Il fronte si sgretola, giorno dopo giorno.
Mentre le attenzioni del mondo sono calamitate dai flash delle conferenze stampa e dalle strette di mano nei palazzi del potere, la realtà a Pokrovsk è fatta di fango, sangue e ritirate che sanno di disfatta.
Ma c’è un’altra linea del fronte che sta cedendo, quella morale e politica a Kiev. Volodymyr Zelensky è un uomo solo. Sempre più solo.
E la sua non è la solitudine dell’eroe romantico, ma quella del manager fallimentare abbandonato dai soci di maggioranza, dopo che lo scandalo della corruzione ha decapitato i vertici della difesa e dell’energia, toccando figure intoccabili come Yermak.
Perché, quando il mito della vittoria si infrange contro la realtà della guerra di logoramento, inizia la caccia alle streghe interna.
Perciò i fedelissimi cadono e il Re è nudo, ma l’Europa continua a cucirgli addosso vestiti invisibili, fingendo che le tangenti sui generatori e sulle munizioni siano solo un “danno collaterale” della democrazia nascente.
Non lo sono, anche se tanti si arrampicano sugli specchi dicendo “saltano fuori queste cose perché l’Ucraina è una democrazia”.
Sono il cancro che divora la resistenza mentre i nostri soldi, i soldi dei contribuenti europei, finiscono in un buco nero di inefficienza e avidità. Così come le nostre armi finiscono nelle mani di organizzazioni non meglio definite per scopi ancora più bui e misteriosi.
L’ELEFANTE NELLA STANZA HA GLI OCCHI A MANDORLA
Eppure, sarebbe miope, quasi infantile, limitare l’analisi al teatro ucraino. La vera partita si gioca a migliaia di chilometri di distanza. La Cina non è solo uno spettatore silente, ma il banco che tiene in piedi il casinò.
Senza l’ossigeno economico di Pechino, la macchina bellica russa si sarebbe inceppata da tempo.
E anche non aver calcolato la presenza della Cina è un enorme errore di valutazione dei leader europei.
Tuttavia, Xi Jinping non fa beneficenza. Il suo è un calcolo economico e geopolitico, infatti recita la parte di Liu Bei, lasciando che i due giganti, Washington e Mosca, si logorino a vicenda nella guerra combattuta per procura in Ucraina, per emergere poi come il vero vincitore, o quantomeno come l’ago della bilancia indispensabile.
Gli Stati Uniti sono paralizzati da un dilemma shakespeariano: affrontare l’asse sino-russo come un monolite o tentare di sedurre Mosca per isolare Pechino?
È il dibattito che sta dilaniando il Dipartimento di Stato, diviso tra i “vecchi” esperti di Russia, ancorati alla Guerra Fredda, e i nuovi strateghi dell’Indo-Pacifico. E mentre Washington esita, Mosca incassa.
LA PSICOSI EUROPEA E IL MERCATO DELLA PAURA
In questo vuoto strategico, l’Europa è scivolata nel panico. O meglio, nel “marketing del panico”.
Polonia, Germania e Paesi baltici stanno costruendo una narrazione di assedio per giustificare l’ingiustificabile: il ritorno all’economia di guerra e alla leva obbligatoria che, senza paura e senza un nemico alle porte, gli europei non accetterebbero.
I droni di polistirolo rattoppati con lo scotch che “minacciano” i confini polacchi, le misteriose petroliere in fiamme, i sabotaggi maldestri attribuiti a spie da film di Alberto Sordi, pagate in cripto-valute: siamo di fronte a una costruzione sociale della minaccia che fa sorridere chi non ha soltanto spazio tra le orecchie, ma che funziona con tanti, evidentemente.
Varsavia incassa 44 miliardi di euro dall’UE per fortificare i confini, Berlino sogna di ricreare la Wehrmacht in chiave moderna.
Ma per farlo, devono terrorizzare una popolazione pacificata da ottant’anni di benessere. Devono convincere il giovane di Berlino o di Milano che imbracciare un fucile è necessario, è da cittadino modello. Come lo era iniettarsi un vaccino.
Solo che, quando Camilla Canepa è morta, i grandi guru di virologia sono spariti tutti. E quando sono arrivati gli invalidi, il potere non ha trattato quelle persone da eroi, da cittadini modello, ma ha impugnato le sentenze di risarcimento, trincerandosi dietro scuse che la Commissione Covid sta smontando, nel silenzio generale dei media che hanno scelto di fare propaganda anziché informazione.
Perciò, meglio pensarci tre volte, prima di credere alle chimere di eserciti, armi e minacce.
Infatti, tanti non credono più ai politici e alle loro promesse da truffatori in metropolitana.
Allora, che fanno i potenti?
Gridano al lupo ogni giorno. Trasformano ogni incidente in un atto di guerra ibrida, in una evidente manipolazione di massa che serve a coprire il fallimento diplomatico figlio della loro incompetenza.
IL PIANO WITKOFF E IL TRAMONTO DELLA DIPLOMAZIA VALORIALE
In questo scenario apocalittico è esplosa la figura di Steve Witkoff ai colloqui in Florida, per cui è caduta l’ultima maschera. Non si parla di valori, di democrazia o di integrità territoriale. Si parla di affari.
Il piano che si sta delineando è brutale, è fatto di risorse in cambio di tregua. Scambi commerciali come trattati di pace.
Ma c’è un problema di fondo, un problema di fiducia. Mosca non si fida di Washington. Pechino guarda con sospetto a qualsiasi accordo commerciale USA-Russia che possa escluderla.
E Kiev continua a chiedere l’impossibile, cioè la NATO e i confini del 1991, mentre l’Europa la incoraggia ciecamente, come un allenatore che spinge sul ring un pugile ormai suonato, tra il padre cinico che manda al patibolo il figlio al suo posto.
La richiesta russa è sempre quella del 2022, chiara e, dal loro punto di vista, logica: il ritiro ucraino dal Donbas non controllato come precondizione per il cessate il fuoco.
È una resa? Certamente. Ma l’alternativa è che se lo prendano con la forza, metro dopo metro, mentre l’Occidente discute se i droni fossero russi o ucraini.
Perché, da che mondo è mondo, le condizioni dei trattati le dettano i vincitori. E la Russia ha vinto, tanto che a implorare il cessate il fuoco è Kiev, non certo Mosca.
L’ULTIMO ATTO
Siamo di fronte a un bivio storico. La guerra in Ucraina sta diventando un “side show”, uno spettacolo secondario rispetto alla vera tensione che si accumula nel Pacifico, attorno a Taiwan e alle isole Ryukyu.
Il Giappone si riarma, la Cina minaccia, e l’Ucraina rischia di essere la pedina sacrificata per guadagnare tempo, uomini e denaro per rivolere attenzioni più a Est.
Zelensky rimarrà solo nel suo bunker, circondato dai fantasmi della corruzione e dalle promesse infrante dell’Occidente.
E noi europei ci ritroveremo più poveri, più militarizzati e moralmente sconfitti, per aver finanziato una guerra per procura che non potevamo vincere, mentre i tre unici veri imperi ridisegnano le mappe del mondo sopra le nostre teste.
La pace, se arriverà, non avrà il sapore della giustizia, proprio come i libri di storia ricordano a chiunque abbia il coraggio di studiarli.
Avrà il sapore metallico di un accordo commerciale, siglato sulle ceneri di una nazione che abbiamo illuso e mandato al patibolo per la follia di Biden e l’incompetenza di un manipolo di pazzi alla guida delle istituzioni e delle cancellerie europee.


Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.




