerra”, dal divano e dalle tastiere dei loro pc, pronti a gridare ancora “fino all’ultimo ucraino”. Sono ancora tanti. E sono il nemico più criminale, sanguinario e pericoloso degli ucraini.

Sono convinto che se un essere umano degli anni Sessanta riuscisse a viaggiare nel futuro, arrivando fino a noi, si domanderebbe cosa sia accaduto in pochi decenni per sovvertire l’ordine della normalità.

Un tempo, infatti, i dibattiti erano animati da luminari del pensiero, tra cui Habermas, Marcuse, Foucault, Eco, Pasolini, solo per citarne alcuni.

Oggi, invece, vediamo storici e filosofi sbeffeggiati da politici di professione e giornalisti che ci hanno raccontato di pale ottocentesche, di sanzioni dirompenti, di muli, di microchip smontati dalle lavastoviglie, e tutta una serie di sciocchezze antistoriche, come fantomatiche “paci giuste” e guerre a oltranza, fino all’ultimo ucraino.

Così, da un lato abbiamo tali fenomeni, pronti a spiegarci che Putin è un dittatore che, una mattina di febbraio del 2022, non sapendo come tirare a sera, ha deciso di aggredire l’Ucraina, perciò dobbiamo fermarlo fino all’ultimo ucraino e, se non bastasse, fino all’ultimo europeo.

Gli stessi che, fino al 2021, se ricordavi che lo stesso Putin ha sulla coscienza la morte di diversi giornalisti a lui ostili, ti andavano contro, sostenendo che l’inquilino del Cremlino fosse quanto di meglio fosse capitato all’Europa, mentre c’era la fila di giornalisti e politici di ogni schieramento per scattare un selfie con lui.

Dall’altro lato, abbiamo luminari del pensiero, tra cui: Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Angelo D’Orsi, Massimo Cacciari, Piergiorgio Odifreddi, cioè filosofi, storici e matematici di fama, docenti universitari, che vanno oltre la superficialità del primo gruppo, perché la storia la conoscono e con loro le sciocchezze in stile pale e microchip non funzionano.

Eppure, l’umano giunto dal passato si domanderebbe come sia possibile credere alle scemenze di chi propone di resistere a oltranza “al dittatore Putin”, senza una sola alternativa a “morire fino all’ultimo uomo”.

Si domanderebbe come sia possibile che la società possa ancora dare credito a chi dava Mosca per spacciata entro Natale 2022 in virtù delle nostre sanzioni dagli effetti dirompenti.

Così, vediamo esperti della trappola del fuorigioco che si sono rivalutati grandi statisti, che poi scrivono che la guerra in Ucraina è scoppiata nel 2022, fornendo più di qualche dubbio sulle competenze acquisite con la loro laurea, visto che non conoscono neppure l’ABC della Storia Contemporanea.

Perché che in Ucraina ci siano un aggressore e un aggredito e che la guerra sia scoppiata nel 2022 è una panzana che puoi “accettare” da chi non apre un libro di storia dai tempi delle superiori, ma è imbarazzante se espressa da chi ha un titolo più elevato. Figuriamoci da chi ha l’ardire di definirsi giornalista.

E c’è un dato di fondo che distingue il gruppo della cultura dalla pletora di ignoranti: gli ucraini. I primi cercano di salvarli; per i secondi, invece, sono solo numeri e fiches da puntare.

Poi scavi nel passato di questo gruppo di eroi pronti a mandare ancora gli ucraini al fronte (non certo i propri figli, ovviamente) e li vedi dare dell’antisemita a chi voleva fermare Netanyahu. Gli stessi che cercano di farci la morale contro Putin e i suoi crimini, hanno il poster in camera del sanguinario di Tel Aviv.

Due pesi e due misure, perché, per l’ignorante, il mondo è come la PlayStation e tutto cambia in funzione del personaggio che si interpreta. Non si muore alla prima vita e, quand’anche le vite finissero, puoi sempre riavviare il gioco perché è tutto una finzione.

E l’unica cosa che resta uguale è il valore di chi muore, che, per loro, è pari a zero.

Perché degli ucraini e del loro volere non interessa a nessuno. Non interessa a nessuno dei milioni di ucraini che sono scappati perché la guerra non la vogliono. Non interessa a nessuno delle madri e delle mogli che lottano contro i reclutatori, perché non portino via figli e mariti. Non interessa a nessuno degli ucraini che vengono mandati a morire al fronte per combattere una guerra già persa.

In fondo, siamo tutt’altro che evoluti rispetto alla società della metà del secolo scorso. Il tempo ci ha catapultato in una società che deride gli uomini di cultura come Barbero, Orifreddi e Candora, e glorifica gli eroi del “fino all’ultimo ucraino”. Una società meschina, una società che tifa perché pensare costa fatica, coraggio, e, soprattutto, una cultura che non ha.

LA PACE È SOLO IL PRETESTO PER LA GUERRA PERENNE?

Stiamo assistendo alla più grande operazione di dissonanza cognitiva di massa dal secondo dopoguerra a oggi. E questo i più lo hanno capito.

Se osserviamo il palcoscenico della diplomazia internazionale lontani dalla retorica mainstream, notiamo una discrepanza terrificante, quasi psichiatrica, tra ciò che viene detto davanti alle telecamere sorridenti di Berlino e ciò che viene pianificato nei corridoi di Bruxelles e Washington.

È un teatro dell’assurdo dove la parola “pace” viene utilizzata come lubrificante semantico per introdurre il meccanismo irreversibile della guerra totale.

LA SEMANTICA DELLA DISSIMULAZIONE

Da un lato abbiamo i titoli rassicuranti, l’ottimismo di facciata che dipinge accordi imminenti e strette di mano risolutive. Dall’altro, c’è la cruda realtà dei documenti tecnici e delle dichiarazioni militari, per cui sembra che non si stia negoziando la fine del conflitto, ma intervenendo per la sua cronicizzazione.

Le proposte sul tavolo, quei famosi punti sottoscritti dalle cancellerie europee, non sono rami d’ulivo, ma micce già accese. Perché pretendere il dispiegamento di una forza multinazionale a guida europea dentro i confini ucraini e richiedere il mantenimento di un esercito di 800.000 uomini in tempo di pace – finanziato, si badi bene, dai contribuenti europei – non è certo diplomazia, ma un ultimatum travestito.

La Russia, piaccia o meno, ha tracciato delle linee rosse indelebili sulla neutralità di Kiev, e ignorarle, proponendo garanzie di sicurezza che equivalgono a un Articolo 5 di fatto, significa sapere perfettamente che Mosca non potrà mai accettare. E allora perché proporlo?

Semplice. Perché il rifiuto russo servirà a legittimare l’escalation successiva. È una trappola logica: ti chiedo l’impossibile per poterti accusare di non volere il possibile.

L’ECONOMIA DI GUERRA COME NUOVO WELFARE

La narrazione secondo cui la ricostruzione e il riarmo saranno pagati con i beni russi congelati è una favola per l’elettorato distratto; la realtà giuridica e finanziaria è ben diversa e molto più complessa e il conto, salatissimo, verrà servito sulle tavole degli europei. Altro che asset russi!

Stiamo parlando di una pressione fiscale destinata a esplodere per finanziare un complesso militare-industriale che, attraverso voci come quelle di Leonardo, ci vende la paura per farci acquistare missili.

Quando si sente dire che “da Mosca a Roma un missile arriva in tre minuti”, non stiamo ascoltando un’analisi strategica imparziale, ma una strategia basata sul terrore.

La sicurezza diventa un prodotto di lusso, e la valuta con cui si paga è il welfare state, smantellato pezzo per pezzo per “adottare una mentalità di guerra”, come suggeriscono con agghiacciante serenità i vertici olandesi e tedeschi.

LA SOCIOLOGIA DELLA PAURA: PREPARARE LE MENTI AL SACRIFICIO

Ma come si convince una popolazione che ha vissuto ottant’anni di pace e prosperità relativa ad accettare che i propri figli debbano “tornare a farsi male”, come auspicano le alte cariche militari francesi?

Si lavora sull’immaginario collettivo e si normalizza l’impensabile.

Il Ponte sullo Stretto che diventa infrastruttura di evacuazione militare non è solo una sceneggiata, ma anche un segnale preciso che punta a militarizzare lo spazio civile, rendere la guerra una possibilità tangibile nella quotidianità del cittadino. Si dice alla gente: “preparatevi a soffrire come i vostri nonni”.

È una regressione antropologica imposta dall’alto, dove la stupidità e la follia sono i nuovi valori, mentre lo spirito critico è roba da ingenui.

La fretta, questa isteria collettiva che ha contagiato le leadership occidentali, ha un nome e un cognome: Donald Trump.

La sola possibilità che dall’altra parte dell’oceano qualcuno decida di “far scoppiare la pace”, chiudendo i rubinetti del supporto incondizionato, ha gettato nel panico l’establishment europeo.

Devono rendere il conflitto strutturale, irreversibile, blindato da accordi giuridici vincolanti. Devono cementare la guerra nelle fondamenta dell’Europa prima che l’opinione pubblica si svegli dal torpore.

IL FALLIMENTO DELLA NARRAZIONE E LA SVOLTA AUTORITARIA

C’è però un problema in questo ingranaggio perfetto: la credibilità.

La gente inizia a notare le crepe. Se Putin afferma, con un pragmatismo che gela il sangue, di non avere alcun interesse a invadere l’Europa, ma anche di essere pronto a una risposta non chirurgica in caso di attacco, (perciò, potenzialmente atomica), e dall’altra parte i nostri leader evocano scenari apocalittici per giustificare censure e leggi liberticide, il cittadino medio – dotato di buon senso – inizia a farsi delle domande.

Il crollo del consenso verso i governi europei non è frutto della propaganda russa o di fantomatici hacker che manipolano le menti deboli, ma il risultato diretto della schizofrenia dei nostri rappresentanti.

Non puoi predicare i valori democratici mentre prepari scudi informatici per silenziare il dissenso. Non puoi erigerti a difensore della libertà mentre costruisci un apparato di censura per impedire che la “campana russa” venga anche solo ascoltata per comparazione.

Se il tuo prodotto, la tua visione del mondo, la tua politica, è valido, non hai bisogno di eliminare la concorrenza narrativa con la forza. Se hai bisogno di bavagli, retate digitali e filtri social per mantenere il consenso, significa che hai già perso la battaglia delle idee.

L’Occidente non ha bisogno di più armi o di più guerra ibrida. Ha bisogno di guardarsi allo specchio e chiedersi se la democrazia che pretende di esportare a colpi di cannone esista ancora dentro i propri confini.

Al momento, la risposta sembra essere un inquietante no.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA GRANDE LIQUIDAZIONE DI KIEV E IL SILENZIO DELLE CASSE EUROPEE

C’è un’ironia crudele, quasi teatrale, nel fatto che l’ultimo atto della tragedia ucraina vada in scena tra i velluti dell’Hotel Adlon di Berlino.

Mentre, fuori, la Polonia scava trincee al confine ucraino e l’Europa conta gli spiccioli rimasti in cassa, dentro, sotto i lampadari di cristallo che hanno visto passare imperatori e dittatori, Volodymyr Zelensky sta cercando di vendere fumo a chi ha fatto fortuna nel mercato immobiliare di New York.

La diplomazia, si sa, è l’arte di dire “è simpatico” a qualcuno che vorresti asfaltare. Ma qui è finito persino il carburante per accendere il rullo compressore.

Siamo onesti. Quello che sta accadendo a Berlino non è un negoziato di pace tra pari, ma una procedura fallimentare gestita da curatori internazionali sempre più impazienti e con la testa già proiettata su altri fronti.

L’ECONOMIA DELLA DISPERAZIONE E LA SOLIDARIETÀ IN BANCAROTTA

Per capire la vera natura di questo vertice, bisogna guardare lontano dai riflettori della Porta di Brandeburgo. Bisogna guardare ai bilanci statali.

L’Europa, che per due anni ha recitato la parte del benefattore inesauribile, ha scoperto improvvisamente che la virtù ha un prezzo che non può più permettersi. Le casse sono vuote. E no, non è una metafora.

La Repubblica Ceca, con il pragmatismo brutale del premier Babis, ha chiuso i rubinetti: ogni corona serve ai cittadini cechi, non alle guerre altrui. La Danimarca dimezza gli aiuti futuri. La Svezia, per mantenere le promesse a Kiev, deve tagliare fondi ad altri disperati del globo.

È il gioco delle tre carte applicato alla geopolitica: spostiamo la miseria da un conto all’altro sperando che nessuno noti il dramma.

La retorica della “vittoria finale” è sempre più grottesca a chi non vive di illusioni.

LA MAPPA NON È IL TERRITORIO: IL BLUFF DI KUPYANSK

Si sa, quando non hai soldi e perdi terreno, devi fabbricare una realtà alternativa. L’annuncio della “riconquista” o “liberazione” di Kupyansk da parte di Kiev, smentita nei fatti e confusa nelle dichiarazioni tra Zelensky e il suo stesso generale Syrskyi, è un classico esempio di framing disperato.

Si annuncia una vittoria inesistente per avere una fiche da puntare sul tavolo verde dell’Adlon.

Ma Steve Witkoff e Jared Kushner, gli inviati di Trump, non sono burocrati di Bruxelles che si commuovono per un PowerPoint ben fatto. Loro guardano le mappe reali sul campo di battaglia. E le mappe reali dicono che il Donbass sta scivolando via, villaggio dopo villaggio, con roccaforti come Pokrovsk e Myrnohrad che attendono il loro turno nel tritacarne.

IL PARADOSSO TEDESCO: NEGOZIARE LA PACE, SCAVARE TRINCEE

C’è un dettaglio che smaschera l’intera narrazione occidentale, un dettaglio che vale più di mille comunicati stampa. Mentre Friedrich Merz fa gli onori di casa parlando di “pace duratura”, l’Europa invia truppe al confine orientale della Polonia per erigere barriere anticarro e stendere filo spinato.

Fermatevi a riflettere.

Se la Russia fosse davvero al collasso e il suo esercito prossimo a crollare per le controffensive ucraine, prossimo al collasso economico e militare che ci hanno raccontato per mesi, perché la NATO sta costruendo una Linea Maginot e continua a pianificare miliardi per il riarmo, mentre Rutte dice che dobbiamo prepararci a una guerra come quelle vissute dai nostri nonni?

La verità è che l’Occidente teme un crollo totale del fronte ucraino.

Le trincee in Polonia non servono a fermare una Russia sconfitta, ma a contenere una Russia che avanza.

Nessuno ha paura di un pugile all’angolo che non muove più le braccia, ma tutti temono l’avversario che continua a colpirlo.

IL NEGOZIATO DELL’ASSURDO: VENDERE CIÒ CHE NON SI POSSIEDE

All’Adlon, Zelensky ha calato le sue due carte migliori.

La prima: «Restiamo dove siamo». Un congelamento del fronte che cristallizzi la situazione attuale, rifiutando l’idea americana di una zona cuscinetto che richiederebbe un ulteriore arretramento ucraino, ma che garantirebbe più stabilità e concretezza.

«Se noi indietreggiamo, devono farlo anche i russi», dice. Logica ineccepibile in un dibattito accademico e in una situazione in cui non vi fosse qualcuno che sta vincendo e l’altro che sta vincendo, ma irrilevante quando l’artiglieria e la capacità industriale avversaria hanno una superiorità schiacciante.

La seconda carta è ancora più debole: la rinuncia alla NATO.

Kiev offre di non entrare nell’Alleanza in cambio di garanzie di sicurezza bilaterali blindate (modello Articolo 5). Ma si tratta di un capolavoro di illusionismo. Zelensky sta offrendo di rinunciare a qualcosa che né Trump né Putin – come emerso nei colloqui in Alaska – avevano mai seriamente considerato di concedergli.

È come cercare di pagare il conto del ristorante promettendo di non comprare la Fontana di Trevi.

L’ULTIMA SPIAGGIA

Yuri Ushakov, l’uomo del Cremlino, osserva da lontano con il distacco di chi sa che il tempo lavora per lui. Mosca considera le proposte di elezioni o tregue temporanee come semplici stratagemmi per riarmarsi. Non abboccheranno.

Siamo alla fine della fiera.

L’Europa ”volenterosa” oggi manderà i suoi leader, inclusa Giorgia Meloni, a fare presenza, ma la realtà è che il destino dell’Ucraina si sta decidendo altrove, tra l’impazienza di Mar-a-Lago e il cinismo di Mosca.

Le casse vuote dell’Europa e le trincee piene di fango del Donbass hanno già emesso la sentenza. A Berlino si sta solo discutendo come scrivere il necrologio di un’illusione geopolitica, cercando di spacciarlo per un successo diplomatico.

Intanto, ogni ora che passa senza chiudere la guerra, decine di ucraini muoiono, perché, per tanti eroi da tastiera e da divano in cerca di paci giuste, sono solo numeri senza anima e tessere del Risiko.

IL RUGGITO DEI MOTORI E IL PROFUMO DELLA STORIA. L’ITALIA VINCE QUANDO RIMANE SE STESSA

C’è un filo d’oro che lega due notizie apparentemente distanti arrivate sulla mia scrivania in queste ultime ore.

Da un lato, il rombo di un’industria che si rifiuta di morire; dall’altro, il silenzioso ribollire di un patrimonio culturale che il mondo ha finalmente deciso di consacrare.

Parlo della clamorosa retromarcia dell’Europa sullo stop ai motori termici nel “035 e del riconoscimento della Cucina Italiana come Patrimonio Immateriale dell’UNESCO.

A un occhio distratto, sembrano due vittorie separate.

Una politica, l’altra culturale.

Ma per chi si occupa di strategia, di geopolitica e di quel delicato tessuto connettivo che tiene insieme le aziende, il messaggio è uno solo ed è potentissimo: il ritorno alla realtà. Il trionfo della sostanza sull’ideologia.

È il Kintsugi del Sistema Italia.

Abbiamo preso i cocci di narrative che sembravano condannarci all’irrilevanza o all’obsolescenza e li abbiamo saldati con l’oro della nostra identità industriale e culturale.

Beh, non è accaduto solo per merito nostro, ma la cucina è nostra, della creatività dei nostri chef e della forza della nostra filiera agroalimentare, fiore all’occhiello a livello mondiale.

Vediamo cosa cambia, ora, per le nostre imprese.

IL REALISMO INDUSTRIALE: L’AUTO NON SI FERMA

L’Europa ci ha ripensato. Non è un dettaglio, ma un cambio di paradigma.

Il dogma del “tutto elettrico” entro il “035 si è infranto contro il muro del realismo economico e della pressione geopolitica dell’asse Roma-Berlino-Varsavia.

L’obiettivo scende al 90% di riduzione delle emissioni. Il “ban” tecnologico cade.

Cosa significa questo per la nostra Motor Valley e per le migliaia di PMI della componentistica?

Significa ossigeno. Significa non essere condannati a sparire.

Significa che la condanna a morte per il motore a scoppio è stata commutata in una sfida di efficienza.

Per anni ho visto imprenditori paralizzati dall’incertezza, incapaci di pianificare investimenti su tecnologie che Bruxelles aveva bollato come “morte”. Oggi, quella tecnologia è viva.

La neutralità tecnologica non è uno slogan: è la garanzia che l’ingegno italiano – maestro nell’ottimizzazione della meccanica di precisione – può continuare a competere.

Non dovremo più smantellare intere linee produttive per inseguire un unico vettore energetico imposto dall’alto. Possiamo innovare sull’ibrido, sui biocarburanti, sull’efficientamento estremo del termico.

Per le figure HR e i CEO, questo si traduce in una gestione del cambiamento meno traumatica. Non dobbiamo più gestire la dismissione di competenze secolari, ma la loro evoluzione. È una vittoria della competenza sulla burocrazia e sulla tecnocrazia europea.

NON SOLO CHEF: IL CIBO COME ASSET GEOPOLITICO

Parallelamente, a New Delhi, l’UNESCO non ha premiato un ricettario. Ha blindato una filiera.

Attenzione a non cadere nella trappola folcloristica. Il riconoscimento della Cucina Italiana come “miscela culturale e sociale” e pratica di “sostenibilità e diversità bioculturale” è uno scudo economico formidabile.

Fino a ieri, difendevamo il Made in Italy agroalimentare con le unghie; oggi abbiamo un timbro globale che certifica che quel prodotto non è replicabile altrove.

Perché l’UNESCO ha sancito che l’ingrediente segreto non è nel piatto, ma nella relazione.

Questo cambia tutto per l’export.

Le nostre aziende agroalimentari non vendono più solo pasta, olio o conserve. Vendono un rito di inclusione sociale. Vendono benessere. Vendono un modello di vita che ora è patrimonio dell’umanità.

Questo è il colpo definitivo all’Italian Sounding. Il parmesan del Wisconsin può copiare il nome, ma non può copiare il “patrimonio immateriale”, la pratica sociale, la ritualità antispreco che l’UNESCO ha riconosciuto solo a noi.

Per gli imprenditori del settore, dal contadino che coltiva il grano al manager della grande distribuzione, la narrazione deve cambiare radicalmente.

Non vendete cibo e calorie, vendete cultura!

Il valore aggiunto del vostro prodotto è schizzato alle stelle perché è diventato un veicolo di diplomazia culturale.

SINTESI STRATEGICA: IL FUTURO È NELLE RADICI

Queste due notizie ci dicono che la globalizzazione sta cambiando pelle. Si sta passando da una standardizzazione forzata (tutti con l’auto elettrica, tutti con cibo sintetico od omologato) a una valorizzazione delle specificità locali ad alto contenuto tecnologico e culturale.

Per l’Italia, è l’assist perfetto.

Siamo l’unica nazione capace di produrre le auto sportive più desiderate al mondo e, contemporaneamente, di trasformare un pranzo in un atto culturale solenne. Hard power e Soft power.

Il consiglio che do oggi ai capitani d’industria che leggono questa newsletter è di non avere paura del passato. L’innovazione non è cancellare ciò che siamo stati, ma renderlo attuale.

Il motore termico evoluto e la dieta mediterranea certificata sono le due facce della stessa medaglia: la qualità della vita.

Il futuro non appartiene a chi dimentica chi è. Il futuro appartiene a chi sa portare le proprie radici nel domani.

Certo, poi bisognerebbe chiedere conto all’Europa della sua politica miope, che ci ha fatto perdere anni di vantaggio sulla Cina e tanti posti di lavoro, ma è un’altra storia.

Oggi, nonostante una politica sempre più distante dai reali bisogni della gente e del Paese, e un’Europa orientata a spazzare via i valori fondanti della sua stessa motivazione d’esistere, l’Italia è più forte.

Non sprechiamo questa occasione.

Avanti tutta.

SCACCO ALLA REGINA. A RISCHIARE ORA SONO I FONDI PENSIONE E I CONTI DELLE AZIENDE OCCIDENTALI

Preparatevi a una grande guerra come quella che hanno vissuto i nostri nonni.

No, non solo perché è una frase folle detta dal Segretario della NATO, Rutte, ma perché a Bruxelles alzano la voce come chi ha paura. E c’è motivo di averne, perché, al di là della sicurezza con cui Kaja Kallas avverte Putin che «l’Europa resisterà alla Russia», Mosca può bloccare 300 miliardi di dollari delle aziende e dei fondi pensione occidentali.

E sarebbe il caso di chiedere ai cittadini europei se abbiano voglia di rinunciare a quei soldi – ammesso che sappiano che la Russia può bloccarli, – prima di mostrarsi spavaldi.

Dopo tante tarantelle sui 200 miliardi russi bloccati in Belgio, la Banca Centrale Russa ha sbottato e ha dato mandato ai suoi legali. Ma non si è limitata a un esposto; ha trascinato Euroclear davanti al Tribunale Arbitrale di Mosca. Per ora.

Il tempismo è perfetto, quasi diabolico. Siamo alla vigilia di quel 18 dicembre che dovrebbe sancire il destino di Kiev e il Cremlino ha appena fatto capire che l’Europa sta giocando col fuoco e il rischio di bruciarsi è elevatissimo.

L’ARTE DELLA GUERRA LEGALE E PSICOLOGICA

La vera guerra, quella che decide chi mangia e chi fa la fame, si combatte nei tribunali e sui bilanci.

Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca Centrale russa, è una tecnocrate di altissimo livello e sa benissimo che non può fermare politicamente l’Europa, ma può spaventarla a morte. E in mano ha carte molto buone.

Intentando causa contro Euroclear, la cassaforte belga che custodisce la maggior parte dei quasi 200 miliardi di euro russi congelati, Mosca non cerca solo un risarcimento, ma il caos e la paura degli europei.

L’obiettivo è quello di frammentare il fronte europeo. La Russia sta dicendo a ogni singolo Stato membro, e in particolare ai banchieri terrorizzati del Belgio: «Se toccate quei soldi, vi trascineremo in un inferno legale che durerà decenni e vi costerà tanti, tantissimi soldi».

È una guerra di logoramento psicologico. Euroclear si trova ora con una pistola puntata alla tempia: da una parte la Commissione europea, con l’acqua alla gola e senza più soldi, che cerca disperatamente di finanziare la resistenza ucraina, dall’altra la certezza matematica di vedere i propri bilanci aggrediti da cause risarcitorie miliardarie. E non è un bluff. È il Diritto internazionale usato contro i suoi stessi creatori.

IL TREMORE DEL BELGIO E IL “CAVEAU” DI EUROCLEAR

Il Belgio è l’anello debole della catena e Mosca lo ha individuato con la precisione di un cecchino.

Immaginate, per un istante, di essere a capo del governo belga: ospitate un’istituzione come Euroclear, che detiene 185 miliardi di asset russi. Bruxelles vi chiede di usare quei soldi come garanzia per un prestito all’Ucraina.

Sembra facile, sulla carta. Ma nella realtà, sapete che il rischio di trovarvi costretti a pagare una montagna di soldi di risarcimenti è elevatissimo. E lo sa anche il premier Bart De Wever, che vive un incubo.

Se l’Europa forza la mano, Euroclear rischia di implodere sotto il peso di contenziosi infiniti, destabilizzando l’intero sistema finanziario europeo e non occidentale.

A quel punto, l’Europa si troverebbe nelle stesse condizioni di Hitler quando le cambiali Meifo, che servirono per finanziare il riarmo e la ripresa industriale, divennero insostenibili nel 1939.

Guarda caso, proprio l’anno in cui la Germania invase la Polonia e scatenò la più grande guerra mai vissuta sul pianeta, a oggi. Perché nessuna guerra è mai stata provocata da un pazzo, ma solo e sempre per denaro.

Per usare una metafora, la richiesta di von der Leyen di usare i fondi russi congelati è come entrare in un’ambasciata straniera e rubare mobili, computer, cancelleria, soldi.

Ed è una metafora azzeccata, così come è facile ipotizzare che il derubato non se ne stia con le mani in mano.

Se il Belgio cede senza garanzie blindate che Bruxelles fatica a dare, perché significa che tutti i paesi europei pagherebbero il conto, – e tutti i cittadini, anche tu – si espone a ritorsioni devastanti.

La causa avviata a Mosca è solo l’antipasto. La minaccia russa è quella di inseguire gli asset di Euroclear in ogni giurisdizione del pianeta, trasformando la clearing house belga in una giungla di cause in tutto il mondo. Ecco perché il Belgio frena.

Non per amore di Putin, come potrebbe ipotizzare il classico analista da trattoria in stile “Gigi il troione”, ma per paura della bancarotta.

Inoltre, Avvocati russi hanno riferito all’agenzia Reuters che migliaia di altre azioni legali potrebbero essere intentate da parte di privati contro Stati ed entità europee, e non solo in Russia, ma in tutto il mondo.

L’AZZARDO DI BRUXELLES: L’ARTICOLO 122 E LA FUGA IN AVANTI

Dall’altra parte della barricata, Ursula von der Leyen e la Commissione giocano d’azzardo. Hanno capito che l’unanimità è una trappola mortale, con l’Ungheria di Viktor Orban pronta a sabotare ogni mossa.

Dunque, la soluzione partorita dalla Presidente della Commissione sarebbe tirare fuori dal cilindro l’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, una mossa audace, al limite della disperazione.

Permettere il voto a maggioranza qualificata aggirerebbe il veto di Budapest e Bratislava, trasformando il congelamento degli asset da una decisione semestrale precaria a una misura sine die, a tempo indeterminato.

È tecnicamente brillante, ma politicamente esplosiva e potenzialmente il peggior disastro della storia dell’euro.

Stanno cercando di blindare un prestito da 90 miliardi per Kiev usando come garazie beni che, legalmente, appartengono ancora a uno Stato sovrano. È come se pretendeste un prestito astronomico da una banca dando in garanzia azioni e case che non sono vostre, ma del vostro vicino.

In pratica, l’Europa vuole commettere un furto che potrebbe pagare carissimo, trovandosi costretta a restituire il bottino con gli interessi e a renderne conto alla giustizia internazionale e dei singoli stati.

In tale contesto, i mercati rischiano di allontanarsi dal Vecchio Continente, per diversi motivi, a cominciare da due in particolare: in primo luogo perché nessuno investe da chi ruba denaro degli altri. Oggi tocca ai soldi dei russi, domani chissà a chi altro.

Secondo, se l’Europa viene condannata e sarà costretta a pagare multe insostenibili, a rischiare sarebbero anche i capitali investiti o, comunque, il loro valore.

Il Commissario europeo per l’Economia, Valdis Dombrovskis, cerca di rassicurare i mercati, dicendo che «Euroclear potrà rivalersi sui beni russi», ma è la semantica priva di fondamento giuridico di chi non ha capito nemmeno il nocciolo del problema, e la verità è che stiamo navigando in acque inesplorate.

Nessuno ha mai tentato un’operazione di ingegneria finanziaria di questa portata. Un furto che l’Europa vorrebbe legalizzare.

LA RAPPRESAGLIA SIMMETRICA: I CONTI DI “TIPO C”

Ma attenzione, perché in questa partita a scacchi, ogni azione genera una reazione uguale e contraria.

La Russia non è inerme. Mentre l’Europa guarda ai 200 miliardi a Bruxelles, Mosca tiene in ostaggio circa 300 miliardi di dollari di investimenti occidentali nei cosiddetti conti di “Tipo C”.

Sono i soldi delle nostre aziende, dei nostri fondi pensione, – sì anche dei guerrafondai da divano – bloccati nella Federazione Russa dall’inizio del conflitto.

Se l’UE tocca gli asset della Banca Centrale, il Cremlino ha già pronto il decreto per espropriare tutto. E non si fermeranno alle aziende.

Il rischio concreto è che la ritorsione colpisca i privati cittadini europei, anche quelli che con la guerra non c’entrano nulla, innescando una catena di confische incrociate che riporterebbe il Diritto commerciale al Medioevo.

E i ricorsi dell’Europa sarebbero ridicoli, perché avrebbe innescato lei la cosa. Sarebbe il colpevole che querela se stesso.

La banca Sberbank ha già fatto i conti: ci sono miliardi di dividendi pronti per essere sequestrati. È la dottrina della “distruzione economica mutua assicurata”. E sono molti più soldi di quelli russi in mano all’Europa

IL CREPUSCOLO DEL DIRITTO O L’ALBA DI UN NUOVO ORDINE?

Guardando al Consiglio del 18 dicembre, la situazione è critica. L’Ucraina ha un bisogno disperato di liquidità entro marzo; senza quei fondi, il collasso economico e militare è una certezza matematica, al di là delle frasi da film hollywoodiano di Kallas e Rutte.

L’Europa deve scegliere tra due mali: tradire i principi dell’immunità sovrana e rischiare una crisi finanziaria e di sistema con il Belgio come vittima sacrificale, oppure lasciare Kiev al suo destino.

La causa intentata dalla Russia contro Euroclear non è un semplice atto giudiziario, ma un primo stiletto piantato nel petto dell’Europa.

Mosca scommette sulla nostra divisione, sulla nostra paura dei tribunali, sulla nostra incapacità di accettare che le vecchie regole del gioco sono finite.

Il 18 dicembre non decideremo solo un prestito. Decideremo se l’Europa è pronta a svendere la sua esistenza, i cittadini europei e le nostre imprese.

Il tempo è scaduto. E il denaro, come sempre, è l’unica arma che serve davvero.

E l’Europa di soldi non ne ha più, perciò la disperazione potrebbe prendere il sopravvento.

Ma si sa: chi è disperato non sceglie mai la via migliore.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.