DALLA TELA ALLA PAROLA: L’ESORDIO LETTERARIO DI DANIELA BUSSOLINO È UNA STORIA D’AMORE SUSSURRATA A QUATTRO ZAMPETTE

“Una storia d’amore a quattro zampette” è il primo libro della pittrice Daniela Bussolino, una storia che traduce un legame viscerale in una favola universale attraverso l’arte della scrittura.

Un viaggio creativo nato da un amore, quello per la sua coniglietta Cristal, che ha preteso un linguaggio nuovo per essere raccontato.

Daniela Bussolino è nota nel mondo della pittura per la sua espressione cromatica che esalta la gioia di vivere e le passioni esistenziali, che sono il filo conduttore di tutta la sua produzione artistica.

Ma, quando un’emozione diventa così profonda, così totalizzante, da non poter più essere contenuta nei confini di una tela, accade che l’artista deve evolvere, per trovare un nuovo strumento, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di comunicare al meglio.

Ed è proprio ciò che ha portato alla nascita di “Una storia d’amore a quattro zampette”, l’esordio letterario di Daniela Bussolino. Un libro che è, al tempo stesso, una confessione, un omaggio e un atto di coraggio.

DANIELA BUSSOLINO: SCRITTRICE, PITTRICE, ARTISTA

Il passaggio dalla pittura alla scrittura non è stato un capriccio, ma una necessità dell’anima. L’arte, in fondo, è comunicazione. È un messaggio che cerca la sua forma più pura.

«Noi sappiamo che l’arte non è soltanto canto, pittura, musica, ma è l’insieme di tantissime discipline», ha spiegato Bussolino durante l’intervista, sottolineando come ogni mezzo espressivo possa diventare un veicolo per un’emozione.

Per lei, che ha sempre “dipinto” le sensazioni, la scrittura è diventata una trasmutazione naturale. «Se dipingo un quadro, racconto una storia coi colori. Se scrivo, creo delle immagini con le parole».

È la sintesi perfetta di un percorso artistico che non conosce barriere, ma solo ponti tra mondi espressivi diversi.

CRISTAL: LA MUSA A QUATTRO ZAMPETTE

La vera protagonista di questa favola moderna non è l’autrice, ma la sua musa: Cristal, una coniglietta che ha segnato un’esistenza.

Il libro è una storia vera, ma con un colpo di genio narrativo: è raccontato interamente dal punto di vista dell’animale. È Cristal che ci guida, con i suoi occhi innocenti e il suo cuore puro, attraverso le dinamiche di una famiglia umana che l’ha adottata e amata.

«È nato dall’amore che ho avuto per questa mia coniglietta», mi confessa Daniela con la voce incrinata dall’emozione. Scrivere questo libro è stato un processo catartico, un modo per elaborare una perdita e, al contempo, rendere immortale un legame.

«L’ho scritto con le lacrime agli occhi», ammette, rivelando la vulnerabilità che sta dietro ogni grande atto creativo. Non è stato facile. Per anni, il dolore era troppo forte per essere messo nero su bianco. Subito non ci riuscivo, talmente stavo male per la sua perdita. Sono riuscita a realizzarlo adesso, a dieci anni esatti dalla sua mancanza.»

Un ritardo che è la prova della profondità del sentimento. Ci sono voluti dieci anni perché il ricordo si trasformasse da ferita a racconto. Da dolore a dono per gli altri.

“UNA STORIA D’AMORE A QUATTRO ZAMPETTE”, UN LIBRO CHE PARLA A TUTTI

Sebbene la vicenda narrata nel libro sia perfetta anche per un pubblico giovane, “Una storia d’amore a quattro zampette” non è solo un libro per ragazzi, ma un’opera che parla agli adulti, poiché ricorda la bellezza dei sentimenti incondizionati, di quei valori che la frenesia della vita moderna ci fa tralasciare troppo spesso, per relegarle nel cassetto delle cose effimere, mentre si tratta dell’essenza.

La scelta di un linguaggio semplice e diretto è una precisa volontà di veicolare emozione in maniera immediata, spogliandola di ogni artificio. L’amore, quello vero, non ha bisogno di parole complesse, ma ha solo bisogno di essere sentito.

IL FUTURO È UN FOGLIO BIANCO (E UNA TELA NUOVA)

Questo libro è un punto di arrivo, ma anche un nuovo inizio. Daniela Bussolino non ha intenzione di fermarsi. Sta già lavorando a un progetto più ambizioso: un romanzo.

«Questa volta si tratterà di un romanzo che intreccia arte e mistero, tra passato e presente», anticipa, lasciando intendere che il suo nuovo percorso letterario è appena cominciato.

Nel frattempo, “Una storia d’amore a quattro zampette” inizierà il suo viaggio tra i lettori con una serie di presentazioni, a partire dal 12 ottobre a Castello d’Annone (AT), per poi proseguire a Cremona e in altre città. Occasioni in cui l’autrice unirà i suoi due mondi, esponendo i dipinti dedicati a Cristal accanto alle pagine che ne raccontano la storia.

La sua è la testimonianza che la creatività non può essere ingabbiata.

Che sia su una tela, su un foglio o nel cuore di chi ascolta, una grande storia troverà sempre il modo di brillare. E quella di Daniela e Cristal brilla di una luce genuina.

Puoi visitare il sito di Daniela Bussolino cliccando QUI.

“Una Storia d’Amore a Quattro Zampette” è disponibile su tutte le piattaforme online ed è ordinabile nelle librerie tradizionali.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

O LA PACE DI TRUMP O I CRIMINI DI NETANYAHU

ALLA CASA BIANCA, UN PIANO “PRENDERE O LASCIARE” PER GAZA CHE ESCLUDE HAMAS E L’AUTORITÀ PALESTINESE.

Donald Trump e Benjamin Netanyahu, due mostri della politica populista e legati da un’alleanza che ha ridisegnano le mappe del Medio Oriente, si sono presentati davanti al mondo come architetti di un destino già scritto. Hanno parlato di pace. Hanno sorriso per le telecamere.

Ma il documento che hanno presentato non è un invito. È un ultimatum.

È l’impero che impone il proprio editto. Un imperatore che cambia idea dalla sera alla mattina e un ricercato internazionale su cui pende la richiesta d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Due persone di cui andare fieri, insomma.

Il loro è un piano in 20 punti per porre fine alla guerra di Gaza, durata quasi due anni. Una guerra in cui uno dei due ha massacrato decine di migliaia di persone innocenti, tra cui tantissimi bambini, e l’altro gli ha più volte offerto aiuto.

Se Hamas accetta, la guerra finisce. Se rifiuta, Israele “finirà il lavoro da solo”, ha scandito Netanyahu, con una freddezza che non ammetteva repliche. Tipica dei più efferati dittatori e carnefici della storia.

E Trump, al suo fianco, gli ha offerto la benedizione della più grande potenza mondiale, quella perennemente in guerra con qualcuno da un secolo.

“Bibi, avrai il nostro pieno appoggio per fare ciò che devi fare.” La via facile, o la via difficile. Per la gente di Gaza, entrambe le strade iniziano nello stesso luogo di polvere e paura.

ANATOMIA DI UN ACCORDO: 72 ORE PER DECIDERE IL FUTURO

Questo piano è un meccanismo a orologeria. Preciso, spietato, concepito per forzare una scelta definitiva entro 72 ore. Non c’è spazio per l’ambiguità né per politici veri ed equilibrati. Non c’è spazio per la diplomazia. Non c’è neppure l’ombra di una parvenza di democrazia.

Con un cessate il fuoco immediato, le forze israeliane si ritireranno su linee prestabilite, creando una zona cuscinetto temporanea in attesa di un segnale. Quel segnale è la vita degli ostaggi.

In cambio, Hamas deve liberare tutti i prigionieri rimasti vivi. Le stime parlano di 48 persone, di cui forse solo 20 ancora vive, un numero che ricalca la tragedia dei mesi di prigionia. In cambio, Israele rilascerà circa 2000 palestinesi detenuti dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. Un baratto di anime, quantificato e messo su carta.

LA NUOVA GAZA.

Il piano prevede che Hamas venga cancellata. Così come l’Autorità Palestinese, giudicata troppo debole, troppo corrotta.

Al loro posto, un governo di “tecnocrati” palestinesi senza volto, supervisionato da un’entità quasi imperiale: il “Board of Peace”, un comitato internazionale presieduto da Donald Trump in persona. L’imperatore, appunto. L’amico del criminale di guerra ricercato.

A fungere da galoppino di Trump dovrebbe essere l’ex premier britannico Tony Blair, un fantasma delle guerre passate del Medio Oriente, già convinto con la balla delle armi chimiche di Saddam, e ora designato per dirigere l’autorità transitoria sul campo, la GITA, con un budget iniziale di 90 milioni di dollari.

Il piano garantisce che “nessuno sarà costretto a lasciare Gaza” e che Israele non la occuperà. Ma la promessa più grande, quella di uno stato palestinese, rimane avvolta nella nebbia.

Si parla di un “percorso credibile” verso l’autodeterminazione, un linguaggio annacquato su richiesta di Netanyahu, abbastanza vago da non significare nulla.

DIETRO LE QUINTE: IL PREZZO DELLA PACE

Questo accordo non è nato nel candore dello Studio Ovale, ma in notti di trattative febbrili a New York, lontano dalle telecamere, con il genero di Trump, Jared Kushner, a tessere la tela.

La versione finale è un mosaico di concessioni a Israele e pressioni ai palestinesi. Come gli imperi fanno da sempre con amici e sudditi.

La più straordinaria è avvenuta tramite una linea telefonica sicura. Benjamin Netanyahu, l’uomo che ha fatto della durezza la sua firma politica, si è scusato con il primo ministro del Qatar.

Le sue parole erano di rammarico per l’attacco israeliano su Doha che aveva preso di mira i leader di Hamas, uccidendo una guardia di sicurezza qatariota proprio mentre i negoziati per il cessate il fuoco erano in corso.

Un gesto umiliante, il prezzo da pagare per tenere a bordo Doha, mediatore indispensabile. Mamma mia, quanto spessore umano il ricercato, eh!?

Ma altri alleati cruciali restano scettici. L’Arabia Saudita e l’Egitto osservano da lontano, preoccupati sia da Israele sia dagli USA.

Vogliono un percorso chiaro verso la soluzione a due stati, non una vaga promessa di chi ha disatteso un’ottantina di risoluzioni ONU.

Vogliono un ruolo per l’Autorità Palestinese, non un comitato presieduto da un presidente americano. Senza di loro, e senza i loro petrodollari, chi pagherà per ricostruire Gaza dalle sue ceneri?

IL BIVIO DI HAMAS: RESA O MARTIRIO?

Per Hamas, il piano di Trump non è un’offerta di pace, ma una richiesta di capitolazione. Almeno così sarebbe letta dagli europei se al posto di Gaza ci fosse Kiev e al posto di Israele la Russia.

Il disarmo totale, lo smantellamento dei tunnel, la rinuncia a ogni forma di potere.

È la cancellazione politica e militare. In cambio, ai suoi membri viene offerta un’amnistia individuale se accettano la “coesistenza pacifica”, o un passaggio sicuro per lasciare Gaza per sempre. Un tentativo di spezzare l’organizzazione dall’interno, separando i leader dai combattenti.

La risposta ufficiosa, filtrata attraverso canali non ufficiali, è già arrivata. Hamas non è disposta a disarmarsi.

Per i suoi leader, deporre le armi significa diventare irrilevanti, tradire la causa per cui hanno combattuto e perso migliaia di uomini. Rifiutare l’accordo, però, significa dare a Netanyahu la giustificazione che cerca per l’assalto finale.

È una scelta tra il suicidio politico e l’annientamento fisico. Un bivio terribile, dove ogni strada porta alla fine di qualcosa. E ciò dimostra come si tratti di un piano creato ad arte per dare a Netanyahu una sorta di giustificazione a commettere ulteriori stragi.

VOCI DAL BARATRO: LO SCETTICISMO DI GAZA

Mentre i leader parlano di governance e fondi internazionali, a Gaza la gente ascolta un altro suono. Il ronzio dei droni, le esplosioni lontane che non si fermano mai del tutto.

Per loro, un “Board of Peace” presieduto da Trump suona come un altro nome per l’occupazione. Una forza di stabilizzazione straniera, un’altra uniforme da cui guardarsi. Altri guardiani di una prigione a cielo aperto.

“Vogliamo che la guerra finisca. Vogliamo che i nostri figli possano dormire la notte,” dice un medico da Khan Yunis, la sua voce stanca attraverso una linea telefonica intermittente.

“Vogliamo che i nostri prigionieri tornino a casa. Vogliamo poter ricostruire le nostre vite senza la paura che tutto ricominci tra un anno.”

Lo scetticismo è profondo come i crateri delle bombe. Il piano, visto da qui, sembra un progetto disegnato da uomini lontani per scopi lontani, che ignora la richiesta più semplice e più umana: la dignità. La possibilità di decidere del proprio destino.

LA SCOMMESSA DI 72 ORE

L’orologio ha iniziato a ticchettare. Per Donald Trump, questa è una scommessa sul suo lascito, un tentativo di completare gli Accordi di Abramo e di presentarsi come il grande pacificatore.

Con un piano orchestrato a favore di un criminale suona un po’ macabra barzelletta, ma tant’è.

Per Benjamin Netanyahu è la legittimazione internazionale che ha sempre cercato per raggiungere i suoi obiettivi di guerra, spacciando per “accordi” quelli che per la più alta Corte di Giustizia internazionale e per la stessa ONU sono crimini di guerra.

Ma le domande che contano restano sospese sull’orizzonte fumoso di Gaza. Un’organizzazione votata alla lotta armata accetterà di scomparire in cambio della sopravvivenza fisica dei suoi membri?

Gli stati arabi finanzieranno una pace che non include le loro richieste fondamentali? E, soprattutto, un piano che esclude quasi completamente i palestinesi dalla definizione del loro futuro può davvero portare a una pace duratura?

O è solo il tentativo di dare un volto più diplomatico all’atto finale e più sanguinoso di questa guerra infinita?

Per il mondo sono 72 ore di diplomazia. Per la gente di Gaza, sono 72 ore che separano una pace incerta da una guerra certa.

Per la verità, sono crimini di guerra che trovano un altro nome solo perché i carnefici sono amici di chi comanda.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA GUERRA DEGLI SPECCHI, TRA DRONI FANTASMA, VERITÀ NASCOSTE E LA RISCRITTURA DELLE REGOLE DEL CONFLITTO

Mentre un ronzio fantasma tiene in ostaggio i cieli d’Europa per droni che non si sa ancora da dove arrivino, ma costringono la Danimarca a sigillare il suo spazio aereo, e mentre il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, dispensa rassicurazioni affannose – “gli italiani possono stare tranquilli, non credo che Putin voglia attaccare l’Italia” –, la guerra in Ucraina sta subendo una metamorfosi silenziosa, ma sempre più orwelliana.

Non si combatte più solo nelle trincee del Donbas che mandano al macero intere generazioni ucraine o sotto le bombe che martoriano Kiev, ma è diventata una guerra sottile e ambigua, una guerra di specchi, su tre fronti paralleli.

L’escalation militare autorizzata nell’ombra, la guerra psicologica sui nervi del continente europeo e una torbida partita di ingerenze dove l’Occidente, che si erge a giudice buono, infallibile e integerrimo, viene scoperto a usare le stesse carte del suo avversario.

La crepa più profonda si è aperta su Fox News, lontano dai palazzi di Bruxelles, dove, con una franchezza disarmante, Keith Kellogg, inviato speciale di Donald Trump per l’Ucraina, ha sganciato una bomba politica: il tycoon avrebbe dato, già da qualche settimana, il via libera a Kiev per colpire obiettivi a lungo raggio all’interno della Federazione Russa.

Una linea rossa che persino l’amministrazione di Biden ha esitato a superare.

La rivelazione di Kellogg è ancora più dirompente nella sua sfumatura: “Trump ha autorizzato, ma a volte il Pentagono non ha dato all’Ucraina l’autorità di eseguirli”. Una sorta di “ok, amico, ti faccio contento e ti dico che puoi farlo, ma solo quando ti diremo che potrai farlo.”

Se non si tratta di un modo per raggirare Zelensky, allora siamo di fronte allo spettro di una spaccatura all’interno dell’apparato di potere americano: una volontà politica radicale frenata, a tratti, da una cautela militare. Cosa che, nella storia, è sempre stata al contrario.

È l’eco di una filosofia che si fa strada nel campo repubblicano, incarnata da figure come JD Vance e Marco Rubio, per cui non esistono “luoghi sacri”.

La risposta del presidente Volodymyr Zelensky non si è fatta attendere.

La sua richiesta di missili Tomahawk, sistemi d’arma di eccezionale profondità offensiva, non è più un appello disperato, ma la logica conseguenza di una porta che, a Washington, si sta visibilmente socchiudendo. La guerra senza ripari, prima un tabù, è ora un’opzione sul tavolo.

Ma mentre l’Occidente contempla di infrangere le proprie regole sul campo di battaglia, picchiando duro con la propaganda degli sconfinamenti russi nello spazio aereo europeo, con l’attacco all’aereo della von der Leyen, ma, al contempo, dipingendo Putin prossimo alla morte e alla guida di una nazione senza munizioni e armata solo di pale, una storia proveniente dalla Moldavia ne incrina le fondamenta morali.

In un sarcastico gioco del destino, la “vittoria della democrazia” nelle elezioni moldave è festeggiata come uno scacco a Mosca, ma su questa vittoria si accende più di qualche luce sinistra.

Innanzitutto, se queste ingerenze russe non sono solo una fantasia della nostra propaganda, beh… fanno ridere, visto che non vincono un’elezione.

Intatto, ben altre ingerenze ci sono state sul voto in Moldavia.

Pavel Durov, fondatore di Telegram, ha accusato pubblicamente i servizi segreti francesi di aver chiesto la sua collaborazione nel censurare canali Telegram vicini ai candidati filorussi per favorire il governo filo-occidentale in cambio di “cose buone” da dire al giudice che ne aveva ordinato l’arresto.

Un ricatto, un’ingerenza…, chiamatela come volete. Il paradosso è, comunque, accecante.

La democrazia, ufficialmente difesa contro le manipolazioni del Cremlino, sarebbe stata “aiutata” con gli stessi strumenti di pressione e censura che si attribuiscono alle autocrazie. Cosa che gli USA fanno da sempre, a cominciare dal referendum italiano del 3 giugno 1946.

La narrazione della propaganda, dunque, si frantuma. La lotta tra democrazia e autoritarismo si rivela un labirinto di specchi, dove ogni attore sembra riflettere le tattiche più oscure del suo nemico.

È in questo clima di ambiguità morale e militare che si innesta la terza, più subdola, forma di guerra: quella psicologica.

Le parole di Zelensky, che avverte l’Italia di possibili attacchi con droni russi, hanno un suono sinistro.

Se prima potevano essere lette come un appello all’unità, oggi sollevano interrogativi inquietanti.

Come può il presidente ucraino avere tali certezze? La sua è una preveggenza basata su intelligence solida, – perciò l’intelligence ucraina è superiore a quelle dei paesi NATO – o si tratta di una manovra calcolata per alimentare quella stessa paura che spinge governi – come quello danese – a paralizzare la vita civile?

Si fa strada un sospetto, sebbene indimostrabile, ma plausibile: se alcuni di questi droni “russi” non fossero affatto russi, ma strumenti di una strategia della tensione volta a cementare un’alleanza che inizia a mostrare segni di stanchezza?

Il risultato è un’Europa in trincea psicologica.

Le rassicurazioni di Tajani, la mobilitazione tedesca, i cieli chiusi di Copenaghen non sono più solo risposte a una minaccia esterna, ma i sintomi di un conflitto che ha violato lo spazio mentale dei cittadini in modo che quegli stessi cittadini digeriscano senza troppi malumori tagli a Sanità, Scuola, Pensioni, Welfare per destinare più miliardi alle armi.

La guerra non è più “là fuori”, ma è un’ansia costante, un’ombra che aleggia sopra le nostre città e nelle scelte dei nostri parlamenti, che stanno riscrivendo il futuro delle nostre aziende e delle nostre vite.

Alla fine, tutti i fili si intrecciano.

Un’America divisa che flirta con l’escalation totale, un’Europa che si scopre non solo vittima, ma potenziale artefice di quelle stesse ingerenze che condanna.

Un’Ucraina che, per sopravvivere, sembra aver imparato a usare la paura come un’arma.

In questa guerra di specchi, non è più fondamentale capire chi vincerà sul campo, ma chi sta davvero difendendo la democrazia.

E, soprattutto, la democrazia che emergerà da questo conflitto, forgiata da ricatti, censure, propaganda e paure, sarà ancora quella che si è giurato di proteggere?

La vera vittima collaterale potrebbe non essere un territorio, ma la chiarezza morale con cui l’Occidente ha sempre definito se stesso.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

CODICE ROSSO SUL CONTANTE. L’IMBARAZZANTE DOPPIOGIOCHISMO DELL’EUROPA TRA PAURA, GUERRA E UN SISTEMA BANCARIO IN AGONIA

Ma come, ora il contante ci salverà la vita? Ma non era brutto, sporco e panacea degli evasori?

Ricordate la litania, no?

Il contante è il santo patrono della criminalità. È sporco, veicolo di virus e batteri. È insicuro, un relitto analogico in un mondo digitale. “Il futuro è pagare con lo smartphone”.

Una campagna a tappeto, pluriennale, condotta da media mainstream, istituzioni finanziarie e persino virologi da salotto. Il messaggio era cristallino: il futuro è cashless. La tracciabilità totale è progresso. La privacy, un lusso sospetto.

Poi, il silenzioso, imbarazzante dietrofront.

CONTRORDINE: TENETE CASH IN CASA. E NON CHIEDETE PERCHÉ.

Ora, la stessa Europa, attraverso gli stessi giornalisti che ci spiegavano il nuovo mondo digitale, ci suggerisce – con la nonchalance di chi raccomanda di bere più acqua – di disporre di scorte di contanti.

Almeno 70, meglio 100 euro a testa. Per ogni componente della famiglia.

La giustificazione ufficiale? Un probabile blackout causato da un cyberattacco russo. Una narrativa comoda, che si innesta perfettamente nel clima bellico che respiriamo dai notiziari.

Droni, missili, sconfinamenti nello spazio aereo… tutto sembra convogliare verso un casus belli pronto da confezionare e spacciare per reale, in modo da giustificare l’invio di truppe NATO in Ucraina, scatenando la Terza Guerra Mondiale.

Viene quasi il sospetto che i leader europei abbiano progettato un blackout dei sistemi finanziari per poi additare Mosca.

Un’ipotesi non certo campata per aria, visto il Nord Stream, il missile in Polonia nel 2022, i droni in Polonia del mese scorso, gli sconfinamenti in Alaska e in altri paesi NATO, l’attacco all’aereo di von der Leyen, tutti fatti mai avvenuti, oppure travisati, quando non è stata addirittura accertata la matrice ucraina.

La creazione di un nemico esterno è il più antico e collaudato strumento per unificare una popolazione, distogliere l’attenzione dai problemi interni e far digerire politiche altrimenti indigeste. In questo caso, i tagli al welfare per finanziare la macchina da guerra.

E la storia è piena anche di fake news inventate per scatenare una guerra. Ricordate, per esempio, le armi chimiche di Saddam, circostanza inventata di sana pianta dalla CIA?

Ma c’è un’ulteriore domanda che sorge spontanea e che ha il sapore acre del sospetto: ma siamo proprio sicuri che sia solo la guerra in Ucraina l’obiettivo?

IL SISTEMA BANCARIO È MALATO. E LORO LO SANNO.

Facciamo un’ipotesi, per quanto assurda possa sembrare. E se le istituzioni sapessero qualcosa che a noi non viene detto?

E se l’intero impianto economico-finanziario occidentale, quel castello di carte luccicante che ci hanno venduto come eterno, fosse sull’orlo del collasso?

Proviamo a guardare sotto il cofano. Come funziona, in realtà, il sistema del credito?

Quando una banca vi concede un mutuo o un prestito, non va a prendere quei soldi da un caveau stracolmo di banconote. Cioè, se non restituite il denaro prestato, non esiste un Mario Rossi che piange perché hanno tolto i soldi dal suo conto.

No. Quella cifra viene creata dal nulla, con un semplice click sulla tastiera di un computer.

La barca accredita sul vostro conto una somma che, materialmente, non esiste ancora. È un’iscrizione contabile. Denaro scritturale. Comunica alla banca centrale che ha immesso quel credito nel sistema.

È la magia della riserva frazionaria. Un gioco di prestigio legalizzato che regge solo finché tutti hanno fiducia che quelle scritture elettroniche corrispondano a un valore reale.

Ma voi quel denaro lo potete prelevare, perciò la BCE è, di fatto, obbligata a stampare moneta che prima non c’era. Infatti, ciò è una sorta di abuso legalizzato, in quanto nessun soggetto privato può autorizzare di stampare denaro. Eppure, di fatto, finanziarie e banche lo fanno ogni giorno.

È un sistema fragile. Estremamente fragile. E certamente poco limpido per cui la stessa idea di esistenza di un credito e di un debito è sibillina. Perché se io prelevo dal mio portafoglio 50 euro e te li presto, tu hai un debito di 50 euro e io posso dimostrare di non avere più quella banconota. Ma la banca non preleva quella banconota dal conto di nessuno, la crea.

Anche il fatto che vi presti denaro scritturale sarebbe da valutare, poiché le norme stabiliscano che un debitore debba restituire quanto prestato nella stessa sostanza. Perciò, se un debitore restituisse denaro scritturale?

Tranquilli, sono domande scomode e al limite dell’assurdo, ma aprite la mente e sforzatevi di comprendere il mondo in cui viviamo e quanto vi spacciano per prassi e normalità.

Ragionate.

LA TEMPESTA PERFETTA: GUERRA, DEBITO E LA CORSA ALLE ARMI.

Ora inseriamo in questo sistema già precario due elementi esplosivi.

Il primo: i fiumi di denaro pubblici deviati per acquistare armi, principalmente dagli USA, per finanziare la guerra in Ucraina.

Sono miliardi che escono dalle casse europee, indebitandoci ulteriormente, senza produrre un ritorno in benessere, salute o istruzione per i cittadini. Sono miliardi che aggravano il debito pubblico.

Il secondo: l’aumento dei tassi di interesse da parte delle Banche Centrali.

Questo è un colpo letale per un sistema basato sul denaro-debito creato dal nulla. Rende più costoso rifinanziare i debiti pregressi, sia per gli stati che per le banche stesse.

Molti istituti di credito hanno in pancia titoli e prestiti concessi quando i tassi erano addirittura negativi. Oggi, con i tassi alti, il valore di quelle attività crolla.

E se i correntisti, per un panico improvviso, una crisi di fiducia, iniziassero a voler ritirare i loro soldi, e non soltanto 100 euro per componente familiare, ma tutti i soldi?

Le banche, che detengono solo una frazione minima dei depositi in forma liquida, non potrebbero far fronte a tali richieste. È l’incubo di ogni banchiere centrale.

Ma dovrebbe essere l’incubo di tutti noi, poiché le banche vi ricorderebbero che, una volta depositato sul conto il denaro, quel denaro non è più vostro, ma della banca.

E ciò fa emergere anche un terzo elemento: se la frase di von der Leyen, per cui l’Europa dovrà trasformare i risparmi degli europei in investimenti, annunciasse un imminente prelievo forzoso dai nostri conti in nome della sicurezza nazionale e della guerra alla Russia?

PERCHÉ CI DICONO DI RITIRARE IL CONTANTE?

Il paradosso è fulminante. Chi demonizzava il contante oggi ci esorta ad averne. Un cortocircuito o c’è sotto altro?

La spiegazione più ottimista è la preparazione a un’emergenza digitale.

Quella più agghiacciante è che stiano preparando il terreno per un’emergenza finanziaria di portata sistemica.

Se il sistema digitale salta, per un blackout o per una corsa agli sportelli che blocca i server, il contante è l’unico modo per comprare il pane, la benzina, i farmaci.

Ci stanno forse dicendo, tra le righe, che la fiducia nel castello di carte potrebbe vacillare? Che la loro priorità non è salvare i vostri risparmi digitali, ma prevenire il caos sociale assicurando una minima liquidità per la sussistenza?

Sono solo ipotesi, certo. Teorie. Definitele anche strampalate se vi fa stare più tranquilli.

Ma quando chi ti ha dipinto il diavolo in faccia per anni adesso ti consegna all’improvviso un crocifisso e ti sussurra di stringerlo forte, beh, forse è il caso di iniziare a chiedersi che tipo di tempesta si stia realmente avvicinando. E se quella paura che ci vendono non sia un’arma di distrazione di massa da un pericolo molto, molto più grande e sistemico.

La verità è lì, in bella vista. Nella scomoda, imbarazzante, drammatica inversione a U di chi il contante lo vedeva come Satana e ora, all’improvviso, ci scommette la nostra sopravvivenza.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA SALUTE DI PUTIN E LA VITTORIA IMMINENTE, COME FUNZIONA LA PROPAGANDA ORWELLIANA

di Pasquale Di Matteo

Putin è morente o un despota invincibile? La Russia è al collasso o minaccia l’Europa? I giornalisti italiani non l’hanno ancora deciso. E qualcuno dà loro ancora credito.

Analisi tagliente delle contraddizioni narrative dei media mainstream, tra droni fantasma, carenza di benzina e la comoda stanchezza del Cremlino. Perché la prima vittima della guerra non è la verità, ma il nostro intelletto.

LA SALUTE DI PUTIN E LA “VITTORIA IMMINENTE”: QUANDO LA PROPAGANDA SUPERA LA REALTA’

Vladimir Putin è stanco. Affaticato. Ha le occhiaie. Cammina in modo rigido.

Questa, almeno, è la verità rivelata che il Corriere della Sera, citando le osservazioni cliniche a distanza di Massimo D’Alema, ci ha consegnato come un nuovo Vangelo. Un’analisi geopolitica che si basa sull’aspetto fisico di un uomo di 71 anni. Geniale.

D’altronde, i settantenni italiani sono tutti arzilli, fanno jogging, vanno in discoteca fino a tarda ora, sfrecciano sui marciapiedi, superando persino le biciclette e hanno un’energia che i ventenni si sognano. Non tremano, non sono mai affaticati e sono tutti mandrilli da film in spiaggia in stile anni Ottanta.

È il ritornello più patetico, e al contempo più efficace, della narrativa occidentale: il dittatore è malato, quindi il suo regime è sull’orlo del precipizio. La vittoria ucraina è dietro l’angolo. Un angolo che, curiosamente, si sposta da tre anni e mezzo.

È un copione collaudato. Prima muore Stalin, poi Brežnev, e ora Putin. Tutti muoiono, prima o poi, perciò, prima o poi, potranno dire “visto che avevamo ragione”. Geniale, no?

Ogni tanto annunciano il suo tumore – anzi i suoi, visto che ne hanno diagnosticati ben quattro tipologie diverse – il Parkinson, l’affaticamento, la morte clinica.

Eppure, quando accennavamo agli evidenti elementi su Biden, ci davano dei complottisti. Per la serie, non si finisce mai di imparare…

Quella raccontata da certi giornalisti è la favola della “vittoria imminente” che serve a tenere in vita l’entusiasmo bellico di un pubblico occidentale sempre più stanco e preoccupato per il costo della vita.

Una narrazione da propaganda orwelliana che, tuttavia, non spiega mai cosa accadrebbe dopo la morte di Putin, che, prima o poi, avverrà di sicuro, come quella di tutti noi.

Dopo Putin ci sarà un altro presidente che farà gli interessi della Russia, perciò non cambierà nulla se la NATO non ammetterà i propri errori e se l’Europa continuerà la sua politica bellicista.

Difficile che torni un nuovo ubriacone pronto a sottostare a ogni imposizione NATO come Eltsin.

Ma i giornalisti italiani evitano di parlarne e preferiscono continuare con la narrazione della morte e della vittoria imminenti, che però stride con la Russia pronta a invadere l’Europa.

Una narrazione che fa il paio con un’altra, splendidamente contraddittoria, e che dimostra come i giornalisti italiani non riescano più a seguire un filo che abbia un briciolo di logica.

LA SCHIZOFRENIA DELLA MINACCIA: DAI DRONI FANTASMA ALLA BENZINA CHE NON C’E’

Da un lato, ci viene presentato un Putin decrepito, a capo di una Russia al collasso. Dall’altro, lo stesso Paese morente si trasforma nella minaccia esistenziale più sofisticata e pericolosa per la sicurezza europea.

Prendete la saga delle “navi fantasma” russe. Secondo questa geniale teoria, la Marina russa dispiegherebbe navi da guerra in acque internazionali, nascoste alla vista di tutti i satelliti e i servizi di intelligence di 30 paesi NATO, per lanciare sciami di droni che terrorizzano il Baltico. Neanche avessero una tecnologia aliena.

Provate ad aprire Google Maps. Guardate il Mar Baltico. È un’autostrada marittima, uno degli specchi d’acqua più trafficati e sorvegliati al mondo.

La fantomatica nave fantasma dovrebbe nascondersi per giorni, come un sottomarino di fantascienza, per poi lanciare droni che devono volare per centinaia di chilometri senza essere intercettati.

Una panzana di proporzioni cosmiche, come la definirebbe un qualsiasi ragazzino con un minimo di neuroni funzionanti. Eppure, i nostri media seri la riportano con la gravità di un bollettino di guerra.

La dissonanza cognitiva raggiunge il suo apice quando a questa superpotenza tecnologica si affianca la narrativa del collasso economico.

Notizie di code ai distributori di benzina in Russia, dovute a complesse riforme fiscali e alla riconversione delle raffinerie, vengono spacciate come la prova definitiva che le sanzioni stanno strangolando l’orso russo.

Quindi, riassumiamo: la Russia è così tecnologicamente avanzata da poter sfidare l’intera NATO con droni invisibili, ma è così allo sfascio che non ha la benzina per i suoi camion. Ma chi scrive questa sciocchezze è riuscito a laurearsi?!

IL PARADOSSO FINALE: LA RUSSIA É COSÍ DEBOLE DA NON AVERE CARBURANTE, MA COSÍ FORTE DA MINACCIARE L’EUROPA

Come si conciliano queste due verità?

Non si conciliano. È questo il punto.

La propaganda non ha bisogno di coerenza, ha bisogno di generare due emozioni primarie: paura e speranza.

Paura della minaccia russa (navi fantasma, droni) per giustificare le spese militari record. Speranza della vittoria imminente (Putin malato, economia a pezzi) per far digerire all’opinione pubblica i costi umani ed economici di un conflitto senza fine, spacciato per uno dalla durata breve.

La battuta sarcastica è d’obbligo: il povero Putin, così affaticato e a corto di benzina, come ha fatto a raggiungere Pechino e a sembrare così in forma?

È in questo paradosso che si smaschera la farsa. Mentre i media ci parlano di un esercito russo in rotta e a corto di munizioni, i blog ucraini più seri, come DeepState, – non certo propaganda del Cremlino – mappano guadagni territoriali russi continui e metodici nel Donetsk.

I fatti sul terreno urlano una verità diversa dalla narrazione comoda dei salotti televisivi.

E le crepe iniziano a mostrarsi.

Lo scontro tra Zelensky e l’Ungheria per presunti droni-spia mostra la fragilità del fronte filo-ucraino.

Ma la perla più preziosa viene da Mark Rutte, segretario NATO, che ammette l’assurdità strategica ed economica di abbattere droni da 2.000 dollari con missili da un milione. Un’illuminazione tardiva, che arriva dopo aver svuotato gli arsenali occidentali in nome di una strategia insostenibile.

IL VERO NEMICO NON E’ MOSCA

Allora, qual è l’obiettivo di questo circo mediatico?

Semplice: normalizzare la guerra.

Giustificare il riarmo europeo, un business da centinaia di miliardi di euro che arricchisce le solite lobby. Soffocare nel sangue ogni dibattito critico, tacciando di “putinismo” qualsiasi voce fuori dal coro.

La stessa strategia collaudata con vaccini e green pass.

Il tragico paradosso è che i peggiori nemici del popolo ucraino non sono solo a Mosca. Sono anche a Kiev, a Washington, a Bruxelles e nelle redazioni dei nostri giornali più blasonati.

Sono quelli che, per perseguire un’agenda di potenza, alimentano un conflitto insensato con narrazioni fantasiose, sacrificando migliaia di vite ucraine – per ora solo ucraine – sull’altare degli interessi geopolitici.

Hanno trasformato la guerra in uno spettacolo, la verità in un optional e i cittadini europei in perfetti idioti da intrattenere con la favola della “vittoria imminente” e delle navi fantasma, ma anche con quella dell’invasione russa e dell’esercito di Mosca pronto a marciare fino a Lisbona.

Ogni volta che leggete una notizia di droni, aerei, minacce russe con navi da guerra che sfuggono persino ai satelliti NATO e, al tempo stesso, di morte imminente di Putin, di esercito russo allo sbando, di auto senza carburante ed economia di Mosca al tappeto, chiedetevi se non vi stiano prendendo per il culo.

Ho scritto culo? Sì, l’ho scritto. Magari servirà a svegliarvi dal lavaggio del cervello della propaganda di casa nostra.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

IL MINISTERO DELLA VERITÀ HA UN NUOVO INDIRIZZO: BRUXELLES

di Pasquale Di Matteo

Da terroristi riabilitati a eroi, da democrazie annullate a nemici costruiti a tavolino.

Un’inchiesta su come la NATO, con la complicità di leader europei asserviti e una stampa propagandista, stia costruendo una realtà orwelliana in cui la guerra è pace, la menzogna è verità e la libertà è obbedienza.

New York, settembre 2025.

Un uomo, Ahmed al-Sharaa, alias al-Jolani, scende da un aereo.

Fino a ieri, il suo volto campeggiava sui manifesti dei ricercati del Dipartimento di Stato americano, con una taglia da 10 milioni di dollari.

Era un leader di Al-Qaeda. Un terrorista. Sì, proprio uno di quelli che definivamo “tagliagole”.

Oggi, dopo aver rovesciato un regime che non piaceva all’Occidente, stringe la mano a diplomatici e statisti e non è più un paria, bensì un partner.

È stato riabilitato.

Come può il male assoluto di ieri diventare l’alleato strategico di domani?

La risposta non si trova nei corridoi polverosi della morale, ma nel gelido manuale operativo di un potere che ha smesso di rispondere ai cittadini per rispondere solo a se stesso.

Un potere con un nome preciso: Alleanza Atlantica.

LA FABBRICA DEI NEMICI E DEGLI AMICI: LA GEOPOLITICA DEL “DOPPIO-PENSIERO”

Nel capolavoro di Orwell, 1984, l’Oceania era perennemente in guerra, ma il nemico poteva cambiare da un giorno all’altro.

L’Eurasia o l’Estasia erano amiche e nemiche in un batter di ciglio.

Il Ministero della Verità si occupava di riscrivere la storia, di cancellare le incongruenze.

Oggi, quel Ministero ha traslocato.

E la sua logica operativa, da fantasia è diventata la dottrina non scritta della NATO.

L’Alleanza, infatti, non combatte più ideologie, ma designa avversari e sodali in base a una convenienza strategica tanto mutevole quanto spietata.

L’Amico Riciclato.

Prendiamo il caso di Al-Sharaa.

Il suo nuovo regime, nato dalle ceneri della Siria, si macchia di massacri settari contro Alawiti e Drusi. Crimini documentati, agghiaccianti.

Eppure, a New York, l’ex direttore della CIA, David Petraeus, non gli chiede conto del sangue versato.

Gli chiede, con affettuosa sollecitudine: “Stai dormendo abbastanza? I tuoi fan, e io sono uno di loro, sono preoccupati per te”.

Questo non è un errore di strategia, come potrebbe ipotizzare qualcuno, ma è un protocollo, perché Al-Sharaa è funzionale al contenimento di altre influenze in Medio Oriente, quindi i suoi peccati vengono assolti, cancellati dalla narrazione pubblica.

Ieri i mujaheddin, oggi lui. La NATO non ha principi. Ha solo obiettivi.

Il Nemico Permanente.

Mentre un terrorista viene riabilitato, un nemico viene meticolosamente costruito: La Russia.

Decine di titoli urlati sui giornali europei: “Caccia NATO respingono incursioni russe!”. Poi, leggendo i dispacci ufficiali della stessa NATO, si scopre la verità, cioè che non esiste nessuna violazione.

Si tratta di voli di routine in spazi aerei internazionali, monitoraggi reciproci che avvengono da settant’anni.

Quindi, un’attività militare standard viene trasformata, attraverso l’alchimia mediatica, in un casus belli imminente, un pretesto per alimentare la paura e giustificare un riarmo europeo senza precedenti.

Il bene e il male non sono più categorie etiche. Sono etichette intercambiabili.

L’EUROPA, COLONIA VOLONTARIA: L’INCOMPETENZA COME STRUMENTO DI SOTTOMISSIONE

Sarebbe un errore considerare i leader europei come semplici vittime di questo gioco cinico.

La verità è più amara. Sono complici attivi, amministratori zelanti di un declino autoinflitto. La loro conclamata incompetenza non è un difetto del sistema, ma la sua più importante caratteristica funzionale.

L’Architettura del Dominio.

Le parole di Donald Trump, nella loro brutale onestà, hanno squarciato il velo.

“Voi siete la NATO, noi gli Stati Uniti”.

Non è un lapsus, ma la sintesi di una strategia precisa: spingere gli europei a un confronto diretto con la Russia, far pagare loro il prezzo economico di una guerra che americana — rinunciando all’energia a basso costo per acquistare GNL americano a prezzi esorbitanti, smantellando la propria industria per finanziare l’arsenale statunitense — mentre Washington mantiene aperti i canali con Mosca per i propri interessi strategici.

È un capolavoro di ingegneria geoeconomica: l’Europa finanzia la propria irrilevanza e gli USA incassano fiumi di denaro dagli ignari contribuenti europei e si fortificano a livello geopolitico.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: QUANDO IL VOTO DIVENTA UN CRIMINE DI PENSIERO

Il sistema mantiene una facciata democratica, un’illusione di scelta. Ma questa facciata si sgretola non appena il popolo vota “sbagliato”.

Quando l’elettorato devia dalla linea tracciata dall’Alleanza, la natura autoritaria del potere si rivela in piena luce.

Guardiamo alla Repubblica Ceca.

Il candidato favorito, Andrej Babiš, è definito “populista”. Il suo peccato capitale è avere un “rapporto ambiguo con la NATO”.

E così, il presidente in carica, Petr Pavel, valuta apertamente l’opzione “costituzionale” di non nominarlo primo ministro, anche in caso di vittoria.

È la democrazia sotto tutela. Il suffragio universale è valido solo a condizione che confermi le scelte già prese altrove. Il sostegno incondizionato alla NATO non è più una scelta politica; è diventato un prerequisito per la legittimità democratica. Un test di lealtà ideologica.

E quando la realtà contraddice la narrazione, viene semplicemente cancellata.

Com’è avvenuto con il cado dell’omicidio del nazionalista ucraino Andryi Parubiy. La reazione istantanea dei media occidentali è stata la solita strategia della propaganda occidentale: “È stata Mosca!”.

Un mantra ripetuto fino alla nausea. Ma quando si è scoperto che l’assassino era un padre ucraino, inferocito contro Zelensky e distrutto dal dolore per un figlio mandato a morire al fronte, la storia è svanita dai media.

Un po’ come accaduto al Nord Stream, al missile in Polonia nel 2022, al drone in Polonia il mese scorso, ai droni in Romania, all’aereo russo ai confini con l’Alaska. Non appena si scopre che si tratta di routine o di azioni ucraine, tutto svanisce. Nessuna smentita, nessuna scusa.

Perché scusarsi cancellerebbe il dubbio insinuato in chi raramente va oltre i titoli in prima pagina.

La rabbia di quel padre contro Zelensky è una verità intollerabile per la propaganda occidentale, poiché incrina l’immagine monolitica di un’Ucraina unita e pronta a tutto.

Rivela le crepe, il dissenso, il costo umano che la propaganda deve nascondere. Prima si accusa il “nemico designato”. Poi, di fronte all’evidenza, si impone il silenzio. È il meccanismo del “buco della memoria” di Orwell, applicato in tempo reale.

L’OCCHIO CHE TUTTO VEDE, LA VOCE CHE TUTTO RIPETE: IL RUOLO DELLA STAMPA

Questa architettura di controllo non potrebbe esistere senza il suo pilastro portante: un sistema mediatico che ha abdicato alla sua funzione critica per diventare il braccio armato della propaganda.

La stampa, soprattutto quella italiana, non informa più. Indottrina.

Il suo modus operandi è scientifico e si radica in alcuni punti.

  • Creazione della minaccia: trasforma routine militare in aggressione imminente (i jet russi, i droni, il missile).
  • Costruzione del consenso: presenta narrazioni semplificate e moralistiche, nascondendo ogni complessità (l’Ucraina unita contro la verità degli ucraini incolleriti e disperati).
  • Cancellazione della memoria: ignora sistematicamente le notizie che contraddicono la linea ufficiale (i crimini del nuovo alleato siriano, le vere cause di un omicidio a Leopoli).

I media non sono più lo specchio della realtà. Sono il martello usato per forgiarla. Il “teleschermo” di Orwell, che non solo trasmette la verità del Partito, ma vigila affinché nessuna verità alternativa possa emergere.

OLTRE LO SCHERMO DI ORWELL

Non siamo di fronte a una serie di errori politici o a una geopolitica spregiudicata, ma testimoni della metodica costruzione di un sistema di controllo post-democratico, un totalitarismo soft che non ha bisogno di gulag perché controlla le menti prima ancora che le azioni.

Un sistema in cui la NATO non è un’alleanza difensiva, ma un’autorità sovranazionale che arroga a sé il diritto di decidere per tutto il mondo chi è terrorista e chi è statista, quali elezioni siano valide e quali sovversive, quali notizie siano vere e quali devono essere dimenticate.

E basta osservare come si adottino due pesi e due misuri nei confronti degli aggrediti e degli oppressori in Ucraina e a Gaza per comprendere come siamo in un cortocircuito evidente che abbiamo l’ardire di definire democrazie.

Qualcuno potrebbe pensare che stiamo scivolando in un romanzo di Orwell, ma è molto peggio, perché siamo già oltre. E dovremmo domandarci a quale capitolo di “1984” siamo già arrivati?

E se… è rimasto qualcuno, da qualche parte, disposto a scrivere un finale diverso?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

LA ALTRE SIGLE SINDACALI. SONO SOLO 157

di Danilo Preto

Che ci crediate o no, le organizzazioni che hanno una rappresentanza sindacale sono 157. Tutto nero su bianco nella lista dei firmatari del T.U. delle rappresentanze sindacali.

Ma avevo promesso un approfondimento su alcune sigle non appartenenti alla triplice.

Partiamo dalla UGL, l’erede della CISNAL.

La CISNAL, di chiara ispirazione fascista, nasce subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1950. 

Trent’anni dopo, nel 1980 l’allora segretario CISNAL, Ivo Laghi, sottoscrive un documento con il segretario dell’MSI, Giorgio Almirante, che sancisce la piena indipendenza e autonomia del sindacato dal partito missino. 

Devono passare altri sedici anni per vedere la nascita dell’UGL (Unione Generale del Lavoro) e altri dieci anni per vedere a capo del sindacato Renata Polverini.

La prima donna in Italia a ricoprire il ruolo di segretario generale di una Confederazione sindacale, oltre che essere stata la più giovane a ricoprire questo ruolo in un sindacato.

Poi tutti sappiamo cosa è successo a Renata Polverini quando è stata nominata Presidente della Regione Lazio.

Ma in UGL c’è ancora una questione di numeri. Guarda caso, proprio sugli iscritti.

Secondo l’INPS, gli iscritti sono 66.000, contro le dichiarazioni ufficiali UGL che parlano di 558.000, e i dipendenti pubblici appartenenti a questo sindacato e certificati dal Ministero sono 44.000, contro il 171.000 dichiarati dalla UGL. 

È vero sono numeri datati però le differenze numeriche ci sembrano significative. 

Ancora nel 2013, UGL parlava di 2 milioni di iscritti mentre in realtà sembra fossero 150.000. insomma un vizio che continua.

Ricordiamo che UGL, CONFSAL e CISAL fanno parte dello stesso raggruppamento sindacale e nel 2020 dichiaravano un milione e ottocentomila rappresentati.

Secondo altre fonti UGL, reperibili on-line, questo sindacato conta fra i 65.000 e 75.000 iscritti.

In UGL si (s)balla con i numeri

E il segretario generale Paolo Capone, nel 2023, viene indagato proprio per questo: per aver gonfiato i numeri degli iscritti. L’accusa è di falso ideologico in atto pubblico per il caso delle tessere gonfiate.

Ricordiamo che, in base al numero degli iscritti al sindacato, vengono girati i soldi a loro dovuti a vario titolo. E sono tanti. 

Poi c’è la rappresentanza sindacale. Più numero hai e più conti. Va da sé che con il governo Meloni anche l’UGL ha avuto la possibilità di sedersi al tavolo delle trattative. Non sempre ma…

COSA SI DICE IN USB 

Intanto vediamo cos’è l’USB (Unione Sindacale di Base). È un sindacato autonomo e di massa, con un orientamento politico di sinistra: più precisamente comunista e anticapitalista. 

Promuove la democrazia dal basso e la partecipazione attiva dei lavoratori e questo la pone in netta contrapposizione col modello sindacale tradizionale che è verticistico.

USB si pone apertamente contro il sistema economico attuale promuovendo una visione di cambiamento sociale radicale.

Si dichiara autonomo dai partiti e dalle istituzioni, portando a rappresentare direttamente i lavoratori, senza essere influenzato dalle dinamiche elettorali o politiche tradizionali. 

Si contrappone al capitalismo imperante in Italia, al liberismo e alle politiche di austerità, sostenendo, invece, i diritti dei lavoratori dei ceti popolari. 

Dichiara un forte sostegno e impegno per la pace e la giustizia internazionale mobilitandosi anche su temi globali come le conflittualità internazionali. 

Ma anche in USB c’è una spaccatura. C’è chi accusa questo sindacato di dirigismo interno e di poca democrazia.  È Arianna Mancini, insofferente nei confronti del dirigismo e della mancanza di democrazia in USB. Che l’ha espulsa.

Quindi via dall’USB e via all’SGB (Sindacato Generale di Base).

Leggo testualmente il dettato costitutivo del SGB: “impostare una linea di lotta sindacale adeguata al livello dello scontro in corso. 

Per avanzare in questa direzione occorre rimuovere gli ostacoli. 

Primo: la confusione sulla crisi in corso, la sua natura, origine e sviluppo. Se definirla “strutturale”, “sistematiche”, “epocale”, “non congiunturale”, non è solo un modo per dire che è una crisi grave, allora significa che siamo in una situazione in cui o la rivoluzione precede la guerra o la guerra genera la rivoluzione (in una situazione rivoluzionaria in pieno sviluppo).

Quindi è una illusione aspettarsi la soluzione della crisi dai padroni e dalle loro autorità nazionali e internazionali, cioè da quelli che basano i loro interessi e i loro poteri sui metodi e sulle relazioni che hanno prodotto la crisi.

Da questa crisi non ne usciamo con qualche redistribuzione della ricchezza, con qualche cambiamento delle regole del sistema finanziario, con qualche correttivo più o meno radicale in campo economico, monetario e finanziario.

Non ne usciamo restando nell’ambito di un sistema sociale borghese…”

Insomma a parlare di sindacato non ci si annoia mai. Per le azioni per il linguaggio, per le rappresentazioni, per le soluzioni di piazza o le rivendicazioni salariali. 

Se poi ci mettiamo anche l’anima a favore dei popoli appressi, ma solo quelli che danno visibilità, allora abbiamo completato l’opera. 

Infatti l’ultima della USB è una proclamazione di scioperi a sorpresa localizzati in centro città, sempre con l’obiettivo di bloccare tutto il paese.

Obiettivo: contro! A tutto e a tutti!

Se mi posso permettere, senza essere disfattista, non mi pare che siamo molto distanti dal clima che ha consentito la nascita delle Brigate Rosse.

Chi ha vissuto quegli anni li ricorda come un periodo terribile, con una insicurezza totale sia per le persone che per le istituzioni. E la storia non ci ha riconsegnato una verità limpida e senza dubbi. Anzi.

Rivendicando solo il potere della piazza, poi potrebbe finire che qualcuno crede veramente che possa nascere una rivoluzione dal basso e si dota non di parole e concetti, ma anche di armi vere. 

Per quello che conta la mia voce, un fermo invito a ragionare sui valori del confronto anche aspro, ma senza esasperare gli animi.

Vale per Gaza, ma vale anche per l’Italia. Con gli opportuni “distinguo”.

Dott. Danilo Preto

Giornalista pubblicista, esperto di Comunicazione e di arte concettuale. Laureato in Scienze Politiche, ha gestito Comunicazione e rapporti istituzionali di grandi gruppi industriali e istituzioni.

LA FABBRICA DELLA MENZOGNA. COME UN AEREO DI ROUTINE DIVENTA LA PROSSIMA MINACCIA GLOBALE

Tra l’Alaska e la Russia c’è una porzione di mare di poche decine di chilometri, lo Stretto di Bering.

Ogni giorno, da sempre, i cieli di quella sottile striscia d’acqua sono sorvolati da caccia russi e americani che si pattugliano a vicenda. Tutto normale. Routine. Consuetudine.

Eppure, ieri, quel suono di aerei è diventato un titolo allarmante.

Perché? Dove sta la notizia?

La domanda non è oziosa, ma è la chiave per decifrare la costruzione mediatica del nemico che è diventata lo sport di una certa stampa italiana.

Una pratica con cui si plasma la realtà per forgiare il consenso e preparare il terreno per l’impensabile.

Come abbiamo già ribadito altre volte, questo non è giornalismo, ma rimodulazione del reale per alterare le percezioni delle masse.

LA MECCANICA DEL FALSO PRETESTO: UN MANUALE DI SOPRAVVIVENZA INFORMATIVA

La storia della propaganda bellica è un campionario di “falsi pretesti”.

L’incidente di Tonchino, le armi di distruzione di massa irachene, oggi i droni e gli aerei russi, situazioni che seguono i soliti pattern che si ripetono, adattati all’era dell’informazione immediata del nostro tempo.

Oggi, il meccanismo è più sottile, ma non meno efficace.

Non sempre si mente spudoratamente, infatti, a volte basta isolare un frammento di verità, decontestualizzarlo e amplificarlo fino a fargli perdere ogni contatto con la realtà di partenza. Come nel caso degli aerei tra Alaska e Russia, appunto.

E come gli altri casi di queste ultime settimane.

L’aereo della Presidente della Commissione Europea sotto attacco russo, una fake news veicolata per generare il panico. Poi, la silenziosissima smentita, un errore di comunicazione che, tuttavia, non ha guadagnato lo stesso clamore mediatico.

Così, il primo titolo, quello della notizia fake, ha già compiuto il suo lavoro. Ha seminato il terrore, ha consolidato l’immagine del russo come soggetto irrazionale e pericoloso.

La rettifica resta sepolta nel frastuono dell’indignazione iniziale, così da sembrare propaganda russa.

Così i droni in Polonia e in Bielorussia. La versione ufficiale ha dipinto Mosca come unica artefice di attacchi subdoli. Le contro-inchieste, però, hanno avanzato l’ipotesi che potrebbe trattarsi di un drone ucraino deviato dalla contraerea.

Le prove che la matrice sia davvero russa? Non ci sono o sono opache.

La copertura giornalistica, però, ha privilegiato l’ipotesi più conveniente alla propaganda occidentale, oscurando le incongruenze per evitare che le masse possano avanzare dubbi.

E il missile in Polonia? Altro esempio perfetto.

L’accusa a Mosca è stata immediata, feroce. Come sempre dal 2022 a oggi.

Poi, è emersa la verità. Era un missile antiaereo di probabile fabbricazione ucraina, partito forse per errore.

Ma ormai la colpa è stata assegnata alla Russia e chi ha fagocitato ogni fake news di pale e microchip è convinto che sia colpa di Putin.

Perché con le persone disabituate al pensiero critico e all’analisi che non sia la chiacchiera da bar, la prima impressione, come un’impronta sulla sabbia bagnata, resiste anche quando il mare della verità tenta di cancellarla.

E come non citare il tilt degli aeroporti europei.

Ovviamente, manco a dirlo, si tratta della guerra elettronica russa.

La realtà, tuttavia, è quasi grottesca: è stato un cittadino britannico con un dispositivo portatile.

Quest’ultimo episodio non solo ridicolizza una certa stampa italiana, che diffonde fake news senza porsi domande, ma dimostra come vi sia l’intenzione di trovare la causa nel “nemico” designato, cioè la Russia.

È una semplificazione che azzera il pensiero critico, perché porsi domande costringerebbe ad analizzare ogni episodio, ricordando che, dal Nord Stream al missile in Polonia, la matrice è sempre ucraina e non russa.

Così come bisognerebbe ricordare che, dalle pale ai microchip, quella stessa stampa che urla all’orso russo ci ha raccontato un mare di panzane spacciandole per analisi geopolitiche di prim’ordine.

LA “GUERRA A BASSA INTENSITÀ” NEI CIELI DEL BALTICO: DOVE LA ROUTINE DIVENTA PROVOCAZIONE

Il Mar Baltico è un crocevia strategico. Un bacino d’acqua dove gli interessi della NATO e della Russia si sfiorano continuamente. Qui, termini come “quasi sconfinamento” diventano armi retoriche.

Cosa significa davvero? In un corridoio aereo internazionale, affollato come un’autostrada, un “quasi incidente” è spesso solo una procedura standard.

È il lavoro dei piloti.

Esperti di diritto aeronautico internazionale dell’Università di Leiden hanno confermato che “Queste intercettazioni sono la norma, non l’eccezione”.

Perciò descriverle come provocazioni deliberate significa mistificare la realtà.

L’IPNOSI DI MASSA: COME LA PAURA DIVENTA “TIFOSERIA”

Il martellamento mediatico non informa. Ipnotizza e divide. Stessa strategia utilizzata durante la pandemia.

La ripetizione ossessiva di questi “incidenti”, presentati come anelli di una catena, crea un senso di minaccia cumulativa e ineluttabile. La psiche collettiva soccombe e si smarrisce la capacità di discernere, di analizzare.

Si scivola nella “tifoseria”, dove non esistono più i fatti, ma solo la nostra squadra e la loro.

La polarizzazione diventa la gabbia che imprigiona il dibattito e, in questo clima, le dichiarazioni dei leader politici fungono da acceleratori.

Le oscillazioni dello show di Trump e i toni sempre più duri dei leader europei non fanno che alimentare la macchina della paura, legittimando una copertura mediatica che ha abdicato al suo ruolo di controllore per diventare megafono di chi comanda.

IL DIALOGO TRA SORDI: LA SPIRALE SENZA USCITA

Da una parte, Mosca. Il Cremlino nega gli sconfinamenti, ma avverte: abbattere un nostro velivolo sarà considerato un atto di guerra.

La loro prospettiva è chiara: la NATO è già una parte in causa, che fornisce armi, intelligence, mezzi, uomini e legittimità a Kiev.

Le tensioni ai confini sono, per loro, la logica conseguenza di un’espansione ad est dell’Alleanza Atlantica percepita come una minaccia esistenziale.

Dall’altra, Bloomberg riporta l’avvertimento dei diplomatici europei: la NATO è pronta a rispondere con “tutte le sue forze”.

È la definizione di una linea rossa. Due narrative parallele che corrono verso lo stesso, tragico punto di collisione: l’escalation.

Ma l’escalation porta, inevitabilmente, a una guerra atomica in cui l’Europa può solo essere spazzata via.

I VERI PERDENTI NELLA GUERRA DELLE PAROLE

A chi giova questa guerra delle parole alimentata dalla follia bellicista?

A chi ha tutto da guadagnare, chi può incassare miliardi vendendo armi che piegheranno la resistenza del suo nemico numero uno nel mondo, in una guerra a migliaia di chilometri dal suo territorio.

Vi viene in mente nessuno?

I veri perdenti non sono i giornalisti dei droni, delle pale, dei microchip, degli aerei ai confini, ma i civili i cui rifugi vengono colpiti, i soldati che muoiono per una verità che non conosceranno mai.

Le loro sofferenze sono prolungate da false speranze e da una retorica che allontana sistematicamente ogni possibilità di diplomazia.

La guerra in Ucraina si combatte sui carri armati e con i droni, ma viene vinta o persa nelle nostre menti, attraverso i media che consumiamo.

Mentre le cancellerie occidentali e le redazioni costruiscono e/o modificano la realtà, chi si fa carico di ricordare il prezzo pagato in vite umane?

Chi ha il coraggio di chiamare “routine” ciò che è routine, e “propaganda” ciò che è propaganda, smascherando i falsi pretesti che ci stanno conducendo, un titolo alla volta, un articolo alla volta, verso l’abisso?

La pace, forse, inizia dal rifiuto di essere ipnotizzati. Non vi pare?

COME E PERCHÉ È SCOPPIATA LA GUERRA IN UCRAINA

L’ATTACCO: IL CAPITOLO FINALE DI UNA STORIA GIÀ SCRITTA

L’alba del 24 febbraio 2022 è soltanto il giorno in cui il velo di un’illusione trentennale è stato strappato, mostrando a tutti la realtà. Beh, almeno a quelli in grado di comprenderla.

Mentre i primi missili russi colpivano basi militari e infrastrutture ucraine, l’Occidente sobbalzava, in un coro unanime di condanna e incredulità.

“Follia”, “aggressione immotivata”, “l’imprevedibile Putin”.

Questa è stata la narrazione immediata della propaganda, rassicurante nella sua semplicità.

Ma era una menzogna comoda.

La domanda corretta, quella che i nostri leader non hanno il coraggio di porsi, non è “perché è successo?”, ma “perché abbiamo fatto finta di non vedere che stava per succedere?”.

L’invasione non è stato un atto di follia improvvisa. Putin non s’è svegliato una mattina senza saper che fare, perciò “toh, invado l’Ucraina”.

È stato il capitolo finale, violento e prevedibile, di una partita a scacchi di geopolitica, giocata sullo scacchiere eurasiatico per due decenni.

Una partita in cui l’Occidente, accecato dalla propria retorica trionfalistica e dalla certezza di essere il bene assoluto, ha sistematicamente scambiato ogni sua vittoria per un passo verso una pace perpetua, senza mai calcolare il risentimento tossico che si andava accumulando a Mosca. E non solo a Mosca.

IL PECCATO ORIGINALE: I BALCANI IN FIAMME E IL NUOVO ORDINE (1999)

Il vero inizio di questa storia non è nel 2022, né nel 2014. È nel 1999, con le bombe della NATO che piovono su Belgrado.

Il bombardamento della Serbia fu presentato come un intervento umanitario, una necessità morale per fermare il massacro in Kosovo. Un attacco senza mandato ONU.

Per il Cremlino, fu uno shock esistenziale.

Non era solo l’attacco a una nazione slava e ortodossa, un alleato storico, ma era la dimostrazione pratica, brutale, che l’Occidente – guidato dagli Stati Uniti – si era auto-investito del diritto di agire militarmente al di fuori del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Sì, proprio quel tipo di azione contraria al Diritto internazionale per cui oggi accusiamo Putin.

Il Diritto internazionale, quel fragile pilastro su cui la Russia post-sovietica sperava di costruire un nuovo dialogo, veniva trasformato in un mero strumento dei vincitori. La “Responsabilità di Proteggere” si rivelò, agli occhi di Mosca, come il “Diritto del Più Forte”.

Cosa in cui gli Stati Uniti d’America sono indiscutibili maestri.

In parallelo, silenziosa, ma altrettanto significativa, avanzava la prima espansione della NATO.

Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca entrarono nell’Alleanza Atlantica in cambio di offerte miliardarie a cui nessuno poteva rifiutare.

Per Washington, era l’integrazione di democrazie libere. Per Eltsin e, ancor più, per il suo successore Putin che osservava dalla scrivania del FSB, era la prima, inequivocabile violazione di quelle promesse verbali – mai formalizzate su carte ufficiali, ma storicamente documentate per iscritto – fatte ai leader sovietici in cambio del benestare alla riunificazione tedesca.

“Nessun allargamento della NATO verso Est”. Quel confine mobile della NATO divenne, per Mosca, il perimetro di un accerchiamento strategico in divenire.

“Non ci sposteremo di una sola spanna verso est, oltre i confini della Germania” fu la promessa del Segretario di Stato americano, james Baker a Gorbaciov, il 9 febbraio 1990. «La giurisdizione della Nato non si allargherà neppure di un pollice a Est»

Una promessa che fu ribadita anche dal Segretario generale Wörner a Bruxelles, il 17 maggio 1990, quando rassicurò i sovietici: «Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito fuori dal territorio tedesco offre all’Unione Sovietica una stabile garanzia di sicurezza.»

Tale garanzia fu messa per iscritto – come documentato dallo Spiegel – il 6 marzo 1991, dai direttori politici dei ministeri degli Esteri di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna, riuniti a Bonn.

Fu messo a verbale che «non intendiamo estendere la Nato oltre L’Elba. Non possiamo, quindi, concedere alla Polonia e ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale l’ingresso nella Nato.»

Il rappresentante della Casa Bianca, Raymond Seitz, confermò che non vi era alcun piano strategico «per sfruttare il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa dell’Est e che la Nato non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania né formalmente né informalmente.»

Ovviamente, si trattava di una delle tante promesse americane non mantenute, così i confini Nato si sono spostati: non di pollici o spanne, ma di migliaia di chilometri, come sappiamo.

L’AVANZATA INARRESTABILE: LA MAPPA DELLA NATO AI CONFINI DELLA RUSSIA (2003-2008)

Il nuovo millennio non portò distensione, ma un’accelerazione.

L’intervento in Iraq del 2003, basato su prove fabbricate dalla CIA, la famosa fake sulle armi chimiche di Saddam, fu la conferma del precedente serbo.

Ancora una volta, gli Stati Uniti agivano unilateralmente, smantellando uno stato sovrano e rafforzando nella psiche russa l’idea di un mondo governato dalla paura imposta dalla forza americana, non da regole condivise.

Poi, arrivò l’ondata più provocatoria, con l’allargamento del 2004, che inglobò Estonia, Lettonia e Lituania.

Immaginate cosa sarebbe accaduto nelle Americhe se Canada e Messico avessero abbracciato un’alleanza con Mosca?!

Per la prima volta dalla dissoluzione dell’URSS, la NATO poteva schierare truppe direttamente sui confini russi. Per molto meno, Kennedy minacciò la Terza Guerra Mondiale a causa di Cuba.

Il cuscinetto strategico, quella zona grigia di stati cuscinetto che per secoli aveva garantito una parvenza di sicurezza alla Russia, veniva cancellato dalla cartina geografica.

Il momento fatidico, la linea rossa incisa col fuoco, fu il Vertice NATO di Bucarest nell’aprile 2008.

In quell’occasione, l’Alleanza, spinta soprattutto da Washington, emanò una promessa formale: l’Ucraina e la Georgia “diventeranno membri della NATO”.

Per Putin, che aveva appena denunciato il collasso dell’URSS come la “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, fu una dichiarazione di guerra per procura.

Quella promessa trasformò l’Ucraina da Stato vicino a potenziale avamposto militare nemico.

Nello stesso anno, la firma per l’installazione dello scudo antimissilistico americano in Polonia completò il quadro: la minaccia non era più solo politica, ma diventava balistica, militare, concreta, minando la credibilità della deterrenza nucleare russa.

La risposta di Mosca arrivò pochi mesi dopo, con la guerra in Georgia: un chiaro, brutale avvertimento.

Tutto sembrava ricalcare il copione di un progetto americano, partorito dai neocon negli anni Novanta.

Il progetto prendeva spunto dall’idea di provocare il dissanguamento della Russia, ipotizzata da un ex consiglere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski.

Il progetto fu chiamato “Progetto per un Nuovo Secolo Americano”, i cui autori più noti erano Rumsfield, Cheney e Kagan.

Dick Cheney, allora Segretario alla Difesa, concepì l’idea per cui gli Stati Uniti dovevano essere l’unica superpotenza, non solo incontrastata, visto lo sfaldamento dell’URSS, ma anche inarrestabile nel mondo.

E basta rileggere gli ultimi anni di storia per comprendere come, da Clinton a Bush, da Obama a Trump, ciascuno con il proprio stile, tutti abbiano fatto proprio quel progetto. “Non governare nel mondo, ma comandarlo.”

Come?

Espandendo la NATO fino alle porte di casa della Russia, promettendo però – con la stessa affidabilità di un baro – che “non ci sposteremo di una sola spanna verso est, oltre i confini della Germania”.

SABBIE MOBILI: LA SIRIA, PROVA GENERALE DELLA SFIDUCIA (2011-2015)

L’umiliazione continuò con la Primavera Araba. L’intervento in Libia del 2011, autorizzato dall’ONU con il mandato di proteggere i civili, si trasformò rapidamente in una campagna per il rovesciamento di Gheddafi, un altro partner di Mosca.

Ma fu in Siria che la partita cambiò registro.

Per USA, Turchia e monarchie del Golfo, la guerra civile siriana era l’opportunità di rimuovere Bashar al-Assad, l’ultimo alleato russo nel Mediterraneo.

Fiumi di denaro e armi fluirono verso i ribelli, molti dei quali di matrice terrorista jihadista.

Per Mosca, non si trattava solo di salvare un dittatore, ma di proteggere la base navale di Tartus, l’unico accesso al Mediterraneo, e di preservare un punto d’appoggio cruciale in Medio Oriente.

Nel settembre 2015, Putin fece la sua mossa.

L’intervento militare russo in Siria non fu un avventurismo, ma una calcolatissima dimostrazione di forza. Fu la prova generale. In Siria, la Russia testò le sue nuove capacità militari, i suoi droni, la sua dottrina.

Ma, soprattutto, testò la volontà dell’Occidente e scoprì che era vacillante, diviso, incapace di reagire con determinazione. In Siria, Putin imparò che poteva sfidare l’establishment occidentale sul campo, in una guerra per procura, e vincere.

Quella vittoria gli diede la certezza operativa e psicologica per il passo successivo.

L’ARCHITETTURA DELLA PAROLA: LA GUERRA DELLE NARRAZIONI

Questa escalation non è stata solo di carri armati e missili, bensì, in primis, una guerra di narrazioni, costruita con un abile uso della Comunicazione da ambo le parti.

L’Occidente ha perfezionato una tecnica retorica sottilmente disonesta: la de-responsabilizzazione.

Si utilizzano costantemente soggetti collettivi e impersonali: “La NATO ha deciso”, “L’UE sta valutando sanzioni”, “La Comunità Internazionale condanna”.

Questo linguaggio dissolve l’agenzia e la responsabilità dei singoli leader – un Draghi, un Biden, un Macron – in un’entità astratta e impersonale, facendo credere alle masse che la decisione sia, allora, giusta e sacrosanta.

Si instilla nelle persone poco avvezze a informarsi e ad analizzare contesti complessi la percezione che le decisioni siano il prodotto di un processo inevitabile e condiviso, quasi un destino ineluttabile.

All’opposto, la narrazione occidentale applica al nemico il principio opposto: la personalizzazione estrema.

Ogni azione della Russia è attribuita a “Putin”.

“Putin bombarda”, “Putin minaccia”, “la guerra di Putin”.

Questa strategia comunicativa di costruzione del nemico serve a uno scopo preciso: creare la figura del cattivo solitario, un dittatore paranoico e isolato, agente in un vuoto politico.

Così, si cancella con un colpo di spugna il vasto consenso di cui gode nel suo establishment militare e di sicurezza, un consenso che non nasce dal nulla, ma è stato meticolosamente costruito in vent’anni di percezione di umiliazioni e accerchiamento.

Non si combatte contro una nazione con le sue ragioni – per quanto distorte possano sembrare o essere-, ma contro un uomo solo. Anzi, si ha la percezione che i russi siano ostaggi di Putin.

E sconfiggere un uomo è una tattica di comunicazione semplice che evita di affrontare le radici profonde di un conflitto geopolitico.

La stessa strategia usata in maniera inversa con il tagliagole che oggi governa in Siria. Assassino e terrorista, ricercato numero uno dell’America, con una taglia milionaria, trasformato in saggio diplomatico in giacca e cravatta dalla sera alla mattina.

Così, all’ONU vediamo leader occidentali stringere la mano a un tagliagole pluriomicida, ma dopo essere usciti da un vertice per imporre nuove sanzioni alla Russia, in un cortocircuito che, se non fosse drammatico, risulterebbe persino tragicomico.

IL DESTINO SI COMPIE A KIEV

Oggi, le bombe su Kiev e le trincee nel Donbass non sono l’inizio di una guerra, ma il culmine di un’escalation ventennale.

Sono l’epilogo di una tragedia i cui atti sono stati scritti a Belgrado, a Bucarest, a Baghdad e nel deserto siriano. Atti di un copione nato a Washington tempo addietro.

Ogni allargamento della NATO, celebrato come un trionfo della democrazia, ogni intervento unilaterale giustificato come un imperativo morale, ogni “cambio di regime” è stato un mattone aggiunto al muro di sfiducia che ha reso la diplomazia Occidente-Mosca prima difficile, poi inutile, ed infine impossibile.

L’Occidente ha ballato per vent’anni sulla tolda di una nave che sembrava inaffondabile, celebrando una catena di vittorie geopolitiche che, invece, erano crepe nelle fondamenta della stabilità mondiale.

Ha elevato il proprio modello a verità universale, senza mai calcolare seriamente il costo a lungo termine di una pace perduta.

La tragedia ucraina è quell’eco lontana e assordante, è il prezzo da pagare per un trionfalismo miope che ha ignorato le paure, le insicurezze e l’orgoglio ferito di una potenza nucleare umiliata.

Fino a quando quella paura, coltivata in due decenni di sconfitte percepite, non si è trasformata in una furia cieca e distruttiva, scaricata su un Paese e un popolo che ne stanno pagando il prezzo più alto.

Quando finirà la guerra in Ucraina?

Quando avremo l’umiltà di riconoscere la nostra parte nella sua genesi. Al contrario, continuare a credere di essere i buoni ci spingerà verso un punto di non ritorno.

IL GENIO DEL MAGO DONALD E L’EUROPA APPLAUDE, MENTRE LUI PRESENTA IL CONTO

Mentre a Bruxelles, tra un vertice e un comunicato stampa sulla curvatura delle banane, si continua a recitare la commedia della “sovranità strategica” e della “pace giusta”, dal Tycoon, più fenomeno da baraccone di sempre, arriva il colpo di scena che tutti i nostri prodi leader aspettavano.

E loro, i Macron, gli Scholz, le Von der Leyen, abboccano come tonni, insieme ai soliti noti che ci hanno raccontato di pale, muli, microchip e altre sciocchezze, la cui credibilità è pari a quella di Arsenio Lupin.

La notizia è di quelle che fanno tremare i palazzi: Donald Trump, il barbaro che voleva smantellare la NATO e far la pace con Putin in 24 ore, ha cambiato idea.

Di nuovo, verrebbe da dire. Perciò, anche a volergli credere, c’è da aspettare qualche giorno prima della sistematica smentita.

Infatti, con la coerenza di un “mentitore seriale”, il presidente degli USA ha dichiarato che “l’Ucraina sarà in grado di riprendersi il suo Paese nella sua forma originale e, chissà, forse anche di più”.

E giù applausi, sospiri di sollievo, giubilo totale nei corridoi del potere europeo.

Neanche Crozza sarebbe riuscito a inventare una panzana migliore. Solo che il suo pubblico avrebbe riso a crepapelle, perché più sveglio dei nostri leader.

Per loro, finalmente il “Padrone d’oltreoceano” si è allineato. Finalmente parla la nostra lingua. Poveri illusi. E poveri noi.

Non capiscono, o fingono di non capire, – ma opto per la prima – che questo è solo l’ultimo atto di un wrestling politico dove la “caciara trumpiana” serve a un unico scopo: gli affari. Trump è un cinico imprenditore a cui interessano solo contratti e soldi. Nient’altro.

E per afferrare il senso dello spettacolo, bisogna tenere a mente alcune verità scomode che la nostra stampa di regime si guarda bene dal raccontare, tra una panzana sulle pale e un’altra sui muli, o su fantomatici attacchi di droni o all’aereo di von der Leyen.

Ricordate il tappeto rosso al presidente russo in Alaska, il 15 agosto. Beh, non è cambiato niente e non cambierà nulla.

Russia e USA sono due potenze globali e nucleari che si rispettano, che discutono costantemente dei massimi sistemi all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e che non permetteranno mai una guerra diretta fra loro, perché si annienterebbe il mondo e quindi loro stessi.

Lo show che vedete ha diverse spiegazioni.

Primo aspetto, sulla figura di Trump: ha un carattere instabile, è abituato alla caciara da stadio, ma è soprattutto un cinico commerciante. La sua nuova posa da falco serve a portare avanti gli interessi economici americani, legati all’industria delle armi.

Secondo aspetto, sulle lobby guerrafondaie: il “deep state” americano lavora per allineare chiunque arrivi al potere, in modo che porti avanti la loro linea affarista che guadagna dal disordine globale e dalla vendita di armi.

Terzo aspetto, sulla comunicazione in malafede: tentano di far credere che la Russia sia isolata, quando invece è l’Occidente a essere sempre più piccolo, soprattutto nel microcosmo insignificante dell’Unione Europea.

E quanto abbiamo visto con India e Cina dimostra quanto l’isolamento della Russia sia una barzelletta ancora più ridicola dell’Ucraina che si riprende i territori conquistati da Mosca.

Ma avete capito il gioco? Vediamo di essere più chiari.

Trump non ha fatto una giravolta, ma ha semplicemente presentato il conto.

Leggete bene il suo post: l’Ucraina, dice il commerciante alla guida degli USA, può riconquistare tutto “con il sostegno dell’Unione Europea”.

Avete letto bene? Lo avete riletto?

“Con il sostegno dell’Unione Europea”.

È la quintessenza del suo pensiero: “Fattacci vostri”.

Tradotto dal trumpese: “Volete la guerra totale? Volete la vittoria di Kiev? Benissimo. Pagatevela. Comprate le nostre armi, svenate le vostre economie, rischiate il vostro deretano. Noi vi diamo la benedizione e vi vendiamo la merce a caro prezzo finché pagate”.

Distingue persino tra USA e NATO, scaricando sulla seconda – cioè su di noi – l’onere militare.

E i nostri geni a Bruxelles esultano come adolescenti alle prime armi.

Zelensky, dopo l’incontro, gongola: “Trump ha capito tutto!”.

Certo che ha capito. Mica è come i nostri, che non ne azzeccano mezza dal 2022!

Ha capito che c’è un intero continente di utili idioti pronto a immolarsi per gli interessi americani, finanziando una guerra per procura fino all’ultimo euro e all’ultimo ucraino, ingrassando le aziende americane produttrici di armi.

Mentre l’Europa si prepara a pagare il biglietto per la propria rovina, convinta di aver incassato una vittoria diplomatica, la realtà è che è appena stata umiliata. Ancora una volta.

I nostri leader escono con le ossa rotte, ma con il sorrido sulle labbra di quelli che nelle commedie sono gli idioti.

Vista l’incompetenza assoluta dei nostri leader e la voglia di soldi di Trump, dobbiamo solo augurare lunga vita a Vladimir Putin, perché è in gran parte grazie ai suoi nervi saldi che l’Europa si regge ancora in piedi, non avendo ancora ceduto a nessuna delle provocazioni, dal missile polacco del 2022 al Nord Stream attribuiti alla Russia; dal drone sulla casa polacca all’attacco all’aereo di von der Leyen.

Tutte fake spacciate dalla propaganda per giustificare il riarmo e la guerra, ma che avrebbero potuto spingere Mosca a inviare qualcuno dei suoi imprendibili missili ipersonici su Parigi, Roma, Londra e Berlino se solo ci fosse stato un impulsivo senza logica come Trump al posto di Putin.

Il resto è solo propaganda per allocchi della stessa sostanza dei muli, delle pale, dei droni e dei microchip.

Tutto va come avevamo previsto qualche giorno fa nell’articolo “La Guerra In Ucraina. Il più grande business per Europa e America”.

E a giudicare dalle reazioni, in Europa, soprattutto in Italia, di allocchi ce ne sono in abbondanza.