SE CRITICHI IL POTERE, TI CHIUDONO I CONTI

C’è un uomo, a Bruxelles, che cammina con un vangelo nel taschino. Non è un testo sacro, ma un libro che scotta.

Si intitola “Ursula Gates: La von der Leyen e il potere delle lobby a Bruxelles” e racconta cosa accade quando il potere smette di vergognarsi.

Frédéric Baldan non è un ribelle di professione, ma un ex lobbista, un uomo che le istituzioni le conosce dall’interno.

Le sue credenziali parlano il linguaggio dei corridoi del potere europeo. Poi, ha deciso di parlare un altro linguaggio. Quello della denuncia. E il sistema ha premuto un interruttore.

Oggi, Frédéric Baldan è un uomo trasparente per il sistema finanziario. Non esiste più. I suoi conti personali sono evaporati. I conti aziendali chiusi.

Persino il conto intestato a suo figlio di cinque anni, cancellato.

Nagelmackers e ING, le banche belghe, non hanno fornito spiegazioni né hanno contestato illeciti. Hanno solo agito. Con una sincronia che definire sospetta è un eufemismo.

Ebbene, ciò che il caso Baldan rappresenta è la tomba finanziaria per i dissidenti scomodi.

È la prova vivente che chiunque osi sfidare il potere costituito può essere ridotto, in ventiquattr’ore, a una non-persona finanziaria. Senza contanti, non solo non potresti pagare un avvocato per difenderti, ma non potresti comprare neppure una bottiglietta d’acqua.

LA PROFEZIA DEL RICATTO DIGITALE

Per anni, siamo stati trattati come profeti di sventura che mettevano in guardia contro l’abolizione del contante. Ci tacciavano di complottismo, di arretratezza. Il futuro, ci dicevano, è digitale, è comodo, è tracciabile.

E non volevano sentire che fosse anche l’arma più potente per ricattare persone scomode.

Il denaro fisico è l’ultimo, umilissimo presidio di libertà individuale. È anonimo. È decentralizzato. È resistente. Non può essere spento con un clic.

Il denaro digitale, al contrario, è un’arma di controllo potenzialmente assoluta. È la leva perfetta per il silenziamento.

Baldan lo ha scoperto sulla propria pelle e, al pari di quanto accaduto a Francesca Albanese, Alto Commissario ONU, dimostra che avevamo ragione. Senza contante, il potere può ricattare chiunque dissenta.

Dopo aver denunciato la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per abuso d’ufficio, distruzione di documenti pubblici e corruzione, la vita di Baldan è diventata difficile.

L’isolamento professionale, la revoca dell’accredito. E infine, il de-banking.

La sua unica colpa è aver osato chiedere conto degli SMS spariti, delle trattative opache con l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla, durante la pandemia.

La Corte di Giustizia dell’UE gli ha dato ragione, stabilendo l’illegittimità del silenzio della Commissione. Ma quella vittoria legale si è trasformata in una condanna esistenziale, poiché, a quanto pare, von der Leyen sembra agire indisturbata, come se non dovesse rispettare niente, non le leggi, non le norme, e nemmeno il diritto.

IL MECCANISMO PERFETTO. IL SILENZIO AMMINISTRATIVO

Non servono più i manganelli, come si faceva un tempo. Basta una comunicazione bancaria standard. Un “la ringraziamo per averci scelto” che significa “la sua esistenza finanziaria è terminata”.

È una violenza pulita, asettica, inappellabile.

È il potere di escludere senza doversi sporcare le mani.

Baldan conosceva i meccanismi. Ora ne è vittima. E la sua storia non è un caso isolato, ma un protocollo. È il manuale d’istruzioni per neutralizzare chiunque rappresenti una minaccia narrativa al potere costituito.

Ti privano della piattaforma finanziaria, e quindi della capacità di agire nel mondo.

Sei libero di parlare, dicono, ma non di pagare un affitto, le bollette, un biglietto del treno, se ti permetti di criticare e dissentire in maniera pericolosa per il potere.

È una gabbia dorata e invisibile che chiamiamo democrazia.

Ciò che è capitato a Baldan potrebbe accadere a me, a te, a chiunque altro. Basta una denuncia, un articolo, una posizione scomoda.

Basta diventare un nome sulla lista di chi dissente.

Senza il contante come rete di salvataggio, come ultimo, disperato strumento di autonomia, il ricatto diventa totale. E, dalla sera alla mattina, anche un miliardario può diventare nullatenente.

Il potere dispotico non ha più bisogno di farti a pezzi, perché gli basta renderti invisibile al sistema dei pagamenti. È una morte civile iper-tecnologica.

La storia di Frédéric Baldan non è un campanello d’allarme, ma un’intera orchestra di fiati che suona a volume elevato. È la prova che i nostri timori non erano paranoici e che, ancora una volta, quanto previsto da Tamago si sta verificando.

L’abolizione del contante non è una questione di modernità, ma di libertà. È il diritto a esistere, finanziariamente, anche quando il potere decide che la tua voce è un disturbo da eliminare perché pretendi giustizia, buonsenso e verità.

Oggi tocca a un ex lobbista di Bruxelles. Ieri è toccato persino a Alto funzionario dell’ONU.

Domani potrebbe toccare a un giornalista, a un attivista, a un imprenditore, a un politico che ha osato sfidare lo status quo.

Perché, parliamoci chiaro: quando non resterà che il digitale, chi sarà abbastanza coraggioso da denunciare chi può premere un interruttore per cancellare la sua possibilità di vivere?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

CHI SEGUE LA MODA NON SI ANNOIA MAI

di Danilo Preto

Niente di più affascinante di seguire la moda in tutte le sue sfaccettature. Mi riferisco non tanto alla moda indossata, vista nelle passerelle, letta nelle riviste, visualizzata nei programmi tv dedicati e nei telegiornali, bensì a tutto quello che ruota attorno a questo mondo.

Partiamo dall’alto: dalla politica (non sembri strano), dal mercato, dalle Maison, dalle tendenze, dai “creativi”, dai produttori, dagli addetti ai lavori della filiera, ai gestori e commesse dei negozi diretti o in franchising o nei multibrand. Ovviamente parliamo di grandi firme.

E cambia tutto in poco tempo. Perché altrimenti ci si annoia

Partiamo dalla politica. Come avevamo preannunciato, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, rappresentato dal ministro Adolfo Urso, ha messo in campo quello che era stato chiesto a gran voce dal comparto moda.

Il ministero informa che è stato introdotto “un innovativo sistema di certificazione della filiera su base volontaria da parte di soggetti abilitati alla revisione legale, che verificherà la regolarità contributiva, fiscale, giuslavoristica delle imprese lungo tutto il processo produttivo dalla capofila fino ai subfornitori verificando l’assenza di condanne o sanzioni per i titolari o amministratori in materia di lavoro e sicurezza”.

Inoltre, per rafforzare la difesa della assoluta trasparenza verrà istituito un registro pubblico delle certificazioni presso il Ministero e le aziende iscritte potranno così utilizzare la dicitura “filiera della moda certificata” nelle attività promozionali.

Almeno se si voleva un intervento legislativo a difesa del Made in Italy, ora c’è.

Vi ricorderete che sei Maison italiane erano state accusate dal Tribunale di Milano di non rispettare le regole sul lavoro in fatto di produzione dei loro capi ed erano state poste in amministrazione giudiziaria?

La richiesta di una normativa a difesa di chi si sentiva depauperato del loro corretto comportamento sulla filiera di produzione, era partita immediatamente e prontamente Adolfo Urso ha presentato un disegno di legge in difesa del comparto.

E come risponde il mercato?

Sul fronte del mercato, c’è tutta una lettura o riscrittura tendente ad avvicinare un nuovo approccio al consumo, alcuni dicono all’ingordigia, di possedere nuovi capi firmati.

Via quindi al nuovo poderoso mercato del riuso e del second hand milionario dove anche le grandi aziende della moda ricorrono per tentare di recuperare le perdite subite nelle loro abituali tranche di acquirenti.

Al di là delle Fashion Week europee, asiatiche, americane e Centro/Sudamericane, la parola d’ordine oggi sembra sia “stanchezza”.

Perché è cambiato il modo di vivere, di ragionare, di comportarsi, di relazionarsi, di rimanere al passo con i tempi sempre più veloci e imprevedibili.

Non ci pensa nessuno. O facciamo finta che…

Eppure la geopolitica è cambiata e con essa anche il consumo di moda. Forse sta arrivando una ondata di revisionismo positivo aspetto alla tracotanza comportamentale proposta dalla moda dagli anni ‘30 fino ad oggi.

Il mondo è cambiato, i consumatori sono cambiati. Che sia arrivato il momento di rivedere globalmente il nostro modello di vita? Meno sfarzo, più positività, più democrazia, più condivisione economica e finanziaria e di reddito pro-capite è ancora possibile?

Il numero di guerre dichiarate o latenti, di genocidi, di sopraffazioni imposte dalla religione o da lotte etniche, tribali che sembravano essere scomparse nel fumo del tempo, ci stanno ad indicare che nulla è cambiato, e i continui successi vantati in molti campi, niente hanno a che vedere/mitigare con l’attuale tragica situazione globale.

Le Maison: queste conosciute

I nomi sono sempre gli stessi, da una vita o quasi. Nomi nuovi? Beh, si. Se poi il mondo si divide in due grandi concentrazioni e molti piccoli/medi produttori, che comunque hanno il loro grande significato in termini di proposte nel tentativo di scrivere nuovi capitoli, capiamo bene come sembra sia tutto comprensibilmente ingessato.

LVMH e KERING la fanno da padrone in termini di fatturato e di confronto (anche fra di loro) rispetto al possesso dei brand più iconici e storici. Gucci, Prada, Valentino,..

Non sono tutte rose e viole

Anzi per la verità sembrano esserci più spine che polpa visti i risultati dichiarati, tant’è che spesso bisogna ricorrere a profondi cambiamenti strutturali o a qualche rinuncia importante all’interno dei bilanci delle griffe blasonate.

Vale soprattutto per gli immobili di prestigio e per le loro collocazioni sulle mainstreet della moda. Milano, Parigi, Londra, New York… Il ricorso a Luca De Meo, ex pupillo di Sergio Marchionne in Fiat ed ex AD di Renault ed ora amministratore delegato di kering la dice lunga.

De Meo ha dichiarato che bisogna dedicare molte più ore al lavoro e migliorarne la qualità.

Chiaro? Una ricetta, un richiamo?

Colpa degli stilisti? Pardon, marketing manager con la matita facile?

Un fragoroso rimescolamento di posizioni in tempi così brevi fra gli   stilisti della moda non si era mai vista. Ovviamente c’erano i nuovi, anche dei riciclati dei quali però ci si fidava inizialmente poco, ma non i riciclati di professione.

È solo un problema economico o va rivisto completamente il comparto moda in ambito globale?

La sensazione è quella, da parte del comparto, di non riuscire più a capire completamente dove va il mondo che si veste, che decide cosa comperare rispetto a quello che ha in tasca e ai valori, non solo estetici, espressi dai brand.

Il tutto bianco o comunque dello stesso colore imperante a Milano e a Parigi nelle ultime sfilate, lascia un po’ allibiti e un po’ sconcertati visto che si è ricorso abbondantemente a tutto quello che era stato creato negli anni del boom economico e quindi della moda.

Abbiamo pescato proprio nel profondo dello storico, negli esordi.

E cosa ci è rimasto ora di nuovo se non l’utilizzo di materiali diversi, di stravaganze poco gradite, anche da chi vorrebbe uniformarsi e diventare il protagonista per strada di quello che ha visto sui giornali o in televisione lustrandosi gli occhi e sperando che qualcuno noti la sua nuova mise.

Se poi incautamente abbiamo mangiato una pastasciutta abbondante e ricca o bevuto una birra di troppo, potremmo tranquillamente essere annoverati nelle/nei curvy. Non preoccupatevi.

Eppure tutto va bene se si vende qualcosa a qualcuno che ha ancora qualche soldo in tasca da spendere facendo contente le Maison, invidiare gli amici e appagando il proprio ego.

Il mondo va avanti in ogni caso. Griffe o non griffe. 

Guerre permettendo.

Dott. Danilo Preto

Giornalista pubblicista, Scienze Politiche, Esperto di Comunicazione e arte concettuale.

Un'analisi critica sull'industria della moda tra certificazione di filiera, leggi sul Made in Italy, mercato del riuso e lo stordimento di un settore in cerca di una nuova identità. Per chi non si accontenta delle superfici.

GLI IRLANDESI AFFOSSANO LE POLITICHE DI VON DER LEYEN E DEI GUERRAFONDAI DI BRUXELLES

Non è stato solo un conteggio di voti quello di Dublino, ma un verdetto quasi plebiscitario contro l’Europa della guerra.

L’elezione di Catherine Connolly alla presidenza dell’Irlanda, con una valanga di preferenze che ha polverizzato la candidata dell’establishment e vicina alle politiche guerrafondaie dell’Europa, non è un’anomalia locale o un capriccio celtico, ma il sismografo che registra il terremoto che sta scuotendo le fondamenta del progetto europeo.

Un terremoto silenzioso, ignorato dai palazzi del potere, ma assordante nelle urne di qualunque nazione, dalla Romania alla Germania, alla Francia.

Ovunque si voti, chi vuole questa Europa del riarmo perde o vince a fatica.

Connolly, 68 anni, avvocatessa, pacifista, fortemente critica nei confronti della NATO e della “militarizzazione” dell’UE, non ha vinto per il suo carisma o per un’abile campagna social, ma perché è diventata il megafono di un sentimento represso, ma dilagante in tutto il continente.

Un sentimento semplice, quasi primordiale.

La gente non vuole la guerra. E non vuole pagare il prezzo della follia di questa Europa.

Ad ogni elezione, da Bratislava a Parigi, da Berlino a Dublino, gli europei stanno inviando lo stesso, disperato messaggio ai loro leader. Un messaggio che viene sistematicamente frainteso, minimizzato o etichettato come populismo dall’autocrazia al potere.

Ma ignorare questo segnale non è più solo negligenza politica, bensì un suicidio che rischia di polverizzare il progetto europeo.

UN “NO” CHE ATTRAVERSA L’EUROPA

La vittoria di Connolly è l’ultimo capitolo di una saga che si sta scrivendo in tutta Europa, lontano dai riflettori puntati sulla leadership di Bruxelles.

Guardiamo alla Slovacchia. Robert Fico ha vinto promettendo di non inviare “un solo proiettile” in Ucraina.

Non ha vinto perché gli slovacchi sono filorussi, ma perché, mentre l’inflazione erodeva i salari, i suoi cittadini non capivano perché le priorità fossero i carri armati e non i loro conti in banca.

Guardiamo alla Germania, il motore economico e ora anche militare del Continente.

Mentre il governo Scholz, guidato da un Partito Socialdemocratico che ha tradito la sua storica Ostpolitik, stanziava 100 miliardi di euro per il riarmo, guadagnavano consensi gli estremi puntando su pacifismo, fine delle sanzioni e diplomazia.

Merz ha vinto le ultime elezioni, ma il suo governo ha una maggioranza da cardiopalma e il suo governo può crollare a ogni alito di vento.

Gli estremismi in Germania stanno crescendo vertiginosamente perché parlano alla Germania profonda, quella che ricorda le rovine del 1945 e che non vede alcun beneficio nel trasformare l’Europa in una fortezza armata fino ai denti.

La gente ha freddo. Il pane costa di più. L’energia è un lusso. Ma gli oligarchi pensano alle armi e alle guerre.

Questa è la cruda realtà economica che fa da sfondo al grande teatro geopolitico.

L’autocrazia che governa l’Unione Europea, un’alleanza non eletta di burocrati della Commissione e leader nazionali che agiscono in un “consenso di Bruxelles” a porte chiuse, lontanissimo dal volere dei popoli, parla un linguaggio incomprensibile per gli europei.

Parla di “autonomia strategica”, “pilastro europeo della NATO”, “economia di guerra”.

Ma le famiglie europee parlano il linguaggio dei bilanci domestici, della spesa e della pace.

E in quel bilancio, i miliardi spesi per l’industria bellica sono miliardi sottratti a sanità, istruzione, pensioni e ambiente.

LA DISSONANZA COGNITIVA DI UN’ÉLITE SCOLLEGATA

In pratica, esiste una voragine semantica, un abisso narrativo, tra l’élite europea e i suoi popoli.

L’élite vede il mondo attraverso il prisma di un conflitto esistenziale tra democrazie e autocrazie, una narrazione importata direttamente da Washington per evitare il crollo dell’impero americano ai danni degli europei, che pagano gas e petrolio quattro volte di più e non possono più esportare in Russia.

I cittadini europei lo vedono attraverso le loro vite. Vedono un’inflazione alimentata dalle sanzioni, una crisi energetica auto-inflitta e una retorica marziale che evoca i peggiori fantasmi del Novecento.

Insomma, questa Europa ha fallito e le elezioni diventano l’unico strumento, per quanto imperfetto, per esprimere questa che non è opinione, ma un dato di fatto: gli europei non vogliono la politica di guerra.

Catherine Connolly è stata votata non solo per le sue posizioni pro-Palestina o per la sua critica agli Stati Uniti, ma perché dice ciò che milioni di persone pensano, ma che nessun leader intorno a von der Leyen e nessun giornalista del mainstream ha il coraggio di affermare, ovvero che la neutralità non è codardia, ma saggezza.

Che la diplomazia non è resa, ma forza.

Che investire nel benessere dei propri cittadini è la forma più alta di sicurezza nazionale.

E, diciamolo, che la guerra è l’unica salvezza di leader che non ne hanno azzeccata mezza negli ultimi quattro anni.

Il 13% di schede nulle in Irlanda, un record storico, è un altro urlo nel silenzio. È il grido di chi si sente senza rappresentanza, intrappolato tra un establishment bellicista in cui non si vuole identificare e alternative considerate impresentabili. È il sintomo più grave della crisi di legittimità che attanaglia l’Europa.

IL VERO MOTORE DEL PACIFISMO POPOLARE

L’Unione Europea sta deviando risorse colossali verso il settore della difesa in un momento di stagnazione economica e debito pubblico record.

La Banca Centrale Europea alza i tassi per combattere un’inflazione in gran parte causata da shock esterni (energia, catene di approvvigionamento) e da scellerate scelte politiche (sanzioni), strangolando le economie nazionali e le imprese europee.

Un suicidio.

Nel frattempo, la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, che agisce più come un ministro degli Esteri e della Difesa che come la custode dei trattati, promuove piani di riarmo che arricchiscono un ristretto complesso militare-industriale.

Non è un piano per la sicurezza europea, ma un massiccio trasferimento di ricchezza pubblica verso interessi privati, giustificato da una paura che viene scientificamente alimentata.

È una politica che dovrebbe essere discussa nelle aule dei tribunali poiché si tratta di alto tradimento e di un furto nei confronti dei popoli europei.

Gli agricoltori che bloccano le capitali con i loro trattori e gli elettori che scelgono candidati come Connolly sono due facce della stessa medaglia ed entrambi dicono che le priorità di von der Leyen, Macron, Merz & C. non sono le nostre.

Gli autocrati al potere stanno sacrificando il nostro presente per un futuro di conflitto che non abbiamo scelto e che non vogliamo.

UNA SCELTA ESISTENZIALE PER L’EUROPA

La vittoria di Catherine Connolly non è la fine della storia, ma l’ennesimo avvertimento.

L’Europa si trova a un bivio esistenziale, poiché può continuare a seguire la strada tracciata da un’élite tecnocratica e bellicista, ignorando il crescente ruggito del dissenso popolare.

In questo modo, però, non farà altro che alimentare le forze centrifughe che già minacciano di disintegrare l’Unione, spingendo masse di elettori verso gli estremi.

Oppure, può ascoltare.

Può capire che la vera forza dell’Europa è nel suo modello sociale, nella sua capacità di garantire pace e prosperità. Può riscoprire la sua vocazione originale: essere un progetto di pace, non l’avamposto di un conflitto per procura.

Le valanghe iniziano con un piccolo crepaccio e l’elezione irlandese è quel crepaccio nel monolite del consenso bellicista europeo.

Altri seguiranno.

Non si tratta di domandarsi se questa valanga silenziosa travolgerà l’attuale leadership, ma quando.

E se, dopo, resterà qualcosa del progetto europeo da salvare se gli scellerati leader si aggrapperanno ancora alla poltrona pur di non ammettere l’evidenza della loro incompetenza e del reale volere degli europei.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL SILENZIO STRATEGICO DELLA RUSSIA E IL CAOS OCCIDENTALE

Il rumore della propaganda è assordante, ma chi non si informa da più fonti ne viene ammaliato.

Un frastuono di notizie, accuse, inversioni di rotta e propaganda che definisce la nostra percezione della guerra in Ucraina.

Pale, muli, microchip, droni, sconfinamenti, attacchi ad aerei inesistenti, sabotaggi al Nord Stream spacciati per attentati russi, poi rivelatisi attentati ucraini, e adesso, persino il divieto di vendere bidet alla Russia.

Sembra una barzelletta, ma è una sanzione dell’Europa a Mosca. La stessa Europa che non batte ciglio per la violazione palese del cessate il fuoco a Gaza da parte di Israele.

Perché quello della propaganda europea non è caos, ma un’architettura comunicativa progettata per confondere, per distrarre, per mantenere l’opinione pubblica in un perenne stato di reattività emotiva e per costruire un nemico indispensabile per giustificare la sottrazione di miliardi al welfare da investire nel riarmo.

Puntando e sfruttando quella parte di popolazione meno incline a usare lo spirito critico.

Ma dietro questa cortina fumogena, come emerge dalla tagliente analisi dell’ex ispettore ONU Scott Ritter in conversazione con il Prof. Glenn Diesen, si dipana una logica ferrea, brutale e inesorabile.

Una logica che l’Occidente, intrappolato nelle sue stesse narrazioni, si rifiuta di vedere.

QUANDO LA GUERRA PER PROCURA SMETTE DI ESSERE TALE

Ci sono spettri nella macchina da guerra ucraina che parlano inglese con accento britannico.

Per mesi, abbiamo assistito a una narrazione semplificata: l’eroica Ucraina contro l’aggressore russo, sostenuta da un Occidente unito, ma distante.

Ritter, con la precisione chirurgica di chi ha passato la vita a decifrare le menzogne di stato e non a scrivere panzane su pale e microchip, squarcia questo velo.

Il recente rapporto dell’FSB russo, che accusa Londra di orchestrare attacchi contro infrastrutture strategiche russe, è semplicemente la pubblicazione di un copione che Mosca legge da tempo.

L’MI6 non è un semplice consulente, ma il burattinaio.

Ritter sostiene, con agghiacciante plausibilità, che i servizi segreti britannici abbiano di fatto assunto il controllo operativo del Presidente Zelensky, coreografandone non solo la sicurezza personale, ma anche la sua immagine pubblica, trasformando un leader in tempo di guerra in un’icona mediatica per il consumo occidentale.

E la vicenda del milione di sterline a Johnson non fa che avvalorare tale tesi.

Ogni apparizione dell’attore diventato presidente, ogni discorso, ogni richiesta appassionata è un pezzo di un teatro meticolosamente costruito.

Gli attacchi con missili Storm Shadow, il sabotaggio del Nord Stream, le incursioni sul ponte di Kerch, non sono atti di disperata improvvisazione ucraina, ma operazioni pianificate, facilitate e forse dirette da un attore distante da Kiev che gioca una partita molto più grande, usando l’Ucraina come scacchiera e i suoi soldati come pedine sacrificabili.

L’ILLUSIONE OCCIDENTALE DI UNA GUERRA A SCADENZA

L’Occidente vive secondo l’orologio delle elezioni.

Donald Trump, in questo senso, è il sintomo perfetto della malattia strategica occidentale. Il suo recente voltafaccia – dall’affrontare le “cause profonde” a un semplicistico “cessate il fuoco” – non è incoerenza, ma il riflesso di un approccio transazionale alla geopolitica, una mentalità da “exit strategy” applicata a un conflitto esistenziale.

Trump, come gran parte dell’establishment che critica, non comprende la profondità delle rimostranze russe. Non afferra che per Mosca, questa non è una disputa territoriale da risolvere con un accordo immobiliare, ma la conclusione di trent’anni di promesse infrante e minacce percepite alla propria sicurezza nazionale per colpa dell’allargamento a Est della NATO.

La Russia non gioca contro il tempo; gioca con il tempo.

Il suo calendario non è scandito dalle elezioni di medio termine o dalle presidenziali, ma dalla demografia, dalla capacità industriale e dalla volontà politica. Proporre un “cessate il fuoco” senza affrontare le questioni della neutralità ucraina e dell’architettura di sicurezza europea è come mettere un cerotto su una ferita da arma da fuoco.

È un gesto performativo, utile per una campagna elettorale, ma strategicamente vuoto. Putin ha già esplorato questa via, per poi vedere gli accordi traditi. Non ci ricadrà.

La stupidità, come diceva Einstein, è fare e rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi.

OLTRE LA PROPAGANDA DEI NUMERI

Smettiamo di guardare le mappe. Iniziamo a guardare i cimiteri.

La vera natura di questo conflitto non si trova nelle frecce colorate che avanzano e si ritirano di pochi chilometri sui notiziari serali, ma nella guerra di logoramento.

L’Occidente, con la sua dottrina militare post-Guerra Fredda focalizzata su conflitti rapidi e tecnologicamente superiori, ha dimenticato la lezione fondamentale delle due guerre mondiali.

Una guerra di logoramento non la vince chi conquista più territorio nel breve termine, ma chi distrugge la capacità del nemico di continuare a combattere.

Ritter cita rapporti di perdite che, se anche solo parzialmente veri, sono catastrofici per l’Ucraina: 10, 20, a volte 30 soldati ucraini per ogni soldato russo.

Non sono numeri, ma generazioni ucraine perdute, il futuro di una nazione macinato in un tritacarne.

E il logoramento è duplice, perché la Russia non sta solo prosciugando la riserva di manodopera dell’Ucraina, ma sta metodicamente distruggendo le costose e limitate attrezzature fornite dalla NATO, costringendo l’Occidente a svuotare i propri arsenali.

In pratica, mentre le fabbriche di armi occidentali lottano per aumentare la produzione dopo decenni di de-industrializzazione, la base industriale della difesa russa è entrata in piena economia di guerra, producendo, secondo alcune stime, a un ritmo quattro volte superiore a quello dell’intero blocco NATO.

Stiamo inviando i nostri gioielli tecnologici a pezzi, così la Russia li sta trasformando in rottami a un costo irrisorio, usando proiettili d’artiglieria da poche migliaia di dollari, conservando i suoi arsenali di armi più avanzate e costose. È una strategia industriale, prima ancora che militare.

IL SIPARIO CHE CALA

La confusione, in ultima analisi, è un lusso che solo chi è lontano dal fronte può permettersi. Sul campo, la realtà è chiara. L’Ucraina sta collassando. Economicamente, demograficamente, militarmente.

L’Europa affronta una de-industrializzazione auto-inflitta e una crisi energetica che persisterà per anni. Gli Stati Uniti, guidati da un’élite politica che oscilla tra l’illusione ideologica e l’incompetenza manifesta, non hanno un piano B.

La Russia, al contrario, ha una strategia. Può non piacerci, possiamo demonizzarla, ma esiste.

È una strategia paziente, brutale, basata sulla consapevolezza della propria superiorità industriale e sulla volontà di sopportare un dolore che le società occidentali, abituate al comfort e alle soluzioni rapide, non possono più concepire e, prima o poi, si rivolteranno contro i loro padroni, quei leader che hanno dimostrato di essere nani politici.

Il rumore mediatico della propaganda continuerà. Ci saranno nuove “controffensive”, nuove “armi miracolose”, nuove ondate di sanzioni. Come la controffensiva risolutiva del maggio 2023, come gli F16, come gli ucraini dal perfetto inglese entrati in Russia, di cui non si parla più da oltre un anno.

Ma sono solo le convulsioni di un paradigma che sta morendo. Il vero dramma si svolge nel silenzio dei cimiteri ucraini e nella fredda logica delle fabbriche russe che lavorano 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Ci è stato detto che odiare Putin è una politica.

Abbiamo scoperto che è solo il sostituto di una politica europea che non esiste. E nel silenzio che seguirà, quando il rumore cesserà e la polvere si poserà, potremmo finalmente essere costretti ad ascoltare la verità che abbiamo sempre ignorato.

E, per i tanti che ancora credono alle sciocchezze di chi ha spacciato per veri pale e microchip, sarà un risveglio brutale.

Potete accedere all’intervista del Prof. Gleen Diesen a Scott Ritter, ex Maggiore, Ufficiale dell’Intelligence, Marine degli Stati Uniti e Ispettore per le Armi delle Nazioni Unite, cliccando sul seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=2eIk0FB3oYI&t=326s
Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

FARG² E LA POLITICA COME CURA. A ROMA L’ARTE SMASCHERA IL BULLISMO E INTERROGA L’EUROPA

di Redazione

C’è un’arte più alta della legislazione, più profonda della diplomazia.

È l’arte di avere cura degli uomini. Di tutti. Non è una massima filosofica da incidere nel marmo dei palazzi istituzionali, ma l’architrave su cui si fonda, o dovrebbe fondarsi, ogni comunità.

Martedì 21 ottobre, a Roma, questa verità si è manifestata allo Spazio Europa, il luogo che più di ogni altro rappresenta la promessa di un’unione di popoli soffocata dall’autocrazia europea.

Lì, dove campeggia una scultura blu che stilizza un cuore accanto alle lettere “EU”, l’arte ha costretto la politica a guardarsi allo specchio, a confrontarsi con le sue crepe e i suoi fallimenti più intimi.

A confrontarsi con il bullismo.

Perché il bullismo, nella sua brutale essenza, è un fallimento politico. È il collasso del patto sociale su scala microcosmica. È la negazione radicale del principio di cura.

Così, l’evento “Voci d’Europa – L’Arte contro il Bullismo” non è stato solo un convegno, ma una requisitoria. Un’assemblea costituente dell’anima, dove il dolore privato è diventato manifesto e la creatività si è fatta strumento di indagine e sutura.

SPAZIO EUROPA: IL PALCOSCENICO DI UNA PROMESSA

Angiolina Marchese, Presidente di Art Global, e la curatrice Rosanna Vetturini, hanno scelto proprio questo luogo come simbolo per portare il dibattito sul bullismo all’interno della sede del Parlamento e della Commissione Europea in Italia, evento che significa porre una domanda fondamentale: che se ne fa, l’Europa, della sua gioventù ferita? Cosa produce il grande apparato normativo e burocratico di Bruxelles quando un ragazzo viene annientato psicologicamente nel cortile di una scuola a Palermo, a Varsavia, a Lione?

Ma, in chiave ancora più dirompente, come può emergere l’Europa dei popoli se a comandare sono oligarchi che se ne infischiano di quanto emerge dalle elezioni?

I saluti istituzionali dell’On. Susanna Ceccardi e del Consigliere Fabrizio Santori non sono stati un rito formale, ma una presa d’atto. O, almeno, si spera.

La presenza delle istituzioni su quel palco era l’ammissione di una corresponsabilità, il riconoscimento che la cura dell’individuo, specialmente del più vulnerabile, è il primo, non l’ultimo, dei doveri di chi governa. La politica che non previene il bullismo è una politica che abdica alla sua funzione primaria.

IL DOLORE CHE DIVENTA MANIFESTO: LA TESTIMONIANZA PER PAOLO MENDICO

Il momento in cui ogni teoria sociologica, ogni analisi criminologica, ogni discorso politico si è dissolto di fronte alla nuda verità dell’esperienza umana è arrivato quando hanno preso la parola Giuseppe Mendico e Simonetta La Marra, i genitori di Paolo, una giovane vita spezzata dalla violenza del branco.

Non hanno urlato. Non hanno chiesto vendetta. Hanno parlato.

Le loro parole, portate in una sala dove il silenzio si era fatto denso, quasi solido, hanno compiuto un’operazione alchemica, trasformando il lutto più insopportabile in un seme di consapevolezza universale.

Hanno parlato del bisogno di ascolto, di quella disattenzione adulta che diventa complicità, di quel vuoto che si riempie di mostri. Ascoltarli non è stato assistere a una testimonianza, ma è stato partecipare a un atto politico di radicale umanità.

La loro dignità è diventata un atto d’accusa verso una società che spesso preferisce girarsi dall’altra parte.

In questo silenzio, l’opera “Wings of Love” dell’artista Fabiana Sepe, donata alla famiglia, non è stata un semplice omaggio ma la risposta dell’arte che, di fronte all’abisso, non offre spiegazioni, ma costruisce un ponte. Un paio d’ali per una memoria che deve continuare a volare, a farsi monito e speranza.

L’ARSENALE DELLA CURA: ARTE, ISTITUZIONI E CONOSCENZA

L’evento ha dispiegato, uno dopo l’altro, tutti gli strumenti di cui una comunità dispone per esercitare l’arte della cura.

La conduzione di Barbara Castellani ha tessuto i fili, creando un dialogo continuo. Le analisi lucide di esperti come la criminologa Stefania Cacciani e la psicopedagogista Maria Rita Parsi hanno sezionato il fenomeno, smontandone i meccanismi e rivelandone le radici culturali e sociali.

Figure come Maria Antonia Spartà hanno ricordato il ruolo imprescindibile della legalità, mentre l’esperienza di Massimiliano Ferragina ha portato la prospettiva cruciale della scuola, la prima linea di questa guerra silenziosa.

E poi, le voci di chi ha trasformato le proprie cicatrici in una bandiera. Raffaele Capperi, che ogni giorno combatte contro l’ignoranza e il pregiudizio legati alla sindrome di Treacher Collins. Nadia Rinaldi e Luigi Zeno hanno usato la loro notorietà per amplificare un messaggio che deve diventare virale: il rispetto non è un’opzione, ma l’infrastruttura della convivenza.

La musica stessa, con l’Ave Maria di Schubert offerta dalla soprano Sara Pastore, ha trasceso il dibattito per toccare una corda più profonda, quasi spirituale, ricordandoci la dimensione sacra di ogni singola vita umana.

IL CAPITALE CREATIVO: GLI ARTISTI COME AGENTI DI CAMBIAMENTO

Il vero filo conduttore, visivo e concettuale, è stata la mostra collettiva. Un’esplosione di linguaggi e sensibilità.

Dalle opere del duo Farg², Francesca Ghidini e Alessandro Rinaldoni, che con acume intellettuale esplorano le dinamiche relazionali, a quelle degli studenti della 5F Arti Figurative.

Ogni tela, ogni scultura, non era un oggetto decorativo. Era una tesi. Un’argomentazione visiva. Un frammento di un discorso collettivo che afferma che la dignità non è negoziabile.

Il riconoscimento al giornalista Francesco Marrapodi ha chiuso il cerchio, evidenziando il ruolo critico dell’informazione. Un’informazione che non si limiti a riportare la cronaca della violenza, ma che ne indaga le cause, promuove la cultura del rispetto e costruisce narrazioni alternative. Un’informazione che, in sé, è una forma di cura sociale.

DALLA CURA DEL SINGOLO ALLA SALUTE DELL’UNIONE

“Voci d’Europa” è stato molto più di un evento di successo. Ha dimostrato che la lotta a una piaga sociale come il bullismo non si vince con leggi calate dall’alto o con slogan vuoti. Si vince costruendo ecosistemi di cura. Reti in cui istituzioni, artisti, scuole, famiglie, media e cittadini collaborano, ognuno con i propri strumenti, a un unico scopo: assicurarsi che nessuno venga lasciato indietro.

La vera arte del politico, oggi più che mai, non è vincere le elezioni, ma vincere l’indifferenza.

Non è gestire il potere, ma distribuire cura. È capire che un ragazzo umiliato in una classe è una crisi europea tanto quanto un trattato economico disatteso. Perché una comunità che non sa proteggere i suoi figli è una comunità che non protegge gli adulti di domani, una comunità senza futuro.

L’Europa, quella sera a Roma, ha smesso per qualche ora di essere un’entità astratta e si è fatta volto, lacrima, abbraccio e opera d’arte. Ha ricordato a se stessa la sua missione più vera. Avere cura di tutti gli uomini. L’unica politica che merita di essere chiamata tale.

Il duo Farg², rappresentato per l’occasione da Francesca Ghidini, ha portato il proprio contributo. D’altronde Ghidini e Alessandro Rinaldoni hanno iniziato il loro percorso insieme proprio grazie a un evento sociale e benefico, perciò è nel loro DNA sviscerare le incongruenze del nostro tempo.

Potete approfondire la loro dimensione artistica direttamente sul loro sito: https://www.farg2.it/

FIAMME E FINANZA, COME L’EUROPA SI STA DISTRUGGENDO CON LE SANZIONI

Mentre le sanzioni contro Mosca si rivelano un’arma autolesionista, che danneggia soprattutto il Vecchio Continente, una serie di misteriosi “incidenti” colpisce le sue stesse infrastrutture energetiche.

Un’inchiesta su una guerra economica combattuta su due fronti: uno dichiarato e uno nascosto.

TRE ESPLOSIONI NEL CUORE D’EUROPA

Un odore acre di petrolio bruciato si sta diffondendo sull’Europa orientale.

Non proviene dal fronte ucraino, ma dal nostro continente.

In una manciata di ore, tre fiammate quasi simultanee hanno squarciato la notte in Ungheria, Slovacchia e Romania. Tre raffinerie. Tre incidenti. Tre pilastri della nostra sicurezza energetica che vacillano.

La propaganda occidentale parla di coincidenze, di sfortunate fatalità industriali.

Ma quando le coincidenze si allineano con la precisione di un’operazione militare, un giornalista serio ha il dovere di porre domande, anche scomode.

Per esempio, si tratta di semplici incidenti o di altro?

Il filo rosso che unisce queste tre colonne di fumo è inequivocabile: tutte e tre le strutture processano greggio russo, arterie vitali che, nonostante la retorica bellica, continuano a pompare il sangue che tiene in vita la nostra economia. Anche l’Italia.

E sembra proprio che qualcuno abbia deciso che queste arterie vadano recise. Ma chi tiene in mano il bisturi?

IL TEATRO DELLE SANZIONI ALLA RUSSIA

Proprio mentre le sirene ululavano in Romania, a Washington e a Bruxelles andava in scena l’ennesimo annuncio di vittoria.

Gli Stati Uniti hanno varato nuove sanzioni contro i colossi petroliferi russi Rosneft e Lukoil.

L’Unione Europea ha approvato il suo diciannovesimo pacchetto di misure restrittive. I titoli dei giornali, con la consueta fanfara, hanno parlato di un colpo mortale all’orso russo, di un Putin ormai alle corde, di una vittoria quasi certa.

Una litania che doveva essere l’ultima tre anni e mezzo fa, invece siamo alla diciannovesima.

E, anche stavolta, i numeri, aridi e spietati, raccontano un’altra storia. Una storia di autolesionismo.

Le conseguenze di queste sanzioni non si sono fatte attendere, infatti.

Secondo Reuters, non certo al soldo di Putin, il prezzo globale del petrolio greggio ha registrato un’impennata “vertiginosa” del 5% in un solo giorno.

Perché se si limita l’offerta di un bene essenziale sul mercato globale, il suo prezzo sale. Per tutti. Soprattutto per chi, come l’Europa, ne è un acquirente disperato, non un venditore.

Gli Stati Uniti, esportatori netti di energia, osservano e traggono profitto. Noi, europei ed italiani, paghiamo il conto.

È la stessa miope logica che vediamo applicata ai nostri bilanci nazionali. In Italia, il governo si vanta di aver aumentato i fondi per la sanità, omettendo che l’incremento è nettamente inferiore al tasso di inflazione.

In termini reali, ciò significa che i nostri ospedali hanno meno soldi per acquistare medicine e pagare i medici, non di più.

Si propaganda un taglio come fosse un investimento. Allo stesso modo, festeggiamo le sanzioni che ci strangolano, illudendoci di strangolare il nemico.

La Russia, nel frattempo, aveva previsto tutto.

Come confermato da ex consulenti della sua Banca Centrale, da mesi Mosca ha riorientato i suoi flussi commerciali, stipulando accordi in Yuan e Rubli con partner come Cina e India.

Le sanzioni sul dollaro, che sarebbero state devastanti un anno fa, oggi arrivano tardi. Troppo tardi per Mosca. Ma in perfetto orario per far male all’Europa. Per far del male solo a noi.

L’IDEOLOGIA DEL SABOTAGGIO: QUANDO L’ALLEATO DIVENTA UNA MINACCIA

Coincidenze, si diceva.

Ma il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, primo atto di questa tragedia, ci ha insegnato a essere scettici.

Oggi sappiamo che gli attentatori erano ucraini. Non sappiamo se gli USA abbiano avuto un ruolo, ma certamente non è stata la Russia a provocare il peggior attentato a infrastrutture europee dal 1945, ma quelli che consideriamo nostri alleati.

E, anche questa volta, tra le tre capitali, solo due hanno vantaggi dalle esplosioni alle raffinerie, e di certo non Mosca.

Le dichiarazioni dei leader polacchi, come l’ex Ministro degli Esteri Sikorski, che ringraziò apertamente gli USA per la distruzione del Nord Stream, o quelle del Primo Ministro Tusk, secondo cui “sabotare un invasore non è un crimine”, non possono essere archiviate come semplici boutade.

Rappresentano, invece, la verbalizzazione di una nuova, spaventosa dottrina: la santificazione del terrorismo infrastrutturale, persino contro un alleato come la Germania, se serve a perseguire un obiettivo geopolitico superiore.

Se questa è la logica, allora le raffinerie in Ungheria e Slovacchia, paesi che hanno mostrato scetticismo verso la linea dura contro Mosca, diventano bersagli legittimi.

E gli “incidenti” smettono di sembrare tali. Diventano avvertimenti. Messaggi inviati non solo a Mosca, ma anche ai partner europei “titubanti”. Un promemoria brutale su chi comanda davvero l’alleanza.

LA DOPPIA PARTITA: GUERRA SUL CAMPO, DIPLOMAZIA NEI SALOTTI

Eppure, mentre l’aria in Europa si fa irrespirabile, da Washington giunge una melodia diversa, quasi surreale.

L’inviato speciale di Putin, Kirill Dmitriev, dopo un incontro con l’amministrazione americana, dichiara alla CNN che una “soluzione diplomatica è vicina”.

Come può essere? Come possono coesistere l’escalation delle sanzioni, i sabotaggi e i venti di pace?

Questa dissonanza cognitiva riflette la doppia realtà del conflitto. Sul campo, l’Ucraina è in affanno.

Lo stesso Zelenskyy, abbandonata la retorica della “vittoria totale”, parla ora di “congelare la linea del fronte”, un eufemismo per una tregua disperatamente necessaria. La guerra di logoramento sta erodendo le sue forze e lo stanno costringendo sempre di più all’angolo.

Ma sul piano della guerra economica, la partita è diversa.

L’obiettivo non è più solo la vittoria militare di Kiev, ma un indebolimento strategico e permanente di due potenze: la Russia come rivale globale e l’Europa come concorrente economico.

In questo gioco, le sanzioni e i sabotaggi non sono strumenti per finire la guerra, ma per prolungarla, per rendere il danno all’economia europea strutturale e irreversibile.

L’EUROPA COME CAMPO DI BATTAGLIA ECONOMICO

La scacchiera è chiara a chiunque non sia miope.

L’Europa si trova stretta in una morsa: da un lato, subisce le conseguenze delle proprie sanzioni, un boomerang economico che colpisce i suoi cittadini e le sue industrie; dall’altro, vede le sue stesse infrastrutture vitali diventare bersagli in una guerra ibrida condotta da attori che, sulla carta, dovrebbero essere suoi alleati.

In pratica, i veri nemici li abbiamo in squadra e i festeggiamenti per ogni nuova sanzione assomigliano sempre più a un ballo macabro sul ponte del Titanic.

Ogni misura che dovrebbe indebolire la Russia finisce per aumentare il costo della vita a Roma, Berlino e Parigi, rendendo le nostre imprese meno competitive e le nostre famiglie più povere, come dimostrano i fatti di questi ultimi quaranta mesi.

Stiamo finanziando la nostra stessa de-industrializzazione, applaudendo mentre lo facciamo, guidati da leader incompetenti e illusi da giornalisti che hanno smesso di fare il proprio lavoro per trasformarsi in megafoni del potere.

Abbiamo alleati che stanno sabotando l’Europa. Alleati che sono dentro e fuori dall’Europa.

Perché continuiamo a chiamarli alleati?

E perché leader e giornalisti fanno fina di nulla?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

VERNISSAGE DI “ATTRAZIONE ASTRALE” A CREMONA. LA FILOSOFIA DI MARALBA FOCONE

di Redazione

C’è sempre un’elettricità speciale nell’aria quando diverse forme d’arte si incontrano.

Non si sommano, ma si moltiplicano e creano qualcosa di più corposo, di diverso della somma delle parti.

È quanto accaduto al vernissage di “Attrazione Astrale, Il Viaggio di Floriana Oltre il Velo della Superficie”, mostra personale di Maralba Focone a Cremona.

Un evento che visto dialogare pittura, musica e parola.

LA MUSICA COME PORTALE: IL CONCERTO DI PAOLA TEZZON E GIOVANNI GUERRETTI

Nel video dell’evento, tutto inizia con un violino e un pianoforte.

Le note suonate da Paola Tezzon e Giovanni Guerretti, non un semplice sottofondo, ma un vero e proprio portale sonoro parallelo alla filosofia di Maralba Focone.

Dalla malinconia invernale di Vivaldi a brani più intimi e ricercati di Piazzolla, in un percorso musicale che ha dato vita al prologo perfetto al viaggio visivo, creando uno spazio di silenzio e di ascolto interiore indispensabile per accogliere l’arte di Focone.

Perché le opere di Maralba Focone vanno vissute in contemplazione, meditando come durante una preghiera.

L’UMANITÀ DOLENTE E DIGNITOSA DI MARALBA FOCONE

Le opere di Focone non sono frammenti di esistenze immortalate dall’artista.

I suoi soggetti sono gli “ultimi”, le figure ai margini, colti in abbracci che sono al tempo stesso disperati e salvifici, in una solitudine che non è mai vuota, ma densa di significato.

L’artista lavora per sottrazione, usando la spatola e il pennello piatto per scavare nella materia e far emergere la luce dall’ombra, creando figure che sembrano sul punto di dissolversi, evanescenze catturate un attimo prima di svanire nell’infinito.

In queste opere, dove l’eco di Modigliani e del periodo blu di Picasso si fa sentire come un sussurro familiare, si respira un’umanità dolente, ma incredibilmente dignitosa, che ci interroga sulla nostra stessa fragilità.

Ma come si legge un’anima così complessa?

La risposta l’hanno data i due organizzatori, Daniela Belloni e Pasquale Di Matteo, che nei loro interventi hanno offerto una chiave di lettura profonda e illuminante, attraverso la poetica dell’artista, svelandone la coerenza, la forza e, soprattutto, il valore.

Di Matteo ha puntato i riflettori anche sul valore di Focone in chiave investimento.

Un’opera di Maralba Focone non è un acquisto impulsivo, ma un investimento sulla cultura, sulla storia e su un’identità artistica ormai definita e incrollabile. È un pezzo di storia dell’arte italiana che continuerà a crescere in valore, perché la sua voce è autentica e non insegue le mode.

Potete approfondire cliccando QUI.

Nel video del vernissage avrete la possibilità di partecipare a un momento di rara intensità culturale, di ascoltare il dialogo silenzioso tra le pennellate di Focone e le note del violino, di comprendere perché un’opera d’arte può essere, oggi più che mai, un rifugio e un patrimonio.

Premete play. Ed entrate nel mondo di Maralba Focone.

COME E PERCHÉ È NATA LA GUERRA IN UCRAINA

LA TRAGEDIA DI UNA GUERRA ANNUNCIATA. UN DISASTRO TRA UCRAINA, RUSSIA E NATO

La guerra è un fallimento.

Un fallimento della diplomazia, dell’empatia, della ragione. Ma soprattutto, la guerra è un fallimento della memoria.

Basta leggere qualche commento sui social per accorgersi di come vi siano tanti ancora convinti che un bel giorno di febbraio, nel 2022, Putin, in quanto malvagio, non sapendo che fare decise di invadere l’Ucraina.

Gente che, al più, di storia ha letto qualche dispaccio della propaganda occidentale, quella che raccontava di sanzioni dirompenti, di pale e altre supercazzole.

Ma la storia è fatta di eventi, di fatti.

E il fango delle trincee di Bakhmut, le sirene su Kiev, le vite spezzate nel Donbass non sono nate dal nulla in una gelida alba del febbraio 2022. Sono l’atto finale, sanguinoso e atroce, di una tragedia scritta a più mani nel corso di trent’anni, un copione che abbiamo colpevolmente ignorato, preferendo la rassicurante, ma fallace “teoria della pazzia” alla complessa e scomoda verità storica.

La narrativa dominante in Occidente ha dipinto l’invasione russa come l’imprevedibile capriccio di un autocrate isolato, un delirio imperialista senza causa né contesto. È una spiegazione semplice, quasi confortante. Ma è falsa e non ha più valore di un commento al bar.

La realtà, come emerge da un’analisi spietata dei fatti, è una catena causale di umiliazioni, promesse non mantenute, ingerenze e paure che hanno trasformato una pace possibile in un conflitto inevitabile.

No, non è una giustificazione. Comprendere non è giustificare, ma è il prerequisito per non ripetere gli stessi errori. Ed è un dovere morale verso il popolo ucraino, sacrificato sull’altare di uno scontro tra titani che si combatte sulla sua terra.

LA PRIMA UMILIAZIONE E IL PECCATO ORIGINALE DELLA NATO

Per capire il 2022, dobbiamo tornare al 1999.

In quegli anni, la Russia era in ginocchio. Il “periodo nero” della presidenza Yeltsin aveva lasciato il paese umiliato da tre tracolli devastanti: politico, con il parlamento bombardato nel 1993; militare, con la disfatta nella prima guerra cecena; ed economico, con il default del 1998.

Era una nazione debole, dipendente, disperatamente in cerca di un posto nel nuovo ordine mondiale.

Fu in quel momento di massima vulnerabilità che la NATO, anziché costruire un’architettura di sicurezza inclusiva, scelse di trasformarsi.

Il bombardamento della Serbia, alleata storica di Mosca, senza un mandato ONU, fu il peccato originale.

Ma allora, era lecito non rispettare il Diritto internazionale, perché a non rispettarlo eravamo noi, i buoni.

Quel bombardamento trasformò un’alleanza nominalmente difensiva in uno strumento offensivo, cementando nella psiche russa il sospetto che l’Occidente non fosse un partner, ma un predatore.

La Russia, troppo debole per intervenire, ingoiò l’amaro calice di quella che percepì come la sua prima, grande umiliazione post-sovietica.

L’UCRAINA SULLA SCACCHIERA E IL GOLPE DI MAIDAN

Avanziamo al 2013. L’Ucraina, storicamente un ponte tra due mondi, era un paese costituzionalmente neutrale.

La sua popolazione, divisa tra una componente filo-occidentale e una russofona, aveva eletto un presidente, Viktor Yanukovich, che incarnava proprio questa ambiguità neutralista. Ma la neutralità non era contemplata sulla scacchiera delle grandi potenze.

Due offerte si contesero l’anima di Kiev. Da un lato, un accordo con l’UE, condizionato però da misure di austerità draconiane imposte dal FMI. Dall’altro, un’offerta economicamente più vantaggiosa da parte di Putin. Yanukovich scelse Mosca. La reazione fu Piazza Maidan.

Le proteste, inizialmente genuine, divennero presto il teatro di una delle più sfacciate operazioni di ingegneria geopolitica del XXI secolo. Victoria Nuland, inviata dell’amministrazione Obama-Biden, distribuiva biscotti in piazza mentre ammetteva un “investimento” americano di 5 miliardi di dollari per “aiutare l’Ucraina a raggiungere il futuro che merita”.

In una telefonata intercettata, la stessa Nuland pianificava il futuro governo ucraino con l’ambasciatore USA, liquidando il parere degli alleati europei con un ormai celebre “Fuck the EU”.

Il finale fu un colpo di stato.

Cecchini misteriosi spararono sulla folla e sulla polizia, il caos divampò e il presidente legittimamente eletto fuggì per salvarsi la vita. Al suo posto, si insediò un governo filo-occidentale, con dentro quattro ministri neofascisti, il cui primo ministro era proprio l’uomo scelto da Washington. La neutralità ucraina era morta.

Uno studio condotto dal prof. Ivan Katchanovski, ucraino che vive in Canada ed è docente alla School of Political Studies e al programma di Conflict Studies and Human Rights dell’Università di Ottawa, – non certo uomo di Putin, insomma – ha rilevato cose incredibili su quei cecchini e sui fatti accaduti in quella piazza.

I cecchini responsabili delle uccisioni durante il massacro di Maidan non erano agenti governativi, ma membri pro-Maidan che sparavano da edifici occupati dai manifestanti.

Ha raccolto numerose testimonianze e ammissioni, inclusi 14 membri dei gruppi di cecchini, che collegano leader specifici al colpo di Stato.

Ha dimostrato che le indagini e i processi, tuttavia, sono stati ostacolati dal governo di estrema destra, senza arresti o condanne. Proprio il ruolo dell’estrema destra è stato significativo e violento durante gli eventi di Maidan e nelle conseguenze successive, come il massacro di Odessa.

Le narrazioni ufficiali occidentali, pertanto, sono spesso contrarie alle prove emerse. Sono mera propaganda.

LA GUERRA DIMENTICATA E LA TRAPPOLA DI MINSK

Il golpe del 2014 non portò la pace.

Al contrario, accese la miccia della guerra civile.

L’est e il sud del paese, a maggioranza russofona, non riconobbero il nuovo governo. La Crimea votò per l’annessione alla Russia.

Nel Donbass scoppiò una guerra che l’Occidente ha scelto di dimenticare per otto lunghi anni. Una guerra che, secondo le stime ONU, ha causato 14.000 morti, tra cui migliaia di civili, e centinaia di migliaia di profughi, ben prima dell’invasione del 2022.

Non a caso, lo stesso presidente Sergio Mattarella chiese a Putin di intervenire con tutta la sua influenza per porre fine alla guerra in Ucraina, nelle regioni del Donbass.

Non era febbraio 2022, ma l’11 aprile 2017.

Eppure, tanti italiani non sanno o non ricordano. E l’ignoranza, purtroppo, fa credere a una realtà distorta.

In questo contesto storico nacquero gli Accordi di Minsk, mediati da Germania e Francia. Essi prevedevano un cessate il fuoco e, punto cruciale, uno status di autonomia speciale per il Donbass all’interno di uno stato ucraino federale. Era la via d’uscita diplomatica. Una via mai percorsa.

Come sappiamo, anni dopo, la cancelliera Merkel e il presidente Hollande hanno confessato che gli Accordi di Minsk erano una trappola. Un espediente per “dare tempo all’Ucraina”, per permetterle di armarsi e addestrarsi con il supporto della NATO in vista della guerra che tutti sapevano sarebbe arrivata.

La diplomazia era stata una farsa, un inganno per preparare il campo di battaglia.

La stessa cosa è avvenuta con il sabotaggio degli accordi in Turchia nel 2022, quando Boris Jonson convinse Zelensky a non trattare e a scegliere la guerra.

Proprio in quel periodo, l’ex premier britannico riceveva un bonifico di 1 milione di sterline da un magnate delle armi, come documentato nell’articolo che trovi in fondo a questo.

TRA LA COREA E LA FINLANDIA, IL PREZZO DELLA STORIA

Oggi, mentre cerchiamo una via d’uscita, si parla di “soluzione coreana” e “soluzione finlandese”. La prima è la fotografia di un fallimento: un conflitto congelato lungo una linea del fronte, una ferita perennemente aperta, una pace armata che dura da 70 anni senza un trattato. È la non-soluzione, la procrastinazione della tragedia.

La seconda, la “finlandizzazione”, era la soluzione sul tavolo prima che tutto iniziasse. Dopo la Guerra d’Inverno del 1939-40, l’Unione Sovietica, pur avendo vinto, si accontentò di una porzione di territorio e impose alla Finlandia una sola, fondamentale condizione: la neutralità.

Per quasi 80 anni, la Finlandia neutrale ha prosperato in pace e sicurezza, fino alla sua recente, e forse avventata, adesione alla NATO.

La neutralità era ciò che la Russia chiedeva per l’Ucraina. Era ciò che la storia e la geografia suggerivano. Era la via per evitare la catastrofe.

Ma la logica delle sfere d’influenza, la paranoia di una Russia che si sente accerchiata, gli interessi per le materie prime ucraine da parte di diverse aziende occidentali, soprattutto inglesi e francesi, e l’arroganza di un Occidente che ha scambiato la fine della Guerra Fredda per una vittoria incondizionata, hanno prevalso.

La storia non offre giustificazioni, ma lezioni che vanno capite. Ci insegna che le grandi potenze, che siano gli Stati Uniti nel loro “cortile di casa” o la Russia ai suoi confini, sono pronte a fare la guerra quando percepiscono una minaccia alla loro sicurezza.

Ignorare questa profonda e paranoica pulsione della politica russa, rafforzata da decenni di storia, è stato un errore strategico di proporzioni epocali dei nostri attuali leader e anche di tanti presunti guru di geopolitica che narravano di Mosca al tappeto, pale e microchip rubati dalle lavastoviglie.

Tuttavia, a causa di tanti analfabeti funzionali, – e per colpa degli interessi di qualcuno, – l’Ucraina ne sta pagando il prezzo più alto. Un prezzo fatto di sangue, rovine e un futuro incerto, intrappolato tra l’incudine di un passato imperiale e il martello di un’alleanza in espansione.

La pace, quando arriverà, non potrà ignorare le cause profonde di questa tragedia. Altrimenti, sarà solo un altro armistizio in attesa della prossima guerra.

Con la speranza che quelli che ancora parlano di “pace giusta” possano trovare tempo per aprire un libro di storia. Scoprirebbero che “pace giusta” è un concetto mai verificatosi.

Potrebbero, per esempio, studiare cosa pretese Kennedy nel 1962 dallo Stato sovrano di Cuba. O quale pace giusta imposero gli americani al Giappone, dopo due atomiche.

Insomma, scoprirebbero che a continuare a vivere nell’ignoranza storica continuano a spingere gli ucraini al macero credendo in una realtà che non esiste.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA FINE DELL’AUTO ELETTRICA

Per le strade lucide e congestionate di Shanghai e per i silenziosi porti di Anversa si aggirano degli spettri nati dal fragore delle gigafactory e alimentato da fiumi di denaro pubblico.

Parlano il linguaggio dell’innovazione, del progresso verde, del futuro a portata di mano. Eppure, sotto la loro pelle scintillante di vernice a zero emissioni, si nasconde il rantolo di un’economia drogata.

Sono le auto elettriche. E sono spettri perché quella della auto elettriche cinesi è una grande bolla a cui manca soltanto il boato.

Warren Buffett non è un giocatore d’azzardo. Le sue decisioni non sono scommesse, sono sentenze basate su una lettura quasi geologica degli andamenti economici.

Per quindici anni, il suo fondo Berkshire Hathaway ha tenuto in grembo BYD, cavalcando l’onda perfetta di un’ascesa che sembrava inarrestabile. Poi, senza una spiegazione, senza una conferenza stampa, ha iniziato a vendere. Non un po’. Tutto. Fino all’ultima, maledetta azione.

Un analista mediocre vede una presa di profitto. Un analista professionale vede il canarino nella miniera di carbone che smette di cantare.

Buffett non fugge dai guadagni, ma dai rischi strutturali, dalle crepe invisibili ai più, ma che precedono il crollo. Ha visto che la festa, finanziata da un generoso e onnipotente padrone di casa, stava per finire, lasciando solo una gigantesca sbornia industriale.

UN GIGANTE GONFIATO: SUSSIDI, FANTASMI E DEBITI

Per capire la crisi delle auto elettriche in Cina, bisogna dimenticare le regole del capitalismo classico. Perché non si tratta di un’industria nata dalla domanda, ma di un’arma geopolitica adottata da uno Stato.

Il piano “Made in China 2025” è stato il Big Bang. Pechino, nel disperato tentativo di affrancarsi dalla dipendenza energetica dal petrolio – le cui rotte marittime sono controllate dal suo principale avversario strategico, gli Stati Uniti – ha deciso di creare dal nulla un’egemonia globale nell’elettrico.

Per farlo, ha iniettato miliardi in sussidi, crediti d’imposta, terreni a basso costo. Un’orgia di denaro pubblico che ha dato vita a un mostro che divora l’Occidente, ma non solo quello.

Nel 2018, esistevano 500 produttori di veicoli elettrici in Cina. Cinquecento. Una foresta di aziende sorte per produrre beni per cui non esisteva una domanda e per intercettare i fondi statali.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una capacità produttiva doppia rispetto alla domanda effettiva. Un eccesso che ora, come uno tsunami, si sta riversando sui mercati, a partire dall’Europa.

Ma il marcio è all’interno.

La guerra dei prezzi è diventata così feroce da trasformarsi in una gara fratricida verso il baratro. Marchi costretti a vendere in perdita pur di sopravvivere, pur di raggiungere gli obiettivi di produzione imposti dall’alto. E quando i conti non tornano, si ricorre alla magia nera della contabilità.

Le “vendite fantasma” sono un trucco sempre più diffuso: le auto vengono registrate come vendute quando passano dalla fabbrica al concessionario, anche se poi restano a prendere polvere nei piazzali per mesi, per essere infine svendute come “a chilometro zero”.

Inoltre, le grandi case automobilistiche usano i loro fornitori come una banca personale, ritardando i pagamenti fino a 180 giorni e oltre. Stanno letteralmente spremendo la loro stessa catena di approvvigionamento per finanziare le operazioni correnti. Non è gestione finanziaria. È giocare a nascondino con la bancarotta.

LA FINE DELL’ELETTRICO E IL CONTAGIO GLOBALE

Secondo Jack Wey, CEO di Great Wall Motors, uno dei colossi cinesi, la partita è finita e l’elettrico ha perso.

È una confessione.

Un’ammissione che il modello è insostenibile. La crisi del gigante immobiliare Evergrande, un’altra creatura del debito e dell’ambizione statale, è rimasta in gran parte confinata entro i confini cinesi. Il suo fallimento ha travolto i risparmiatori locali, anche se l’onda d’urto globale è stata contenuta.

Con l’auto elettrica sarà diverso.

L’inondazione di auto elettriche cinesi a basso costo in Europa è frutto di una strategia di sopravvivenza di un’industria che sta soffocando nella sua stessa sovrapproduzione. Devono liberarsi delle scorte, a qualsiasi costo.

I dazi imposti dall’Unione Europea, che vanno dal 17% al 38%, sono un tentativo di arginare l’onda, ma potrebbero non bastare. Per il consumatore europeo, il vantaggio a breve termine è evidente: auto tecnologicamente avanzate a prezzi stracciati.

Ma qual è il rischio a lungo termine?

Acquistare un’auto da un marchio che, tra tre o cinque anni, potrebbe non esistere più, lasciando i proprietari senza assistenza, senza ricambi, senza valore di rivendita. Insomma, auto il cui valore è pari a zero.

Stiamo assistendo a una deflazione esportata. La Cina, per risolvere i suoi problemi interni di eccesso di offerta, sta deprimendo i prezzi a livello globale, mettendo in crisi i produttori storici europei e americani, che non possono competere con un sistema drogato dai sussidi statali.

IL VERO PREZZO DI UNA RIVOLUZIONE ELETTRICA

L’economia pianificata dell’Unione Sovietica produceva trattori che arrugginivano nei campi perché gli obiettivi erano numerici, non guidati dalla domanda reale. Un sistema che non stava in piedi allora e non regge nemmeno oggi.

Ma, proprio oggi, la Cina sta commettendo un errore simile su una scala infinitamente più grande e tecnologicamente avanzata.

Il collasso non sarà un singolo evento catastrofico come il crollo di Lehman Brothers, ma una lenta, dolorosa agonia. Un consolidamento brutale che vedrà la scomparsa di decine, forse centinaia di marchi. Pechino interverrà, salverà i suoi “campioni nazionali” come BYD, ma non potrà salvare tutti. Il processo sarà lungo e lascerà cicatrici profonde.

Ciò che stiamo osservando non è solo la crisi di un settore industriale, ma la crisi di un modello di sviluppo. Un modello che ha anteposto l’ambizione geopolitica alle regole basilari dell’economia, la quantità alla qualità, l’apparenza alla sostanza.

La marea dei sussidi si sta ritirando e, come dice Buffett, stiamo per scoprire chi sarà il primo a morire.

Una volta che i marchi cinesi saranno nel cassetto dei ricordi, il settore dell’elettrico diventerà uno zero virgola nei numeri delle vendite, che, anche in Europa, è trainato fortemente dalle vetture cinesi a basso costo.

Senza quelle vendite, la percentuale di auto elettriche vendute crollerà e scriverà la parola fine su questa tipologia di auto per parecchio tempo.

L’elettrico, insomma, non è stata soltanto una scommessa azzardata e forzata dalle politiche scellerate dell’Europa, che hanno tentato di imporre un prodotto nuovo e diverso dopo anni di marketing orientato a creare status su un prodotto opposto, ma anche dalla strategia produttiva cinese, ancor più fallimentare nel lungo periodo.

A rimetterci, decine di migliaia di lavoratori europei e centinaia di fabbriche dell’automotive messi in ginocchio da un azzardo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL VERO NEMICO DEGLI UCRAINI. LA DISSONANZA OCCIDENTALE CHE SABOTA LA PACE IN UCRAINA

DA BERLINO A WASHINGTON, PASSANDO PER BRUXELLES, LE VOCI DI NATO E UE SULLA MINACCIA RUSSA SI CONTRADDICONO, SI SMENTISCONO E SI SOVRAPPONGONO. NARRAZIONI ILLOGICHE E TATTICHE DIPLOMATICHE CHE, NEL TENTATIVO DI MOSTRARE FORZA, RIVELANO UNA PROFONDA DEBOLEZZA STRATEGICA E ALLONTANANO OGNI SOLUZIONE NEGOZIATA.

In questi giorni, sembra che l’Occidente stia facendo di tutto per evitare la diplomazia.

È un copione. Ogni qualvolta all’orizzonte si profila il fantasma di un negoziato, un incontro, una telefonata, una timida apertura, l’apparato politico e mediatico euro-atlantico attiva un meccanismo di disturbo quasi pavloviano.

Una cacofonia controllata, studiata per alzare il volume del conflitto e rendere il silenzio del dialogo inascoltabile.

L’ultimo atto di questa strategia è andato in scena con la notizia del congelamento dell’incontro tra i ministri degli esteri di Stati Uniti e Russia, un vertice che avrebbe dovuto essere il preludio a un possibile, per quanto improbabile, summit tra Trump e Putin.

Annullato. Sospeso. In dubbio.

La motivazione ufficiale, secondo la CNN, è che “Mosca chiede troppo”. Ma la vera domanda non è cosa chieda Mosca, ma perché l’Occidente sembri così terrorizzato all’idea di sedersi ad ascoltarla.

Che poi, le richieste di Mosca sono le medesime del 2022, con la differenza che, se fossero state ascoltate allora, ci sarebbero decine di migliaia di giovani ucraini ancora vivi e un 20% di territorio del Paese ancora sotto il controllo di Kiev.

Ma quanto accaduto dopo l’annuncio dell’incontro tra Mosca e Stati Uniti in Bulgaria non è che la punta di un iceberg di contraddizioni che, sotto la superficie, vede l’enormità di una profonda, quasi patologica, dissonanza cognitiva.

L’ALLARMISMO TEDESCO CONTRO IL PRAGMATISMO AMERICANO

La partitura della paura viene suonata con più vigore a Berlino. I servizi segreti tedeschi (BND) hanno appena lanciato l’ennesimo allarme da propaganda: la Russia si starebbe preparando a un conflitto militare diretto con la NATO, forse anche prima del 2029.

È una melodia che suona come un ritornello di Sanremo per scuotere le coscienze, per giustificare il dispendiosissimo riarmo, per mantenere alta una tensione che serve a compattare un’alleanza altrimenti sfrangiata.

Ma da Washington arriva una musica diversa. Più sorda. Più pragmatica. Donald Trump, pur rassicurando la Finlandia, ammette candidamente: “Non credo che lo farà”. Non crede che Putin attaccherà. E, visto che pare che i due si sentano spesso al telefono, c’è da credergli.

Una singola frase che smonta mesi di allarmismi. Gli fa eco il presidente finlandese Alexander Stubb, l’uomo che vive sul confine più caldo d’Europa, minimizzando il rischio di una “minaccia militare imminente”.

Chi ha ragione? Forse nessuno. O forse entrambi.

Perché queste sono due visioni del mondo inconciliabili che operano sotto lo stesso ombrello militare.

Una vive nell’ansia perenne dell’apocalisse imminente, l’altra la considera un’ipotesi remota da gestire con la deterrenza. Questa schizofrenia strategica è il primo, fondamentale errore che paralizza l’Alleanza.

IL PARADOSSO STRATEGICO DI MARK RUTTE

Se c’è una figura che incarna questa dissonanza, è il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, un funambolo che cammina su un filo teso tra l’arroganza e il terrore, e le sue parole sono la colonna sonora di questa confusione.

Da un lato, suona l’inno della superiorità. La NATO, ci dice, è “molto, molto più forte” della Russia. Così forte che per Putin attaccare sarebbe “idiota”. È una dichiarazione di potenza, un messaggio di fiducia granitica.

Pochi istanti dopo, però, Rutte stesso intona il lamento della vulnerabilità. Parla dei missili ipersonici russi, capaci di colpire Roma o Amsterdam a velocità inaudite, “impossibili da intercettare”.

Ammette, di fatto, che le capitali che dovrebbe difendere sono indifendibili.

In pratica, Rutte 2 dà dell’incompetente a Rutte 1.

Come può una superpotenza militare essere allo stesso tempo invincibile e nuda di fronte al nemico?

Questa non è una gaffe comunicativa, ma un cortocircuito. È la confessione involontaria di una narrazione che non sta più in piedi.

LE AMMISSIONI DI DEBOLEZZA DELL’UE

A demolire ulteriormente la facciata di onnipotenza arrivano le note stonate degli stessi membri dell’orchestra.

Il Commissario europeo alla Difesa, Andrius Kubilius, confessa due verità devastanti. La prima: la Russia produce in tre mesi più munizioni di tutta la NATO (Stati Uniti inclusi) in un anno.

È un’ammissione di inferiorità logistica e industriale che fa impallidire qualsiasi vanto di superiorità tecnologica e smonta ogni scemenza veicolata per decenni da Hollywood.

La seconda: l’Europa non è pronta a difendersi da attacchi banali come droni lanciati da navi portacontainer.

Mettiamo insieme i pezzi. La NATO si descrive invincibile, ma cammina con il deambulatore.

È “molto più forte” di un nemico che però la surclassa nella produzione bellica essenziale e che può colpirla impunemente con armi per contro cui non ha alcuna difesa. La dissonanza diventa vertigine.

OLTRE L’INCOMPETENZA, UNA TATTICA PER NON FARE LA PACE?

Qui le due analisi, quella delle contraddizioni palesi e quella delle manovre diplomatiche, si fondono in una tesi terribile. La confusione se non è soltanto il frutto dell’incompetenza, è uno strumento.

La cacofonia, allora, non è un errore, ma una strategia per evitare il silenzio del tavolo negoziale. Esiste una “Formula del Sabotaggio” che scatta puntuale.

Per prima cosa, si alza il volume dello scontro verbale. Si agita lo spettro dell’invasione, si demonizza l’avversario, si esclude ogni compromesso.

Poi si annunciano nuove sanzioni, si parla di nuovi pacchetti punitivi, si irrigidisce la postura economica per rendere ogni accordo più costoso e politicamente insostenibile.

Infine si accusa la Russia di non volere la pace, usando come prova il fatto che continua a combattere. Un’argomentazione surreale che ignora la logica stessa della guerra: chi è in vantaggio sul campo non si ferma per gentilezza.

Il metronomo della morte, intanto, continua a scandire il tempo sui campi dell’Ucraina, a cancellare vite di giovani e meno giovani rapiti per le strade delle città ucraine e mandati a morire al fronte.

La verità è che l’Occidente è prigioniero di una narrazione che ha costruito e da cui non sa come uscire. I leader europei avevano promesso vittoria con sanzioni e aiuti, mettendoci la faccia, e ora non possono accettare nessuna pace che non sia la resa della Russia.

Ecco perché l’Europa è destinata a morire: politicamente, in caso di una pace, o spazzata via con la forza dei missili, in caso di escalation.

L’Occidente è sospeso tra la propaganda di una vittoria militare che sa di non poter raggiungere e una pace che non vuole e non può accettare per non dover vedere la sua intera classe politica abdicare per manifesta incompetenza.

In questa paralisi, ogni dichiarazione contraddittoria sulla Russia, ogni allarme esagerato di droni e sconfinamenti, ogni sabotaggio di un potenziale dialogo non è altro che un modo per prendere tempo.

Tempo comprato con il sangue degli ucraini, sacrificati sull’altare di una strategia che non esiste. E questa, più di ogni missile ipersonico, è la vera, tragica, vulnerabilità dell’Occidente.

Perché una cosa è certa: ai leader europei interessano tante cose dell’Ucraina, ma certamente non le vite degli ucraini.

Allora, chi è il vero nemico degli ucraini?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.