L’ILLUSIONE DEL SOLDATO VOLONTARIO

L’EUROPA CI PREPARA ALLA GUERRA MENTRE L’ECONOMIA AFFONDA

Ormai, siamo nella fase del marketing della paura.

Mentre l’amministratore delegato di Leonardo, il colosso della difesa italiana, ci dice che “non sta finendo una guerra, ma ne sta iniziando una nuova”, noi ci troviamo di fronte a uno dei più grandi esperimenti di ingegneria sociale del XXI secolo.

E non è affatto un caso.

La sincronia è perfetta: da una parte abbiamo i mercati e l’industria bellica che chiedono sangue e contratti, dall’altra, i governi europei, da Parigi a Roma, che iniziano a sussurrare parole che credevamo sepolte negli archivi del Novecento, quali leva, riserva, mobilitazione, coscritti.

Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha lanciato il sasso al cospetto di Macron, annunciando una riserva ausiliaria di diecimila unità. Volontaria, per ora.

Ma l’aggettivo “volontario”, quando pronunciato in tempi di crisi economica sistemica, assume contorni sinistri. È davvero una scelta libera arruolarsi quando il potere d’acquisto si sgretola e il PIL del tuo Paese flirta con lo zero virgola?

LA DISSONANZA COGNITIVA: IL MITO DELL’INVASIONE RUSSA

La narrazione dominante, quella che giustifica il riarmo e la proposta di una riserva militare, si fonda sul traballante assioma per cui la Russia vuole invadere l’Europa.

Ma è la medesima Russia che comincia ad avere meno incassi dalla vendita di gas e petrolio e che vede le banche e le imprese in grandi difficoltà. La stessa Russia che la propaganda occidentale dava per morta nel 2022, armata solo di pale ottocentesche, senza calzini, a dorso di muli e a caccia di microchip dai tiralatte.

Come fa una nazione che, secondo i racconti di Repubblica, Il Corriere e le altre testate roboanti, è moribonda, con un esercito allo sbando, impantanata nel Donbas da quasi quattro anni, a essere un pericolo per Roma, Parigi, Madrid e Lisbona?

Questi tesi, ripetuta come un mantra ossessivo, cozza violentemente con la realtà logistica e militare.

Mosca è impantanata nel Donbas, sebbene messa indiscutibilmente meglio dell’Ucraina.

Ha impiegato mesi, risorse ingenti e vite umane per conquistare villaggi che sulle carte geografiche che ci mostrano nei talk show appaiono come puntini insignificanti. Almeno così ci dicono i nostri esperti di guerra.

E noi dovremmo credere che questa stessa macchina militare, logorata e lenta, sia pronta a marciare su Berlino o Parigi nel 2029?

Con quali soldi, visto i guai finanziari? Con quali uomini, visto che, con 1000 morti al giorno, stando ai racconti dei nostri media, ha perso più di 1,2 milioni di uomini, cioè l’intero esercito?

È un insulto alla nostra intelligenza, almeno per chi abbia almeno due neuroni funzionanti e non solo spazio vuoto tra le orecchie.

Eppure, questa “bugia utile” serve a coprire un fallimento strategico colossale.

Abbiamo investito miliardi in un conflitto per procura in Ucraina, svuotando i nostri arsenali e le nostre casse, senza ottenere alcun vantaggio geopolitico tangibile, se non quello di aver spinto la Russia tra le braccia della Cina e aver devastato il nostro tessuto industriale con costi energetici insostenibili.

Senza dimenticare il fatto che l’Ucraina che rifiutò i trattati del 2022 aveva un’economia e un esercito, mentre oggi ha il 20% del territorio occupato dal nemico, un esercito allo sbando, l’economia rasa al suolo, con debiti impagabili, un’intera generazione morta o resa invalida e milioni di cittadini in età da lavoro fuggiti all’estero.

Perché, sì, ragazzi: la guerra per una pace giusta porta morti e distruzione; la diplomazia per una pace a qualunque costo, invece, salva vite e la nazione. È solo questione di visione e di scelta. L’Europa ha scelto il fallimento dell’Ucraina e la morte degli ucraini.

IL “PIANO GERMANIA” E I PASSETTI VERSO L’ABISSO

La mossa di Crosetto non è un atto di precauzione nazionale, ma un tassello di un mosaico più ampio e inquietante.

La Germania ha già steso il suo Operation Plan Deutschland, un tomo di oltre mille pagine che non è solo teoria, ma un manuale operativo per trasformare il Paese in un hub logistico per la Terza Guerra Mondiale.

Macron, in Francia, gioca con la retorica napoleonica reintroducendo il servizio universale e i vertici del suo esercito dicono già ai francesi che devono abituarsi all’idea di perdere i loro figli in guerra.

L’Italia si accoda. Si parla di “riserva volontaria”, di “professionalità specifiche”, ma la direzione è inequivocabile: si sta traghettando l’opinione pubblica dalla pace al concetto di “economia di guerra”.

È l’applicazione della Finestra di Overton – per chi non ha studiato Comunicazione e Psicologia, la tecnica della rana bollita.

Oggi ti dicono che servono 10.000 volontari per colmare i vuoti lasciati da anni di tagli sconsiderati.

Domani, quando la crisi economica indotta dalle stesse sanzioni che abbiamo applaudito e le scellerate politiche contro il motore endotermico renderanno il lavoro civile una chimera, la divisa diventerà l’unico ammortizzatore sociale rimasto. Non sarà una leva obbligatoria per legge, ma per fame.

E ti diranno che serviranno 30.000, forse 50.000 inventandosi i più disparati motivi. Un po’ come quando ti dicevano “ancora solo quindici giorni”. Ricordi? La strategia è la stessa.

DIPLOMAZIA VS. RIARMO: LA GRANDE RIMOZIONE

La cosa più spaventosa non è ciò che viene detto, ma ciò che viene taciuto.

Nessuno, nelle cancellerie che contano, parla seriamente di come far finire la guerra.

Le condizioni di Putin sono sul tavolo: riconoscimento della Crimea, ritiro dal Donbas. Sono lì dal 2022 e, più passa il tempo, peggiori e più pesanti diventano.

Possiamo considerarle inaccettabili, ingiuste, brutali. Ma l’alternativa qual è? Continuare a combattere una guerra di attrito che l’Ucraina non può vincere, rischiando di perdere ancora più territorio e più uomini, trascinando l’Europa nel baratro?

Quante migliaia di altri giovani ucraini devono morire perché i leader europei lo capiscano? Perché… vogliono salvarli gli ucraini, vero?!

A me sorge più di qualche dubbio, non so a voi.

La logica – e la cultura – vorrebbe che si esplorasse ogni via diplomatica prima di chiedere ai cittadini di prepararsi a imbracciare le armi, invece, assistiamo a una rimozione collettiva della diplomazia.

Si preferisce investire in munizioni che non abbiamo e in soldati che i popoli europei non vogliono, come hanno dimostrato in tutte le elezioni svolte negli ultimi due anni, in cui hanno dato ampio consenso ai partiti contrari alle politiche belliciste.

Eppure i leader insistono sulla preparazione alla guerra, piuttosto che ammettere di aver miseramente fallito.

IL PREZZO DEL CONFORMISMO

Stiamo scivolando su un piano inclinato, perché la proposta di una riserva militare italiana, venduta come un necessario adeguamento ai tempi correnti, è in realtà la confessione di un’impotenza politica.

I nostri leader, incapaci di garantire prosperità e sicurezza attraverso la politica e l’economia, si rifugiano nell’unica risposta che conoscono quando le idee finiscono: la forza.

Ma attenzione. I miliardi necessari per riarmare l’Europa, per addestrare queste riserve, per riempire i magazzini svuotati, non cadranno dal cielo. Verranno sottratti alla sanità, all’istruzione, alle infrastrutture civili.

Stanno tassando il futuro dei nostri figli.

Ci stanno chiedendo di barattare il nostro benessere con una sicurezza illusoria contro un nemico che non ha né la forza né l’intenzione di varcare i nostri confini, né alcun motivo logico per farlo, a meno che non siamo noi stessi a costringerlo con una minaccia esistenziale.

E, cosa ancora più inquietante, la storia ci insegna che quando si preparano i piani per la guerra, la guerra, per una perversa profezia che si autoavvera, tende ad arrivare davvero.

Chi ha studiato le cause della Prima e della Seconda Guerra mondiali lo sa bene. Purtroppo, sembra che tutti gli altri siano finiti a fare i giornalisti o a rivestire alte cariche europee.

Sembra solo a me?

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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