Un successo sentito per la presentazione del nuovo libro della scrittrice e pittrice di Castello di Annone (AT), Daniela Bussolino, nella splendida cornice di Casa delle Rondini.
Un pomeriggio dove le parole hanno incontrato l’arte, le emozioni hanno riempito la sala e l’impegno civico ha dimostrato che la cultura può, letteralmente, salvare una vita. Anzi, più d’una. E non soltanto metaforicamente.
CASTELLO DI ANNONE – Ci sono eventi che rimangono confinati tra le mura di una sala e altri che ne escono, lasciando un’impronta indelebile sul tessuto di una comunità.
La presentazione del nuovo libro di Daniela Bussolino, “Una storia d’amore a quattro zampette”, appartiene senza dubbio alla seconda categoria. Domenica scorsa, 12 ottobre, in un’atmosfera calda e partecipata, il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha trasformato un semplice incontro letterario in un momento di autentica condivisione.
UN EVENTO CHE VA OLTRE LE PAGINE
La sala era gremita. Un silenzio attento, quasi vibrante, ha accompagnato le letture dei passi più toccanti del libro.
Non un semplice pubblico, ma una platea di anime pronte a catturare segreti dal racconto della coniglietta Cristal, protagonista di una storia che parla un linguaggio universale.
Daniela Bussolino, affiancata dai relatori, ha guidato i presenti attraverso un viaggio che parte dalla fragilità della nascita per arrivare alla potenza rigeneratrice dell’amore, toccando temi profondi come il lutto, la rinascita e quel legame spirituale che ci unisce ai nostri compagni animali.
Dunque, anche un dualismo uomo-ambiente che ci riporta a un vivere più rispettoso del pianeta, più civile e più maturo.
La narrazione, raccontata dal punto di vista della coniglietta, si è rivelata una scelta stilistica potente e immersiva.
Il libro parla di fiducia dopo il trauma, di gelosia superata, della saggezza di un cuore che impara a capire che l’amore non si divide, ma si moltiplica.
E poi, il colpo di scena finale, che, tuttavia, non sveliamo certamente in questo articolo, ma invitiamo a leggere il libro, che, in fondo, è un messaggio di speranza che ha visibilmente commosso molti dei presenti alla prima presentazione ufficiale.
QUANDO L’ARTE LASCIA UN SEGNO… ANCHE SUL LIBRO DELLE FIRME
A rendere unico l’evento è stata quell’alchimia rara che si crea quando un autore è anche un artista.
Daniela Bussolino non ha solo firmato copie, ha ispirato creatività grazie al fatto che è anche una pittrice che ha esposto le sue opere in diverse località sul pianeta: Roma, Venezia, Parigi, Barcellona, Dubai, New York…
La prova più bella e inaspettata è arrivata dal libro delle dediche. Tra una firma e l’altra, gli ospiti hanno lasciato dei disegni, schizzi di coniglietti, cuori, piccoli ritratti e caricature.
Un gesto spontaneo e meraviglioso, un omaggio all’anima poliedrica della scrittrice Daniela Bussolino e un modo per entrare in sintonia con lo spirito giocoso e profondo del libro. Quella pagina bianca è diventata una piccola opera d’arte collettiva, specchio di un pomeriggio in cui l’immaginazione ha avuto la meglio.
UN CUORE CHE BATTE PER LA COMUNITÀ: DALL’ARTE AL DEFIBRILLATORE
Ma l’impatto di Daniela Bussolino su Castello di Annone va ben oltre la letteratura. La giornata è stata anche l’occasione per ricordare un altro, importantissimo traguardo, giunto grazie all’impegno dell’autrice per la comunità del suo paese.
Infatti, grazie ai proventi della sua precedente mostra d’arte personale, “La Danza dei Colori”, è stato possibile donare al Comune un defibrillatore (DAE), oggi installato e a disposizione di tutti i cittadini.
È questo il filo rosso che lega le diverse sfaccettature dell’espressione artistica di Daniela Bussolino: la ferma convinzione che la cultura e l’arte non siano fini a sé stesse, ma strumenti potentissimi per generare valore sociale.
Un libro che parla di un cuore che ama, un’artista che dona un dispositivo salvavita che fa ripartire i cuori. Una metafora perfetta del suo operato.
UN SUCCESSO CHE PARLA ALL’ANIMA
L’evento si è concluso con foto di gruppo, sorrisi e la sensazione condivisa di aver partecipato a qualcosa di speciale. Il successo di “Una storia d’amore a quattro zampette” non si misura solo nel numero di copie vendute, ma nell’onda di affetto che ha saputo generare.
Daniela Bussolino ha dimostrato ancora una volta di saper parlare direttamente all’anima del suo pubblico, creando ponti tra il mondo umano e quello animale, tra la narrazione e la vita reale, tra le percezioni e le emozioni generate, tra l’espressione artistica e il bene comune.
Un trionfo meritato, che lascia Castello di Annone più ricco di storie, di emozioni e di speranza.
C’è del metodo nelle supercazzole che ci raccontano. Non c’è dubbio.
D’altronde, sono professionisti. C’è stato un tempo in cui facevano informazione.
O forse, più semplicemente, c’è solo follia e bisognerebbe prescrivere psicofarmaci a volontà.
La cronaca propagandata nelle ultime ore, quella che dovrebbe informarci sui destini del mondo, somiglia sempre più a un remake non autorizzato di un vecchio film a episodi, con Enrico Montesano.
Ricordate? Ne abbiamo già scritto. Il copione della propaganda occidentale è sempre più simile a Io Tigro, Tu Tigri, Egli Tigra, film a episodi in cui un manipolo di bersaglieri italiani, smarriti durante un’esercitazione, entra per sbaglio in Svizzera per comprare sigarette.
Per una serie di esilaranti equivoci e per l’incapacità del personaggio interpretato da Montesano, si generano panico nazionale, coprifuoco, l’annuncio televisivo di “tre milioni di soldati italiani” pronti a conquistare Bellinzona.
Una farsa. Da ridere a crepapelle, se non fosse che oggi, con comici infinitamente meno talentuosi, stiamo mettendo in scena lo stesso copione. Solo che non si ride più.
Perché la Svizzera, oggi, è l’Europa intera. E i bersaglieri, beh, sono russi. Ovviamente.
IL CASUS BELLI PER LA GUERRA ALLA RUSSIA: SETTE UOMINI E UNA STRADA DI CAMPAGNA
Tenetevi forte. È successo un fatto gravissimo.
Una di quelle azioni di guerra che tengono svegli la notte i generali della NATO e fanno vendere copie ai giornali che ancora usano la carta. In Estonia, le autorità locali hanno temporaneamente chiuso un tratto di strada al confine con la Federazione Russa.
Chiuso. Sbarrato.
Ma perché?
Le prodi guardie di frontiera, hanno avvistato sette (7) militari russi. Armati. Al di là del confine, in territorio russo. Cioè a casa loro.
Speriamo che i russi non abbiano avvisato i rispettivi superiori di aver avvistati militari estoni in territorio estone, altrimenti è la fine ed entriamo in guerra.
Sette. Soldati. Russi. Sul. Territorio. Russo.
Roberto Micozzi (Alias Enrico Montesano) la leggerebbe come una provocazione intollerabile. Una minaccia diretta alla sicurezza dell’Alleanza Atlantica.
Sette uomini, probabilmente i sette cavalieri dell’apocalisse in incognito, Rambo super addestrati e implacabili che osano passeggiare armati a casa loro.
E noi, dall’altra parte del filo spinato, abbiamo giustamente reagito chiudendo un chilometro di asfalto. Una mossa strategica di rara arguzia, un segnale inequivocabile a Putin: non ci farete paura. Almeno non su quella specifica striscia di catrame.
Anche se i sette, probabilmente, curano le ferite dandosi fuoco e mettono in scacco migliaia di uomini con del filo di ferro e qualche granata.
È la dottrina della deterrenza di Bellinzona: loro cercano sigarette, noi chiudiamo il tabaccaio. Geniale.
L PRECEDENTE POLACCO: CACCIA AL DRONE DI POLISTIROLO
Questa psicosi, del resto, non nasce dal nulla. È figlia di una narrazione coltivata con cura, innaffiata ogni giorno da dispacci di agenzia e analisi da salotto televisivo.
Ricordiamo, solo poche settimane fa, l’intera NATO in subbuglio per una ventina di droni di polistirolo lanciati sulla Polonia. Oggetti da mille euro, forse meno.
La risposta NATO è stata affidata a caccia militari in decollo immediato, missili da svariati milioni di euro per abbattere giocattoli che, beffardamente, hanno causato più danni autoinflitti dai missili di quei caccia – tetti sfondati, conigliere centrate in pieno – che altro.
Abbiamo dimostrato al mondo di essere disposti a spendere il PIL di una piccola nazione per disintegrare un aeromodello. Non è magnifico? Questo non è solo potere militare, è una dichiarazione di intenti economici. Una performance artistica sul tema dello spreco, finanziata dal contribuente.
E alla faccia delle politiche green. O i caccia vanno a pannelli solari?
DALLA REALTÀ ALLA “FASE ZERO”: LA GUERRA PSICOLOGICA (SU DI NOI)
Ma non temete, c’è una spiegazione accademica a tutto questo. I think tank, quegli oracoli moderni pagati per dare un nome altisonante al panico, l’hanno battezzata “Fase Zero”. Roba da ridere a crepapelle, se fosse un remake del film con Montesano.
Secondo l’Institute for the Study of War (ISW), questi non sono incidenti isolati, ma attacchi ibridi, segreti e palesi – rileggete: segreti, ma palesi – con cui la Russia prepara le “condizioni informative e psicologiche” per una futura, inevitabile, guerra contro la NATO.
Guerra che la Russia dovrebbe portare avanti armata solo di pale, a dorso di muli e con l’economia al collasso, secondo le notizie che ci danno gli stessi narratori di supercazzole.
È una costruzione narrativa sublime.
I sette soldati non erano di pattuglia, ma stavano “plasmando la percezione psicologica” degli estoni. I droni in Polonia non erano semplici incursioni, bensì “operazioni informative cinetiche”.
Grazie a questa neolingua da manuale di controspionaggio, ogni evento, per quanto insignificante, diventa una tessera del mosaico del male.
Il nemico perfetto, invisibile ma onnipresente, segreto ma palese. Così palese che, a volte, sono i nostri stessi missili a colpire il nostro territorio, ma la colpa è sempre e comunque di Mosca. Vuoi mettere?
IL RIARMO EUROPEO: UNA CORSA AGLI ARMAMENTI SENZA BERSAGLIO (O QUASI)
E a chi giova tutto questo teatro dell’assurdo?
La risposta è sempre la stessa: al complesso militare-industriale.
Mentre ci si spaventa per sette bersaglieri in libera uscita, l’Europa si lancia in un riarmo da 800 miliardi, puntando al 5% del PIL per le spese militari.
Ma quale Europa? Quella unita? Macché.
La Germania si azzuffa con la Francia sui carri armati del futuro, l’Italia cerca di piazzare i suoi pezzi e ogni nazione gioca la sua partita per assicurarsi una fetta della torta.
Non si sta costruendo un esercito europeo, si sta alimentando una dozzina di industrie nazionali in competizione tra loro nel nuovo business, dopo che von der Leyen e la sua commissione hanno affossato l’automotive per costruire automobiline a batterie.
Pertanto, la minaccia russa è puro marketing, diventa il più grande spot pubblicitario della storia per la vendita di armi. Un mercato, non una difesa. E noi paghiamo il biglietto.
MENTRE LA LOGICA VA IN LICENZA PREMIO E CI VENDONO COMICITÀ SPACCIANDOLA PER REALTÀ
Il punto, sociologicamente devastante, è che tutto questo funziona. Funziona perché, forse, la nostra capacità collettiva di discernimento è stata erosa. Fritta. Bruciata da anni di scroll infinito su TikTok, Facebook e Instagram, dove la soglia di attenzione di un pesce rosso è un lusso e la complessità è nemica del like.
Se un video di 15 secondi è troppo lungo per arrivare al punto, se perfino le basi della logica sono equazioni che riempiono una lavagna, se le basi della conoscenza storica mancano palesemente, come possiamo pretendere di analizzare uno scenario geopolitico?
Allora, è più facile, più comodo, accettare la favola. Il buono contro il cattivo. I tre milioni di bersaglieri alle porte.
Mentre giustifichiamo la distruzione di Gaza con la presunta scarsa qualità dei materiali edili di Hamas – un’argomentazione che meriterebbe un posto d’onore nel museo della disonestà intellettuale, e, magari, anche in qualche cella, in rispetto del Diritto internazionale – e ci prepariamo a una guerra totale per sette soldati che passeggiano nel bosco di casa loro, il dubbio sorge spontaneo.
Forse, come nel film, anche loro volevano solo delle sigarette. Volevano solo chiedere un’indicazione.
Ma nessuno, a quanto pare, parla più la lingua del buonsenso, ma chi comanda ha in mano calcolatrici e aziende di armi da mandare avanti.
E questa, signori, è l’unica, vera, terrificante minaccia che dovremmo temere.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
La prima vittima della guerra è la verità. È un adagio inflazionato, quasi banale nella sua ripetitività.
Ma la verità non viene semplicemente uccisa, bensì clonata, sfigurata e schierata in battaglia come un esercito di fantasmi. Oggi la nebbia della guerra non è fatta solo di fumo e polvere da sparo, ma di un’incessante foschia informativa, un’architettura della percezione costruita con perizia non soltanto per “manovrare” le nostre opinioni, ma le nostre stesse fondamenta morali. I nostri stessi valori.
Stiamo combattendo una guerra per procura che è soprattutto emotiva, dove il campo di battaglia è la nostra mente.
L’errore fondamentale è credere che questo sia un gioco a due. Beh, non lo è.
IL TEATRO DELLE FAKE NEWS: UN PALCOSCENICO A SENSO UNICO
Analizziamo il copione. È semplice, quasi rassicurante nella sua prevedibilità.
Da un lato del palcoscenico, abbiamo il “Cattivo”: la Russia.
Le sue affermazioni vengono etichettate, inscatolate e vendute come “fake news”. Sempre e comunque.
Un esempio da manuale è la notizia, attribuita a fonti russe, secondo cui il presidente Zelenskyy trasferirebbe 50 milioni di dollari al mese in un conto saudita.
È una storia grossolana, facilmente smontabile, una caricatura della disinformazione che serve a rafforzare la nostra convinzione secondo la quale loro mentono. È un’operazione che ci rassicura. Ci conferma nel nostro ruolo di spettatori illuminati.
Dall’altro lato del palco, c’è l'”Eroe”: l’Ucraina, sostenuta dall’Occidente, cioè noi, i buoni, sempre e comunque.
Le sue narrazioni, per quanto straordinarie, vengono accolte con un’accondiscendenza quasi reverenziale.
Kiev annuncia di aver eliminato 1.240 soldati russi in un solo giorno. Il numero è vertiginoso, quasi inconcepibile in termini umani, ma viene assorbito nel flusso mediatico senza il minimo scetticismo critico.
Non è “fake news”, in questo caso, ma un bollettino di guerra. Dimentichiamo per un istante le famiglie dietro quei numeri, la logistica di una simile ecatombe.
La cifra non serve a informare, ma a costruire l’immagine di un nemico fragile, sull’orlo del collasso, e di un eroe che resiste con una forza sovrumana.
Questo non è giornalismo, ma la costruzione di un mito funzionale allo sforzo bellico. E noi, consumatori di notizie, diventiamo involontariamente custodi e, al tempo stesso carburante, di quel mito.
IL MERCENARIO CUBANO E L’EMBARGO: QUANDO LA NOTIZIA SERVE L’AGENDA
Qui la faccenda si fa più sottile, e infinitamente più interessante. Spunta una notizia, veicolata da una testata tedesca che cita l’intelligence ucraina, di 25.000 soldati cubani in procinto di combattere per la Russia. Non bastavano i nordcoreani.
Una cifra enorme, un potenziale sconquasso sul campo. Ma la vera storia non è nel numero. La vera storia è nella sua funzione.
Quasi simultaneamente, apprendiamo che questa stessa informazione viene utilizzata dal Dipartimento di Stato americano come argomento per opporsi a una risoluzione ONU che chiede la fine dell’embargo contro Cuba.
Ma dai, che coincidenza!
L’argomentazione è chiara: come possiamo allentare la presa su un regime che sostiene attivamente lo sforzo bellico del nostro avversario?
La notizia, assolutamente non verificata, diventa tuttavia strumento e l’informazione si fa leva politica.
Non importa più se i 25.000 cubani siano una stima realistica, un’esagerazione strategica o una completa invenzione. Ciò che conta è la sua utilità geopolitica.
Smascherare questa notizia non significa assolvere la Russia o Cuba, ma esporre il meccanismo per cui un’affermazione, indipendentemente dalla sua veridicità, viene immessa nel sistema informativo per raggiungere un obiettivo politico ed economico preesistente.
È un’operazione di ingegneria narrativa che collega direttamente il campo di battaglia ucraino alle complesse dinamiche delle sanzioni internazionali, un filo invisibile che unisce un soldato a Donetsk con un diplomatico a New York.
IL SUPERMERCATO DI DONETSK E LA MORALE A GEOMETRIA VARIABILE
La guerra della percezione raggiunge il suo apice quando si parla di vittime.
Un missile russo su un condominio a Kiev è, giustamente, un crimine di guerra. Un’atrocità. Un atto barbaro. Ma quando un drone ucraino, come riportato da blogger filo-ucraini e ripreso da fonti occidentali, incendia un supermercato a Donetsk, in territorio occupato, è un atto di guerra. Non è un crimine. Perché Mosca è cattiva e ha aggredito. Kiev si difende.
E al diavolo la storia degli ultimi trent’anni. Perché la narrazione della nostra propaganda dice che la guerra è cominciata nel 2022 e noi siamo i buoni, perciò è così.
Perciò il drone sul supermercato viene presentato come un successo.
In questa narrazione, non ci sono civili. Non c’è la cassiera, il padre di famiglia che fa la spesa, il ragazzo che sistema gli scaffali.
L’edificio, un semplice supermercato, diventa un obiettivo militare de-umanizzato. L’atto stesso, identico nella sua essenza a quello compiuto dalla parte avversa, viene trasmutato da “crimine” a “operazione tattica”.
Nessuna menzione delle potenziali vittime civili, nessuna indignazione. Solo un silenzio assordante.
Questo è il doppio standard nella sua forma più pura e letale. È una licenza morale che concediamo a una parte e neghiamo all’altra, basandoci non sui fatti, ma sulla nostra affiliazione emotiva e politica.
La geografia della compassione viene ridisegnata dai confini del fronte. Le vite da una parte della linea hanno un peso, quelle dall’altra diventano un danno collaterale accettabile, se non addirittura un motivo di vanto per i “successi” militari. Perché gli altri sono aggressori.
OLTRE LA PROPAGANDA: L’EROSIONE DELLA FIDUCIA E IL COSTO DELLA VERITÀ PARZIALE
“Fare la guerra alle fake news russe” è uno slogan seducente, ma pericolosamente incompleto, poiché implica che la verità sia un territorio occupato da un solo nemico. La realtà è che il campo della verità è stato minato da tutte le parti in conflitto.
Ogni notizia, ogni bollettino, ogni smentita non richiesta diventa un’arma.
Il costo finale di questa guerra narrativa non è la vittoria di una propaganda sull’altra, ma l’erosione totale della fiducia. La fiducia nei media, nei governi, nelle istituzioni. Quando ogni informazione deve essere decodificata per capire quale agenda politica stia servendo, il cittadino smette di essere un soggetto informato e diventa un analista perennemente sospettoso, perso in un labirinto di specchi.
La nostra capacità di discernere il vero dal falso si atrofizza. E in questo vuoto, prosperano l’estremismo, il cinismo e l’apatia.
La vera sfida, dunque, non è scegliere quale propaganda consumare, ma riconoscere la propaganda in ogni sua forma, anche e soprattutto quando lusinga le nostre convinzioni. Significa applicare lo stesso rigoroso scetticismo a un comunicato del Cremlino e a un report di un think tank atlantista. Significa chiedere prove, contestualizzare le notizie, interrogarsi sulla loro funzione prima ancora che sul loro contenuto.
Perché nel silenzio della verità, il rumore più assordante è quello delle nostre certezze che si frantumano. E forse, solo da quelle macerie possiamo iniziare a ricostruire un’informazione degna di questo nome e la propaganda dell’aggressore e dell’aggredito che non tiene conto della storia e dei fatti.
C’è un’Italia che pulsa lontano dai riflettori delle metropoli, dal caos urbano della Capitale e dallo stress di Milano, un’Italia che trasforma una ex chiesa sconsacrata in un tempio culturale dedicato alla creatività.
A Calusco d’Adda, piccolo comune nella provincia di Bergamo e al confine con le province di Lecco e Milano, è andato in scena qualcosa di più di un semplice evento culturale.
La mostra concorso intitolata ad “Alfio Paris”, organizzata con passione dall’artista Murial Villa e dall’Associazione Phaos, è un atto coraggioso che potremmo definire persino di resistenza, contro le mode superficiali del nostro tempo, una dichiarazione d’amore per l’arte che pensa, che interroga, che vive, che accende lo spirito critico.
Un manifesto umano contro l’apatia del consumo visivo mordi e fuggi.
UN FARO NELLA PROVINCIA: LA MISSIONE DI DARE VOCE AL TALENTO
Non è scontato.
In un panorama culturale dominato spesso da circuiti chiusi e nomi altisonanti, l’iniziativa di Muriel Villa e Phaos sceglie la via più difficile e nobile, quella di dare spazio agli artisti. Spazio vero.
L’evento, giunto ormai a una solida maturità, si fonda su una filosofia chiara e coraggiosa: nessun tema imposto, nessuna gabbia stilistica, nessuna imposizione.
L’obiettivo è liberare l’espressione, permettendo ad artisti emergenti e talenti ancora sconosciuti di emergere e confrontarsi, tutti insieme, giovani e navigati, inesperti e professori d’arte.
Muriel Villa, anima instancabile di questo progetto, non organizza una semplice collettiva che si ripete ogni anno, ma costruisce una piattaforma, un’opportunità concreta per chi, nel mondo dell’arte contemporanea, lotta per trovare una voce.
L’antica chiesa di San Fedele, in cui si rifugiò San Michele, secondo la storia locale, diventa così un crocevia di sguardi, tecniche e anime, un luogo dove l’iperrealismo di Katia Villa dialoga con il caos costruttivo di Giovanni Valdelli, dove il futurismo cupo di Ezio Arosio si confronta con l’esplosione materica di Eikasia, una dimensione in cui gli avviluppamenti cromatici di Anna Maria Castello incontrano la raffinatissima grammatica del colore di Eugenio Giaccone e la potenza concettuale di Francesco Invernici.
L’ARTE CHE FA CAPIRE, NON SOLO VEDERE: UNA LEZIONE CONTRO LA SUPERFICIALITÀ
«L’immagine mostra. L’arte, invece, fa capire».
Questa distinzione, evocata con passione, durante la cerimonia di premiazione, dal Dott. Pasquale di Matteo, analista geopolitico e critico d’arte internazionale, rappresentante per l’Italia della società culturale giapponese Reijinsha.co, è la chiave di volta per comprendere la portata di questa iniziativa.
Di Matteo ha spiegato che viviamo nell’era della bulimia visiva, un flusso ininterrotto di immagini su schermi che bruciano e si estinguono nell’arco di pochi secondi, senza lasciare traccia nell’anima.
La mostra di Calusco si pone come un antidoto a questa deriva culturale.
Qui, ogni opera chiede tempo, invita a fermarsi, a riflettere. «L’artista» ha sottolineato il critico, citando la potenza di Guernica, «non si limita a documentare la realtà come farebbe un fotoreporter, ma la scava, la interpreta, la restituisce carica di significato, costringendoci a pensare per cogliere l’essenza delle cose. Per cogliere la verità, squarciando il velo delle propagande.»
Gli artisti sono «persone di Serie A» proprio per questa loro capacità di accendere il pensiero critico, di nutrire lo spirito e di combattere quella pericolosa deriva che porta a una società che ascolta senza interrogare e senza interrogarsi.
Perché le società che non interrogano e non si interrogano sono le migliori possibili per qualsiasi dispotismo.
UN VIAGGIO TRA LE EMOZIONI: GLI ARTISTI E LE OPERE
Attraversare le navate della ex chiesa significava intraprendere un viaggio denso e variegato. Dalla delicatezza poetica di Roberta Zanchi alla potenza quasi tribale di Franco Tagliati, ogni angolo racconta una storia.
Spicca la tecnica impeccabile di Davide Ferrari, capace di infondere vita nelle mani dei suoi soggetti, così come la ricerca di minuziosità di Giovanna Pagani, che negli occhi dei suoi ritratti sembra catturare interi universi.
La fotografia di Barbara Bertoncelli congela il movimento in un istante eterno, mentre le opere di Beatrice Rota, “forti, molto forti”, impongono un silenzio quasi reverenziale, lasciando lo spettatore a meditare su abissi interiori.
Il talento premiato ha confermato questa ricchezza.
La classicità reinventata di Alessia Martoccia (seconda classificata) ha affascinato per la sua abilità nel disegno, mentre la tecnica iperrealista di Katia Villa (prima classificata) ha dimostrato come la perfezione possa essere anche un veicolo per un’emozione profonda, che “parla” direttamente a chi osserva.
Un plauso speciale va a Eikasia, vincitore del “Premio Alfio Paris”, che con le sue opere materiche, di fili colorati che costruiscono figure, ha rotto gli schemi tradizionali della pittura, presentando una strada diversa per comunicare.
Segnalati dal critico Pasquale Di Matteo, Eugenio Giaccone per l’eccellenza stilistica, Davide Ferrari per la tecnica sopraffina, Beatrice Rota per la potenza espressiva che sradica dal divano e che la porterà lontano, e Danielle Donington, per la prepotenza poetica capace di accendere lo spirito critico, Francesco Invernici per sviscerare il presente con coraggio e filosofia.
L’ESSENZA NELLA LA MEMORIA DI ALFIO PARIS E IL CALORE DELLE ISTITUZIONI
Ma la vera essenza della rassegna sta nella sua umanità. La mostra è dedicata ad Alfio Paris, un artista eclettico del luogo, venuto a mancare poco tempo fa.
Non si tratta di una semplice intitolazione, ma un atto di memoria viva di chi lo ha conosciuto e amato, un modo per dire che l’arte e chi la crea non muoiono mai veramente. È un gesto che trasforma una competizione in un omaggio, una celebrazione della continuità.
Altro elemento di eccezionale umanità è stata la sentita partecipazione delle istituzioni.
La presenza del Dott. Michele Pellegrini, Sindaco di Calusco d’Adda, e dell’Assessore alla Cultura, la Dott.ssa Silvia Di Fonzo, non è stata una formalità, ma un segno potentissimo e per nulla scontato, quello di una politica che sceglie di esserci, che riconosce il valore dell’arte come collante per la comunità. Quella al fianco dei cittadini e della cultura e non trincerata nelle stanze dei palazzi.
«Un gesto non comune e prezioso», come ha rimarcato il anche Pasquale Di Matteo, che testimonia come a Calusco d’Adda la cultura non sia un accessorio, ma un pilastro fondamentale su cui costruire l’identità di un territorio.
I VINCITORI: UN FUTURO SCRITTO NEL TALENTO
La giuria, composta da docenti d’arte, critici, artisti e rappresentanti istituzionali, ha avuto un compito arduo per giungere a un verdetto.
Menzioni della Giuria Critica a Cinzia Bresciani ed Enrica Eugenia Pirisi.
Menzione del Comune di Calusco d’Adda a Sabrina Ceruti.
Menzione Critica del Dott. Pasquale di Matteo a Danielle Donington.
5° Classificato: Davide Ferrari.
4° Classificato: Ezio Arosio.
3° Classificato: Marco Locatelli.
2° Classificato: Alessia Martoccia.
1° Classificato: Katia Villa.
Vincitore del “Premio Alfio Paris”: Eikasia.
In un mondo che corre veloce, Calusco d’Adda, Muriel Villa, Phaos e tutti gli artisti che partecipano a questa rassegna, attraverso l’arte, ci ricordano l’importanza di fermarsi. Di guardare. E, soprattutto, di capire.
La mostra resterà aperta al pubblico fino a domenica 19 ottobre nei giorni e negli orari indicati in locandina.
MENTRE CI RACCONTANO CHE LA RUSSIA VORREBBE UNA GUERRA CONTRO LA NATO, GLI STESSI MEDIA MAINSTREAM CONFESSANO CHE L’IMPERO DI PUTIN È SULL’ORLO DEL COLLASSO.
LA VERA MINACCIA NON È A MOSCA, MA NELLE NOSTRE CAPITALI, DOVE LA PAURA GIUSTIFICA AUSTERITÀ, CONTROLLO E MILIARDI SOTTRATTI AL WELFARE PER DARLI AL RIARMO.
Lo spettacolo a cui assistiamo ogni giorno sui nostri schermi non è una tragedia greca, ma una commedia dell’arte in salsa NATO, una sceneggiata tragicomica così goffa e sgangherata da far impallidire il ragionier Ugo Fantozzi di fronte al suo megadirettore galattico.
E la cosa meravigliosa è che gli attori, i registi e i produttori di questo colossal della paura confessano la truffa nelle note a piè di pagina dei loro stessi copioni.
Da un lato del palco, ci presentano l’Orso Russo.
Un colosso invincibile, assetato di conquista che, dopo tre anni e mezzo di logoramento in Ucraina, sarebbe pronto, starebbe saggiando le difese NATO con sconfinamenti di aerei e droni prima di dilagare fino a Lisbona.
Un Moloch militare le cui fauci insaziabili richiedono, anzi esigono, che i nostri governi svuotino le casse del welfare, taglino pensioni e sanità, per dirottare centinaia di miliardi di euro verso il florido, e mai abbastanza sazio, bancomat del complesso militare-industriale.
Dall’altro lato del palco, però, gli stessi cronisti, gli stessi think tank, gli stessi soloni che ci terrorizzano con l’imminente Armageddon, ci raccontano un’altra storia.
Una storia di un’economia non solo in difficoltà, ma agonizzante.
La Russia, infatti, sarebbe sull’orlo di una recessione tecnica, con un PIL che si contrae per la prima volta dal 2022 e una crescita nel secondo trimestre del 2025 “vicina allo zero”, come ammette candidamente il Moscow Times.
Ma come, scusate? L’impero del male che sta per conquistare l’Europa non riesce a far quadrare i conti di un trimestre? E con quali soldi, con quale economia potrebbe pensare di muovere guerra contro l’intera NATO?
LA GRANDE CONFESSIONE: CRONACA DI UN COLLASSO ANNUNCIATO
Scaviamo, dunque, nelle macerie di questa narrazione schizofrenica, usando come pala e piccone gli stessi dati che ci forniscono i guru della propagan… ops, dell’informazione.
Quella che emerge non è l’immagine di una superpotenza minacciosa, ma il ritratto di un morto a cui manca solo l’ora del decesso, con la cancrena che risale dalle fondamenta.
L’economia di guerra, quel presunto motore che doveva rendere la Russia invulnerabile alle sanzioni, si sta spegnendo.
Era un fuoco di paglia alimentato da una spesa pubblica folle, che ha creato un’ipertrofia mostruosa del settore militare a scapito di tutto il resto.
Oggi, come scrive lucidamente il Kennan Institute, assistiamo a una “economia a due velocità”. Da una parte, le fabbriche di armi e munizioni, drogate di rubli statali, che crescono del 34,6% (attrezzature per il trasporto) o del 15,1% (elettronica). Dall’altra, l’economia reale, quella dei cittadini, che sta letteralmente morendo.
La produzione alimentare, – 0,7%. I veicoli a motore registrano un crollo del 16,6%. La lavorazione del legno, – 3,2%. Persino l’estrazione mineraria, linfa vitale del Cremlino, è in calo del 2,4%.
L’economista Vladimir Salnikov è chirurgico: la produzione industriale non militare è diminuita dello 0,9%. L’RzhD, le ferrovie federali, un tempo gallina dalle uova d’oro, costringe il personale a ferie non pagate per non licenziare.
Metà delle imprese russe, riporta la tv RBK, programma tagli al personale e a Magnitogorsk, il secondo colosso siderurgico del Paese, i profitti sono crollati di nove volte in sei mesi. Nove.
Questa non sembra proprio la preparazione a una guerra totale contro l’Occidente, ma la cronaca di una deindustrializzazione forzata, di un Paese che sta divorando il proprio futuro per alimentare la guerra in Ucraina. Altro che sciocchezze di sconfinamenti e provocazioni contro la NATO!
IL BLUFF FINANZIARIO E LA RIVOLTA SILENZIOSA DELLE REGIONI
Ma il castello di carte non trema solo a livello produttivo.
Il bilancio federale è un colabrodo. A maggio 2025, il deficit aveva già raggiunto 3,4 trilioni di rubli, quasi il 90% dell’obiettivo annuale, come sottolinea l’analisi di Bruegel.
Il mitico Fondo di Ricchezza Nazionale ha il 71% di liquidità in meno rispetto a prima della guerra e i profitti da petrolio e gas, nonostante il consolidamento dei rapporti con nuovi “partner strategici”, come la Cina, sono crollati del 14% su base annua.
Pechino, furbescamente, compra sì, ma a prezzi stracciati e detta le condizioni.
La crisi si vede soprattutto lontano dai palazzi dorati di Mosca e San Pietroburgo.
L’analisi di Eurasia Daily Monitor è una sentenza: 67 delle 89 regioni russe hanno registrato un grave deficit di bilancio nella prima metà del 2025.
Mentre a Mosca i redditi crescono dell’11%, in Siberia si fermano a un misero 2%.
Il Cremlino militarizza le economie locali, costringendo il Tatarstan a produrre droni invece che esportare petrolio e la Carelia a guardare i suoi boschi marcire invece di venderli alla Finlandia.
È un colonialismo interno, feroce, che centralizza i pochi profitti rimasti e socializza le perdite.
Il “felice consumatore” descritto con sarcasmo dall’Economist è tutt’altro che felice.
Il 60% dei russi non ha risparmi per i “giorni neri”. L’inflazione ufficiale è al 9-10%, ma quella percepita, quella del carrello della spesa, vola al 16-21%.
La Banca Centrale tiene i tassi al 21% per frenarla, strangolando di fatto ogni possibilità di credito per le imprese civili e per le famiglie. Un’impresa su tre, ammette Rosstat, è in perdita.
Ecco il grande pericolo che dovrebbe far tremare l’Europa: uno Stato sull’orlo della bancarotta, con un’industria civile al collasso, le regioni in rosso e una popolazione che vede il proprio potere d’acquisto polverizzato.
Attenzione: ciò non significa che Mosca crollerà tra un mese o due, perciò l’Ucraina vincerà la guerra. La Russia è strutturata per durare ancora anni in questa situazione, pur di alimentare la campagna militare in Ucraina.
Inoltre, se davvero Mosca arrivasse sull’orlo del precipizio, per Kiev sarebbe una notizia pessima, poiché, a quel punto, Putin avrebbe tutto l’interesse a concludere il prima possibile la guerra e non esiterebbe a usare armi più risolutive, come i missili ipersonici, ma stavolta caricati con testate nucleari.
Un po’ come fecero gli americani nel 1945 con il Giappone, insomma.
MA A CHI SERVE L’ORSO CATTIVO? LA PROPAGANDA COME ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA
Ed eccoci alla risoluzione della dissonanza cognitiva. Se la Russia è questo gigante malato, perché i nostri leader continuano a dipingerla come una minaccia esistenziale per l’Europa?
Perché prospera ancora questa narrazione fantozziana, così palesemente contraddittoria?
La risposta è semplice e terribile: l’ologramma della minaccia russa non serve a descrivere la realtà, – già presa a schiaffi con le sciocchezze sulle pale e sui microchip, nonché sul fantomatico attacco all’aereo di von der Leyen e sui droni, – ma serve a creare l’alibi perfetto a Bruxelles.
L’alibi per giustificare la più grande e veloce opera di riarmo dalla fine della Guerra Fredda.
Quei miliardi sottratti alla sanità pubblica, alle scuole fatiscenti, alle infrastrutture che cadono a pezzi, non servono a difenderci da un’invasione che esiste solo nella fantasia di certi “guru” dell’informazione, ma servono a ingrassare i bilanci di un’industria bellica che non produce benessere, ma solo strumenti di morte e ingenti profitti per pochi.
È l’alibi costruita attraverso la divulgazione della paura per imporci una nuova stagione di austerità.
“Non ci sono soldi per le pensioni, dobbiamo comprare i carri armati per non farci trovare impreparati quando Putin attaccherà”. Sarà il loro mantra. “Non possiamo aumentare gli stipendi, dobbiamo finanziare gli eserciti europei”.
L’eterna emergenza bellica diventa la scusa perenne per smantellare lo stato sociale, rendendo strutturale la precarietà. Ed è, soprattutto, l’alibi per stringere il cappio del controllo.
In nome della “sicurezza nazionale” contro il nemico russo, si potrà giustificare una sorveglianza sempre più pervasiva, limitando le libertà d’espressione e di dissenso, e criminalizzando chiunque osi mettere in discussione la narrazione ufficiale.
Gli albori li vediamo già fin dal 2022 e li abbiamo vissuti in maniera perniciosa durante la pandemia.
La lotta contro l’autocrazia di Putin è il pretesto per importarne i metodi.
La propaganda sulle provocazioni russe non è stupida, ma diabolicamente intelligente, pur nella sua follia, e funziona proprio perché è fantozziana: la sua goffaggine la rende apparentemente innocua, mentre il suo messaggio di paura penetra nel profondo, disattivando il pensiero critico e generando un consenso passivo tra chi è disabituato a leggere e a pensare.
La vera guerra, oggi, non è quella che si combatte al di là del confine polacco, ma quella che si combatte oggi per la nostra democrazia, per il nostro welfare, per le nostre libertà.
L’avversario non è un esercito di russi con l’economia in sofferenza, ma la narrazione tossica che ci vuole spaventati, impoveriti e sottomessi.
Forse, l’orso da temere non è quello che vive nella taiga, ma quello che si aggira nei nostri parlamenti e nelle redazioni di quei quotidiani blasonati che dovrebbero informarci, invece hanno scelto di diventare megafoni del potere.
E sta a noi decidere se continuare a recitare la parte della vittima impaurita nella loro commedia hollywoodiana o alzare il sipario sulla farsa.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
Accendi la televisione e li vedi, i generali da salotto, gli strateghi del talk show, i mezzibusti con l’elmetto immaginario, i grandi giornalisti per cui Mosca doveva collassare entro Natale 2022 in virtù delle nostre sanzioni dirompenti.
Ci spiegano, con la bava alla bocca e la sicumera di chi non ha mai pagato una bolletta, che la guerra è giusta. Che Putin è il Male Assoluto, reincarnazione di ogni cattivo della storia, da Gengis Khan a Voldemort.
Che Zelensky è un Churchill, ma in felpa, un eroe senza macchia che difende i nostri “valori non negoziabili” a tremila chilometri da casa nostra.
Che inviare armi è un dovere morale. E che chi non è d’accordo è un servo di Mosca. Un “putiniano”. Un traditore.
Questa è la narrazione. Il Vangelo secondo Bruxelles. La favoletta che ci raccontano prima di presentarci il conto. Un mare di panzane condite con storie di pale e microchip.
Poi, però, c’è la vita reale.
C’è il Paese. Ci sono gli italiani. E i numeri, quando non sono torturati fino a confessare il falso dalla propaganda di casa nostra, sono più testardi di un mulo e più taglienti di un bisturi.
IL SONDAGGIO CHE SVELA LA PROPAGANDA: PUTIN NON È IL NEMICO, ZELENSKY NON È UN SANTO
Leggete bene, perché queste cifre sono una sassata in piena fronte al Pensiero Unico e ai vari leader europei, giornalisti, guru ed esperti di guerra.
L’istituto Lab21 ha chiesto agli italiani: “Considerate la Russia un Paese nemico?”. Risposta: un gigantesco, assordante NO per il 58,7% della popolazione.
La maggioranza assoluta. Non esiste elezione che possa vantare questi numeri, visto che abbiamo governi sostenuti sì e no dal 25% della popolazione.
Gente che va a fare la spesa, che si preoccupa per il mutuo, che vede il prezzo delle bollette e della benzina e capisce al volo chi sta pagando questa guerra per procura.
Non sono agenti del Cremlino. Sono cittadini dotati di un bene sempre più raro: il buonsenso.
Ma non basta. La vera bomba è sulla ripartizione delle colpe, quel dogma che ci vuole tutti schierati, senza se e senza ma, con Kiev.
Ebbene, solo il 51,8%, una maggioranza risicata e quasi imbarazzante, attribuisce la colpa principale a Putin.
E l’altro lato della medaglia? Un incredibile 41,5% degli italiani punta il dito contro Volodymyr Zelensky, accusandolo di avere una responsabilità enorme nell’escalation militare e, soprattutto, nel sabotare ogni possibile accordo di pace.
Capite la portata?
Quasi un italiano su due, guardando il presidente ucraino, non vede più l’eroe dipinto dai media, ma un ostacolo sulla via del negoziato, malgrado tutta la propaganda spesa in suo favore.
Un leader che, forse, preferisce la sopravvivenza del suo governo alla sopravvivenza del suo popolo. È una percezione brutale, forse ingiusta, ma profondamente umana.
È il grido di chi non ne può più e rifiuta la logica binaria dei buoni contro i cattivi che serve solo a chi vende armi e a chi costruisce carriere politiche sulle macerie altrui e sugli ucraini mandati al patibolo.
L’indagine ISPI/Ipsos lo conferma: la gente vuole un negoziato, anche a costo di riconoscere la dura realtà sul campo.
Il 44% degli italiani pensa che Kiev dovrebbe trattare a ogni condizione. Anche da una posizione di debolezza. Perché una pace imperfetta è sempre meglio di una guerra perfetta, come dimostrano i festeggiamenti a Gaza per quella che, di fatto, è una resa di Hamas.
“FATE LA GUERRA, MA SENZA DI NOI”: IL VERDETTO DELLE URNE IN TUTTA EUROPA
E non pensate che questa sia una bizzarria tutta italiana, il solito vezzo di un popolo indisciplinato.
Aprite gli occhi. Guardate i risultati delle elezioni negli ultimi mesi, in ogni angolo del continente.
Dalla Germania alla Francia, dall’Olanda all’Austria, ovunque i cittadini hanno avuto la possibilità di esprimersi, hanno sistematicamente punito i partiti guerrafondai e premiato chi, con coraggio o con calcolo, ha osato parlare di pace, di diplomazia, di fine delle sanzioni suicide.
È un’onda anomala che sta travolgendo le certezze dei tecnocrati di Bruxelles e dei loro addetti stampa nei “giornaloni” che non informano più, ma sono diventati portavoce del potere.
Mentre loro, nelle stanze ovattate di quello stesso potere, pianificano il ventesimo pacchetto di sanzioni che affama le nostre imprese e l’ennesimo invio di armi che prolunga il massacro di ucraini, la gente comune – il macellaio, l’impiegato, l’operaio, lo studente, l’avvocato, il medico – vota con il portafoglio e con la paura.
Vota contro una classe dirigente che ha scambiato la realpolitik con una crociata ideologica, dimenticando una piccola, insignificante lezione della storia: le guerre si sa come iniziano, non si sa mai come finiscono. E a pagarne il prezzo sono sempre gli stessi.
E, ancora di più, non si sono mai raggiunte paci giuste.
LA PROPAGANDA SI È INCEPPATA: PERCHÉ IL RACCONTO DEI “BUONI” NON FUNZIONA PIÙ
Per due anni hanno provato a venderci una guerra santa.
Hanno trasformato i virologi in esperti di geopolitica, hanno messo l’elmetto in redazione e hanno scomunicato chiunque osasse porre una domanda legittima. Ma il castello di carte sta crollando. E crolla per motivi terribilmente concreti.
Crolla perché la “vittoria dell’Ucraina”, promessa come imminente, si è rivelata un miraggio sanguinoso.
I sondaggi in Ucraina, pur viziati dalla legge marziale e dalla paura, mostrano un popolo stremato, dove il desiderio di negoziati (69% secondo Gallup) sta soppiantando la retorica della “resistenza a oltranza”.
Non a caso, sono milioni i giovani ucraini fuggiti all’estero e che scappano dai reclutatori che non sanno più dove cercare carne da macello da inviare a morire al fronte.
Crolla perché, mentre ci chiedevano sacrifici per “fermare Putin”, le multinazionali dell’energia e delle armi registravano profitti da capogiro. Il portafoglio, signori, non mente mai e ci sbatte in faccia la realtà.
Crolla, infine, perché la gente ha smesso di credere a una narrazione che fa acqua da tutte le parti e nega realtà storiche che confermano come la NATO abbia diverse responsabilità nello scoppio della guerra in Ucraina.
Vedono un’Europa sempre più irrilevante, che si fa dettare l’agenda da Washington e perde influenza a favore di Cina e, sì, persino della stessa Russia che, secondo gli italiani, è vista come un attore internazionale in forte ripresa.
Siamo di fronte a una frattura insanabile.
Da una parte, un’élite politico-mediatica che vive in una bolla, convinta di combattere una battaglia epocale per la democrazia.
Dall’altra, un popolo che quella battaglia la sta combattendo davvero, ogni giorno, contro il carovita e l’incertezza generata dalle scellerate idee degli attuali leader europei. Un popolo che non odia la Russia, ma teme la povertà.
Che non ama Putin, ma diffida di chiunque gli chieda di sacrificare il benessere dei propri figli sull’altare di una causa lontana e sempre più opaca.
La verità è che la propaganda più sofisticata si schianta contro la realtà di uno scontrino, oltre che contro la realtà del campo di battaglia.
E il desiderio di pace, quello che nasce dalle viscere e non dai comodi uffici ministeriali, è più forte di mille editoriali. Loro possono continuare a suonare la carica. Ma il popolo, semplicemente, ha deciso di non partire.
E, se ancora il termine democrazia ha un senso, è il popolo a ordinare la rotta da seguire. Qualunque altra scelta non sarebbe democrazia.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
A Gaza, suonano i festeggiamenti, dopo le bombe criminali israeliane.
Regna il mormorio incredulo di una folla che si riversa per strada non per protestare, non per seppellire i bambini uccisi dagli invasori, ma per cantare la vita.
Un’esplosione di esultanza davanti a un ospedale, un luogo di morte trasformato in epicentro di speranza.
Sono la cronaca cruda e potentissima della fine di un incubo. Un incubo lungo due anni.
Dopo due anni di crimini di guerra e contro l’umanità, i primi raggi di luce filtrano tra le macerie.
“Ci avete restituito quello che pensavamo di aver perso,” sussurrano le famiglie degli ostaggi israeliani, mentre anche a Tel Aviv si stappano bottiglie e si sventolano bandiere.
Due popoli, nemici irriducibili, uniti per un istante da un unico, primordiale sentimento: il sollievo.
Ma non lasciamoci ingannare dalla retorica consolatoria, perché questa non è la pace dei trattati firmati con penne d’oro, ma è la pace della resa. Ed è stata imposta da un solo uomo: Donald Trump.
IL TEATRO DELL’ASSURDO: GAZA RINGRAZIA TRUMP
Le immagini più dirompenti non arrivano da Tel Aviv, ma da Gaza. Giovani palestinesi, con gli occhi ancora velati dal fumo e dalla polvere, guardano in camera e pronunciano parole che mandano in cortocircuito decenni di narrazioni geopolitiche.
“Grazie a Dio, il presidente Trump ha annunciato la fine della guerra”. Lo ripetono. Non una, ma più volte. Un ringraziamento diretto, quasi affettuoso, all’architetto degli Accordi di Abramo, al presidente americano più visceralmente filo-israeliano della storia moderna.
È un paradosso che disintegra ogni analisi convenzionale. Com’è possibile?
Mera logica di potere.
Per due anni, il mondo ha assistito a una carneficina orchestrata con precisione chirurgica, iniziata dopo un attacco, quello del 7 ottobre, la cui dinamica puzza ancora di negligenza calcolata, di “porte aperte” lasciate socchiuse da chi sapeva che un trauma di quella magnitudine avrebbe fornito il pretesto perfetto per una soluzione finale che Netanyahu insegue da diversi anni.
L’amministrazione Biden, impantanata nelle sue stesse ambiguità morali e incapace di esercitare una vera pressione, ha permesso che il massacro continuasse, alimentandolo con armi e condannandolo con parole vuote, prive di reale senso di umanità.
Poi, è tornato in scena Donald Trump. Il bullo. L’uomo forte. Il negoziatore transazionale che non si cura dei principi, ma solo dei risultati.
E il risultato è arrivato.
IL BISTURI DELLA REALPOLITIK: L’UOMO FORTE COME UNICO MEDIATORE
A differenza della diplomazia europea, fatta di comunicati stampa e appelli al diritto internazionale, Trump usa il bisturi della Realpolitik.
Non chiede, ordina. Non suggerisce, minaccia. Non implora, impone. Si muove come un elefante in una cristalleria, ma sa che se i proprietari si lamentano, può schiaffeggiarli e andare via fischiettando in faccia alla polizia.
Ha capito una verità fondamentale che le anime belle dell’Occidente si rifiutano di accettare: in Medio Oriente, come in molti altri scacchieri, la forza non rispetta la ragione e nemmeno il Diritto internazionale, ma solo una potenza di fuoco superiore.
Trump non ha portato la pace perché è un filantropo, ma perché un conflitto prolungato danneggiava gli interessi strategici americani che lui intende ricostruire, perché destabilizzava i suoi alleati nel Golfo e, soprattutto, perché dimostrava al mondo intero chi comanda davvero.
Il suo annunciato discorso alla Knesset israeliana non sarà una supplica, ma un avvertimento: l’accordo si rispetta, punto. Ha disinnescato la bomba non con l’acqua santa della diplomazia multilaterale, ma spegnendo la miccia con gli stivali.
Questo approccio, che fa inorridire i salotti buoni di Bruxelles e Washington, è l’unico che i popoli stremati dalla guerra riescono a comprendere. Non chiedono giustizia. Chiedono di smettere di morire. E se per farlo devono ringraziare il diavolo in persona, lo faranno con le lacrime agli occhi.
L’AMARA MEDICINA DELLA PACE: DA GAZA ALL’UCRAINA, IL PREZZO DELLA SOPRAVVIVENZA
Ed è qui che la lezione di Gaza dimostra ciò che ripetiamo da quasi quattro anni, scontrandoci contro la follia dei leader europei e dei loro tifosi belligeranti.
È qui che si connette, in modo doloroso e necessario, al dramma dell’Ucraina.
Da anni, l’Occidente ripete a Kiev il mantra della “pace giusta”.
Una pace che implica la vittoria totale, la riconquista di ogni centimetro di terra, la punizione dei colpevoli. Un obiettivo nobile. Giusto. E assolutamente irrealistico, tanto che nemmeno in un film di fantascienza potrebbe realizzarsi.
Un obiettivo che sta costando centinaia di migliaia di vite umane, la distruzione di un’intera nazione e il rischio concreto di un’escalation nucleare per il mondo intero.
La storia è una maestra spietata e ci ricorda che le guerre combattute fino all’ultimo uomo per un “principio” non hanno mai prodotto paci durature né giuste, ma solo deserti pieni di croci.
La Pace di Vestfalia non fu giusta, ma pose fine a trent’anni di massacri religiosi. La fine della guerra in Vietnam non fu giusta per nessuno, ma fermò il contatore dei morti. E… non esiste una sola pace nella storia che non sia stata ingiusta.
Anche a Gaza la pace non è giusta. È una resa mascherata. I palestinesi hanno perso. Hanno perso territorio, potere, autonomia e decine di migliaia di vite. Ma oggi, i loro figli sono vivi. Oggi non cadono bombe. Domani, forse, potranno iniziare a ricostruire. Questa è l’unica vittoria che conta per chi ha visto l’inferno.
L’Ucraina si trova davanti allo stesso bivio.
Può continuare a sacrificare la sua gioventù sull’altare di una vittoria che ogni giorno appare più lontana, inseguendo la chimera di una “pace giusta” applaudita da leader occidentali che mandano armi e fanno soldi, ma non i loro figli al fronte.
Oppure, può accettare l’amara medicina di una pace imperfetta. Una pace che potrebbe significare la perdita di territori e la fuga di Zelensky e di tutti coloro che dalla guerra ricevono soldi e potere.
Una resa, sì. Ma una resa che condannerebbe la politica ucraina, ma salverebbe ciò che resta della nazione: il suo popolo.
Quanti altri orfani servono per difendere un confine su una mappa?
Quanti altri morti perché i leader europei smettano di dare evidenti segni di squilibrio mentale?
OLTRE L’IPOCRISIA: SCEGLIERE LA VITA
La narrazione dominante ci ha insegnato a idolatrare la resistenza eroica e a disprezzare il compromesso, etichettandolo come codardia.
Ma si tratta di una trappola morale letale. La vera leadership, quella che trascende l’ideologia e si fonda sull’umanità, non chiede ai suoi cittadini di morire per la patria. Chiede loro di vivere per essa.
Quella che vediamo oggi in Medio Oriente non è la pace dei poeti, ma la pace dei sopravvissuti, mediata da un imprenditore pragmatico e senza scrupoli. È brutta, sporca, ingiusta. Ma è reale.
Ed è infinitamente preferibile alla giustizia dei cimiteri e alle logiche squilibrate dei leader europei.
Forse è tempo che anche a Kiev, e soprattutto nelle capitali europee che ne telecomandano il destino, qualcuno inizi a far funzionare quel poco di neuroni che, si spera, saranno rimasti dopo questi anni da manicomio.
Prima che non resti più nessuno da salvare. Perché alla fine, l’unica vittoria che conta davvero è il battito del cuore del giorno dopo. Il resto è aria fritta.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
Non è la sceneggiatura di un film distopico, ma la realtà che si dipana davanti ai nostri occhi.
Le parole, pesanti come macigni, sono state pronunciate a Quantico, centro nevralgico dell’addestramento militare americano.
L’ordine impartito ai generali non era di prepararsi per un fronte lontano, ma di addestrare le truppe a combattere “nelle città statunitensi”.
Questa non è più solo geopolitica, ma la cronaca inquietante di un impero che, sentendo scricchiolare le proprie fondamenta e il proprio dominio sul pianeta, inizia a guardare con sospetto alle proprie stesse strade.
È il sintomo più inquietante di una superpotenza che, incapace di accettare l’alba di un mondo multipolare, sta reagendo con una fuga in avanti disperata e irrazionale, una strategia del caos che si estende dall’Ucraina al Venezuela, fino al Medio Oriente.
IL FRONTE UCRAINO: UN’ESCALATION PARADOSSALE NEL CUORE DELL’EUROPA
La strategia occidentale in Ucraina sta entrando in una fase nuova e pericolosa.
Le notizie, confermate da fonti autorevoli come il Wall Street Journal e Reuters, parlano chiaro: Washington fornirà a Kiev l’intelligence necessaria per colpire in profondità le infrastrutture energetiche russe.
Sul tavolo c’è persino la fornitura di missili a lungo raggio Tomahawk.
È un azzardo che odora di disperazione. Perché si sta scegliendo di intensificare una guerra di logoramento che l’Occidente, semplicemente, non è più in grado di sostenere.
La realtà industriale è il grande fantasma che Washington e Bruxelles si rifiutano di vedere.
Gli Stati Uniti producono circa 50 missili Tomahawk all’anno e un migliaio di intercettori Patriot. Pare che possano arrivare al massimo a 200 missili ogni 365 giorni.
Numeri irrisori se paragonati alla macchina bellica russa, che sforna migliaia di droni di ultima generazione e ha riattivato un’economia di guerra su vasta scala.
Inoltre, a differenza della Russia, che, memore dell’Operazione Barbarossa, ha mantenuto “dormienti” intere filiere industriali oltre gli Urali, l’Occidente ha delocalizzato, affidando la propria sicurezza a un sistema di appalti che massimizza i profitti delle aziende private, ma è drammaticamente inefficiente in un conflitto prolungato.
Questa escalation, quindi, non nasce da una posizione di forza, ma da una pericolosa illusione, la convinzione che la Russia sia vulnerabile nel lungo periodo, nonostante gli evidenti avanzamenti sul campo.
È una scommessa che ignora i fondamentali economici e industriali della guerra moderna.
Senza dimenticare che, se sul suolo russo cadesse un missile americano, Mosca avrebbe il pretesto giuridico per usare armi atomiche per difendersi da un evidente attacco della NATO.
IL FIANCO SUD: RIAFFERMARE L’EGEMONIA NEL “GIARDINO DI CASA”
Mentre l’attenzione del mondo è rivolta a est, la bozza della National Defense Strategy americana indica una priorità chiara: l’emisfero occidentale. Il “giardino di casa” deve essere messo in sicurezza.
E fanno piani, proprio come in Germania gli ospedali di Berlino si preparano a curare prima i soldati e solo dopo i cittadini comuni, come scoperto dal quotidiano tedesco Berliner Zeitung. (In calce a questo articolo, troverai approfondimenti).
Non è un caso che i colloqui diplomatici con il Venezuela di Maduro siano stati bruscamente interrotti. L’amministrazione Trump, secondo fonti interne, sta ora valutando un’opzione militare diretta, un’operazione che potrebbe vedere un massiccio dispiegamento di forze nei Caraibi.
Ufficialmente, l’obiettivo è contrastare il narcotraffico, ma la realtà è un’altra: si tratta di un tentativo di riaffermare un’autorità che scricchiola, di eliminare un governo non allineato e di mandare un messaggio a chiunque, in America Latina, osi sfidare la dottrina Monroe.
La pressione sul Venezuela non è un evento isolato, ma un pezzo fondamentale del puzzle per restaurare un ordine unipolare ormai tramontato, ma che né Trump né i neoconservatori che controllano davvero gli USA hanno la cultura sociologica e geopolitica necessaria per capirlo.
IL MOTORE IMMOBILE: L’INFLUENZA ISRAELIANA E IL BERSAGLIO IRANIANO
Per comprendere il vero motore di questa frenesia globale, bisogna guardare al Medio Oriente, dove la politica estera americana non agisce in autonomia, ma sembra quasi in “subappalto”, profondamente condizionata dagli obiettivi strategici di Israele e dalla visione dei neoconservatori.
L’obiettivo finale, perseguito ossessivamente fin dal 1996, è uno solo: un cambio di regime in Iran.
Ogni mossa sullo scacchiere globale acquista un nuovo significato per obiettivi USA che sono chiari.
Indebolire la Russia, sostenere una lunga guerra in Ucraina, con la speranza di logorare il principale alleato militare e strategico dell’Iran.
Fornire armi a Kiev per colpire in profondità la Russia potrebbe spingere Mosca a ricambiare, magari fornendo ai suoi alleati (come l’Iran) tecnologie militari avanzate, creando così il pretesto per un intervento.
Il massiccio trasferimento di assetti militari americani (caccia F-35, sistemi di difesa THAAD, aerei cisterna) in Medio Oriente non è casuale. Gli USA stanno preparando il campo di battaglia per un attacco decisivo.
L’escalation non è caos, ma una lucida, terrificante preparazione che parte da lontano e che accomuna tutte le ultime amministrazioni.
LA DIAGNOSI FINALE: LA PAURA DI UN MONDO MULTIPOLARE
Questa strategia aggressiva e apparentemente illogica non è un’esibizione di forza, bensì il suo esatto contrario. È la reazione scomposta di un establishment che non riesce ad accettare la fine di un’era, il tramonto di 500 anni di egemonia occidentale e l’avvento inevitabile di un mondo multipolare.
La Russia e la Cina, insieme all’Africa, all’India e, in parte, al Sudamerica, non propongono un nuovo impero, ma un’architettura di sicurezza basata su un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: l’indivisibilità della sicurezza.
Un concetto, nato a Helsinki nel 1975, che sancisce un principio fondamentale, secondo cui la sicurezza di una nazione non può essere costruita a discapito di quella del proprio vicino.
Questo è il modello che l’Occidente rifiuta, perché metterebbe in discussione il suo diritto auto-proclamato di decidere chi, dove, come e quando governa nel mondo.
In questo quadro, l’Europa è la vittima principale, una potenza economica sabotata dal suo stesso alleato, privata di energia a basso costo, industrialmente disarmata e ridotta a una federazione di vassalli senza una visione strategica propria.
Il cerchio, così, si chiude e ci riporta a Quantico, dove un’élite politica che vede fallire la propria pretesa di dominio globale non ha altra scelta che prepararsi a usare la forza per gestire il dissenso e il caos che inevitabilmente nasceranno in patria.
La vera sfida, oggi, non è più vincere la prossima guerra, ma avere il coraggio di accettare un mondo che è già cambiato, prima che la presunzione di un’eterna egemonia ci trascini tutti nel baratro di una terza guerra mondiale per cui gli effetti delle prime due saranno paragonabili a quelli di una lite condominiale.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
Dite la verità, vi sentivate davvero in democrazia.
Pensavate che il progresso fosse una linea retta, che la sanità pubblica fosse un diritto acquisito, che lo Stato, nel momento del bisogno, fosse lì per voi. Per il nonno con l’anca rotta, per la madre che ha bisogno di una chemio, per vostro figlio con una brutta polmonite.
Con medici carini e coccolosi.
Ingenui!
Mentre noi ci baloccavamo con l’inflazione e le beghe di cortile, a Berlino, nell’efficientissima Germania, si preparava il futuro.
E non sembra un granché.
I giornalisti di “Berliner Zeitung” hanno scoperto che i tedeschi hanno scritto un documento, un capolavoro di ingegneria burocratica dal nome che suona come un ordine: “Rahmenplan Zivile Verteidigung Krankenhäuser Berlin“. “Piano quadro di difesa civile per gli ospedali di Berlino.”
Tradotto nella lingua della sostanza: “piano per farvi capire che, se scoppia la guerra, voi esseri umani, cittadini comuni, non contate più una beata fava”.
È tutto nero su bianco. Ventisei pagine di squisita, gelida programmazione teutonica.
La sostanza è semplice, quanto brutale.
Se arriva il “momento X”, quello che un generale zelante definisce come una situazione in cui “non siamo più in pace, ma non ancora in guerra”, gli ospedali cambiano mestiere. Non sono più luoghi di cura per la gente, ma diventano “officine” per riparare soldati.
Avete capito bene.
Il soldato ferito ha la priorità assoluta. Assoluta! Voi, inutili civili, siete in fondo alla lista.
Siete un ingombro, un letto occupato, un costo.
Il piano prevede, testualmente, di “dimettere” o “trasferire” i pazienti comuni per fare spazio alla carne da cannone da rimettere in piedi e rispedire al fronte.
La chiamano Triagierung. Sembra una procedura medica avanzata, invece è solo il vecchio, caro triage di guerra, dove la domanda non è “chi sta peggio?”, ma “chi mi serve di più?”.
E voi, operai, impiegati, manager, avvocati, meccanici… non servite.
Questo non è un film e nemmeno una supposizione, ma la pianificazione meticolosa di uno Stato che, preparandosi al peggio, rivela la sua vera natura.
Il patto sociale è ormai un optional da tempo di pace.
Il giuramento di Ippocrate è diventato un semplice consiglio, non un obbligo. La dignità della persona è solo una variabile dipendente dallo scenario strategico.
E il bello è che ce lo dicono pure.
La dottoressa Angelika Claußen, una che evidentemente non ha ancora barattato la coscienza con la Ragion di Stato, lo dice chiaro e tondo: “Si tratta di un passaggio dalla medicina individuale alla medicina di guerra, con l’obiettivo di rendere i soldati nuovamente idonei al combattimento. La popolazione civile sarà l’ultima a essere considerata”.
L’ultima. Dopo i soldati, dopo le necessità logistiche, dopo la colla per gli stivali e le razioni per i combattenti.
Forse. Se i medici avranno ancora voglia e non saranno troppo stanchi. Tanto, se morite, non importa niente a nessuno. Se non siete soldati, non servite.
Anzi, se morite è meglio. Non darete più noia.
Quindi, tutte le volte che vi capita di leggere o di sentire in merito alla “difesa europea”, alla “preparazione”, alla “resilienza”, al “riarmo”, non pensate a soldati valorosi che vi proteggono.
Pensate a questo manuale per cui voi contate meno di zero.
Pensate al vostro letto d’ospedale che diventa merce di scambio. Pensate che la vostra vita, in caso di necessità, vale meno di quella di un soldato, perché lui è un asset, una risorsa.
Voi siete solo un costo e un problema.
E noi che pensavamo di esserci lasciati alle spalle le pagine più buie del Novecento.
Che illusi!
Aprite gli occhi.
E, nel dubbio, fatevi una scorta di bende e aspirina. Potrebbero servire.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.
UNA LEGGE NATA PER PROTEGGERE I BAMBINI CHE, NEI FATTI, CANCELLA I DIRITTI FONDAMENTALI CHE DISTINGUONO LE DEMOCRAZIE DALLE DITTATURE. UN PARADOSSO PERICOLOSO CHE L’UNIONE EUROPEA SI ACCINGE A VOTARE.
Il prossimo 14 ottobre è una linea di confine. Quel giorno, il Consiglio dell’Unione Europea si riunirà per votare una proposta di regolamento il cui nome ufficiale – CSAR (Child Sexual Abuse Regulation) – nasconde un’operazione di sorveglianza senza precedenti.
Ribattezzata dai suoi critici “Chat Control”, questa legge rappresenta la più grave minaccia alla privacy digitale e alla sicurezza delle comunicazioni mai concepita in Occidente. Una sorta di emulazione di regimi considerati dittatoriali.
L’obiettivo dichiarato è, apparentemente, nobile e ineccepibile: combattere la pedopornografia online, ma, come ci insegna la storia sociologica del controllo, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E questa strada porta dritta alla sorveglianza generalizzata.
Soprattutto in un contesto dove l’Europa spinge per una guerra alla Russia a tutti i costi, l’iniziativa sembra una mossa architettata per controllare le masse ed evitare sommosse.
IL CLIENT-SIDE SCANNING: COME FUNZIONA IL CAVALLO DI TROIA NELLA TUA TASCA
Il meccanismo tecnico alla base di Chat Control è il cosiddetto client-side scanning. Per comprenderne la pericolosità, dobbiamo abbandonare l’idea astratta di “cloud” e focalizzarci sul dispositivo che abbiamo in tasca: il nostro smartphone.
Questa proposta obbligherebbe i fornitori di servizi di comunicazione, compresi quelli che utilizzano la crittografia end-to-end come WhatsApp, Signal o Telegram, a installare un software di scansione direttamente sul dispositivo dell’utente.
Prima ancora che un messaggio, una foto o un video vengano cifrati e inviati, questo software li analizzerebbe alla ricerca di “materiale abusivo”.
Utilizzerebbe due metodi principali: il confronto con hash di immagini già note (una sorta di impronta digitale) o, ancor più inquietante, modelli di intelligenza artificiale addestrati a riconoscere contenuti sospetti.
La Presidenza danese dell’UE ha tentato di rassicurare, sostenendo che questa operazione non violi la crittografia, ma si tratta di una pericolosa illusione semantica, poiché, se il governo, o un fornitore di servizi, ha accesso al contenuto prima che venga cifrato, quella comunicazione non è mai realmente privata.
È un cavallo di Troia che elude il principio stesso della sicurezza.
LA FINE DELLA CRITTOGRAFIA E L’ALBA DELLA SORVEGLIANZA DI MASSA PERMANENTE
La crittografia end-to-end non è un optional, ma la colonna portante della sicurezza digitale moderna.
Garantisce che solo il mittente e il destinatario possano leggere il contenuto di una comunicazione. È il sigillo che protegge le nostre conversazioni più intime, i dati bancari, i segreti commerciali, le strategie politiche.
Chat Control, obbligando a scansionare i contenuti lato client, cioè sul dispositivo, di fatto smantella questa protezione e trasforma il tuo telefono in una cimice.
L’Electronic Frontier Foundation (EFF) non usa mezzi termini: si tratta di una sorveglianza di massa che viola il diritto fondamentale alla privacy. Perché il sistema non prevede sospetti e non richiede mandati.
Scansiona tutto e tutti, sempre. Dal bambino che manda una foto alla nonna, all’innamorato che condivide un’immagine intima con il partner, al giornalista che scambia informazioni con una fonte confidenziale, al politico che annuncia una nuova legge, uno sciopero, una manifestazione, all’avvocato che conversa che chatta con il cliente.
È il trionfo del sospetto generalizzato sull’innocenza fino a prova contraria.
GIORNALISMO E DEMOCRAZIA IN BIANCO: PERCHÉ CHAT CONTROL È UNA MINACCIA ALLA LIBERTÀ DI STAMPA
Immaginiamo un giornalista d’inchiesta che sta indagando su un caso di corruzione internazionale. Le sue fonti operano all’interno di apparati di potere. La loro protezione dipende dall’anonimato e da comunicazioni assolutamente sicure.
Chat Control rompe questo patto di fiducia, perché l’inevitabile indebolimento della crittografia, o peggio, la sua backdoor obbligatoria, espone queste persone a rischi inimmaginabili.
Non solo i giornalisti, ma anche avvocati, attivisti per i diritti umani, dissidenti politici. Categorie che dipendono da spazi privati digitali per operare senza subire persecuzioni o abusi.
Un governo ostile potrebbe potenzialmente accedere a queste comunicazioni, sfruttando le vulnerabilità introdotte dal sistema di scansione. La sorveglianza di massa non distingue tra un criminale e un difensore della libertà. Li mette tutti sullo stesso piano, livellando verso il basso i diritti di tutti.
LA DICHIARAZIONE DI SIGNAL: “MEGLIO CHIUDERE CHE TRADIRE LA NOSTRA MISSIONE”
Quando la più grande piattaforma di comunicazione privata al mondo minaccia di lasciare il mercato europeo, è il caso di ascoltare.
Meredith Whittaker, Presidente della Signal Foundation, ha parlato con una chiarezza che non ammette repliche, testimoniando la gravità della condotta europea.
Per Signal, Chat Control non è una semplice modifica normativa, ma una “minaccia esistenziale” alla sua missione. Whittaker spiega che l’obbligo di scansionare ogni messaggio “mina lo stesso principio della crittografia end-to-end”.
Ma la sua dichiarazione più potente, e politicamente dirompente, è stata questa: “Se ci trovassimo di fronte alla scelta tra integrare un sistema di sorveglianza in Signal o abbandonare il mercato, sceglieremmo di lasciare il mercato.”
Non è un bluff. È una presa di posizione etica.
Significa che per garantire comunicazioni veramente private, Signal è disposta a privare milioni di europei del suo servizio.
Preferisce non esistere piuttosto che tradire la fiducia dei suoi utenti. Questo dovrebbe far riflettere profondamente i legislatori. E anche gli europei sulla vera natura dei loro legislatori.
L’INEFFICACIA STRUTTURALE: UN SISTEMA CHE NON FUNZIONA E CREA DANNI COLLATERALI
L’aspetto più tragico di Chat Control è che, oltre a essere pericolosa, rischia di rivelarsi profondamente inefficace.
Prendiamo la tecnica dell’hashing, decantata come soluzione tecnica.
Come spiegato da Carmela Troncoso, direttrice scientifica del prestigioso Max Planck Institute for Security and Privacy, è un sistema facilmente aggirabile.
Alterare anche minimamente un file – ritagliando un’immagine, applicando un filtro, cambiando la luminosità – ne modifica l’hash, l’impronta digitale.
L’algoritmo si trova così di fronte a un bivio: ignorare il contenuto modificato (rendendo il sistema inefficace) o segnalare le corrispondenze parziali.
La professoressa Troncoso avverte che quest’ultima opzione “apre la strada alla possibilità che migliaia di persone vengano segnalate per errore”.
Immaginate le conseguenze: un’ondata di falsi positivi che sommerge le autorità, lede la reputazione di innocenti e mina l’affidabilità dell’intero apparato investigativo, distogliendo risorse preziose dalle indagini reali.
Un esempio? L’artista che invia immagini di sue opere di nudo indicato come pedofilo, pervertito o altro.
UN BIVIO PER LA CIVILTÀ EUROPEA
Il 14 ottobre, l’Europa si troverà a un bivio. Da un lato, la tentazione autoritaria di un controllo totale, giustificato da una causa giusta, ma implementato con mezzi distopici. Dall’altro, la difesa dei principi fondativi della privacy, dell’inviolabilità delle comunicazioni e della presunzione di innocenza.
Le società che hanno sacrificato la libertà in nome della sicurezza si sono spesso ritrovate con nessuna delle due, perché un telefono sorvegliato è una fonte zittita, che avrà paura di cantare.
Chat Control è un mostro giuridico che deve essere fermato. Non in nome dell’anonimato dei criminali, ma in nome della libertà di milioni di persone oneste.
La posta in gioco è troppo alta. Il futuro digitale dell’Europa è in bilico. Quello dell’Europa che sognavamo, libera, democratica, dei popoli, sembra sepolto da tempo.
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.