ZELENSKY IN TRAPPOLA, L’EUROPA IN SCACCO E IL GRANDE BLUFF OCCIDENTALE

Sei giorni. È il tempo concesso a Zelensky per scegliere tra due abissi.

Da una parte, la resa mascherata da accordo, una pace in cambio della perdita di sovranità e di dignità.

Dall’altra, la continuazione di una guerra ormai insostenibile, senza il respiro artificiale del suo alleato più potente.

Volodymyr Zelensky è inchiodato al centro di una morsa stretta da Washington e Mosca, con l’Europa a balbettare incredula.

Come abbiamo già scritto, si tratta della liquidazione di un conflitto diventato troppo costoso per l’America, di una strategia di uscita che Donald Trump, con la brutalità pragmatica che lo contraddistingue, ha imposto come farebbe un amministratore delegato che taglia un ramo secco dell’azienda.

Il documento in 28 punti, trapelato con chirurgica precisione e poi confermato con un ultimatum, è un capolavoro di Realpolitik che svela il grande bluff dell’Occidente: la sua presunta unità non era altro che una dipendenza strategica, e ora che il padrone ha deciso di chiudere la partita, i vassalli sono nel panico.

LA MORSA DELL’ULTIMATUM

“Zelensky dovrà farselo piacere” ha detto Trump. Non è un suggerimento, dunque.

È un ordine esecutivo mascherato da consiglio paternalistico. La semantica è tutto: l’ultimatum scade il giorno del Ringraziamento, un simbolismo quasi crudele che invita Kiev a essere “grata” per l’opportunità di sopravvivere, seppur mutilata.

Le opzioni sul tavolo sono inesistenti. L’alternativa all’accettazione non è la vittoria, ma “continuare a litigare”, come ha detto Trump, sapendo perfettamente che senza l’intelligence e le armi americane, “litigare” significa semplicemente scegliere un modo più lento e sanguinoso di perdere.

Di mandare altri ucraini a morire al fronte, di regalare altro territorio ai russi.

La cessione di Crimea, Donetsk e Luhansk è la ratifica di una conquista militare. Il ridimensionamento dell’esercito ucraino e la rinuncia alla NATO sono la demilitarizzazione imposta a uno stato sconfitto. Come ci insegnano i libri di storia, d’altronde, sulle pagine dei quali non esiste la fantomatica “pace giusta” venuta in mente ai leader europei, veri sconfitti di questa guerra. Commercialmente, industrialmente e geopoliticamente.

La concessione all’Ucraina dell’ingresso nell’UE è il contentino, una caramella offerta a un bambino a cui è stata appena sottratta la casa, utile soprattutto a scaricare sull’Europa il fardello economico e sociale di una nazione da ricostruire e sostenere per decenni.

E c’è ancora qualche giornalista che non comprende la genialità di Trump. Brutale, da elefante in una cristalleria, ma per gli americani è manna dal cielo: gli USA hanno incassato miliardi e miliardi per vendere armi, hanno annientato i competitor industriali europei, hanno spezzato i contatti commerciali dell’Europa con la Russia e limitato quelli con la Cina e hanno siglato contratti per vendere energia al Vecchio Continente a prezzi anche quadrupli rispetto a quanto ci faceva spendere Mosca.

E ora, anche i costi della ricostruzione saranno a carico dei leader europei, quelli che ancora non vogliono sentir parlare di pace. Quelli che ancora vorrebbero più guerra, per giustificare il piano di riarmo europeo.

IL SILENZIO ASSORDANTE DELL’EUROPA

L’Europa si credeva protagonista e si scopre comparsa.

Il panico che serpeggia tra Berlino, Parigi e Bruxelles non è dovuto alla preoccupazione per l’Ucraina, ma alla terrificante presa di coscienza della propria irrilevanza. Della sconfitta netta e inequivocabile.

Per anni, i leader europei hanno interpretato il ruolo dei “volenterosi”, spingendo Kiev verso il baratro della guerra totale, sabotando ogni timido tentativo di negoziato, e promettendo un sostegno incrollabile che si è rivelato essere solo un assegno staccato sul conto corrente americano per acquistare armi.

Ora, esclusi dal tavolo dove si decide il destino del loro continente, balbettano ancora, come malati di mente, chiedendo una “pace giusta” e di essere coinvolti.

È un lamento patetico di chi non ha esercitato la propria influenza quando poteva, perciò non ha il diritto di parola quando le decisioni vengono prese.

L’Europa ha scelto di essere un protettorato e ora ne paga il prezzo. Ha rinunciato alla propria energia a basso costo per legarsi mani e piedi al GNL americano, ha svuotato i propri arsenali, si è indebitata per finanziare una guerra per procura e ora, come beffa finale, i miliardi che verserà per la ricostruzione andranno in gran parte a rimpinguare le casse delle multinazionali americane che gestiranno i lavori.

È un cappio economico e politico che si stringe, ed è stato tessuto con le stesse mani dei leader che oggi si dicono “spiazzati”.

Gli americani hanno un presidente a cui dire grazie, noi leader che entreranno nei libri di storia come il più grande fallimento politico del nuovo millennio.

IL REALISMO DI MOSCA E WASHINGTON

In questo teatro dell’assurdo, gli unici attori razionali, nella loro spietatezza, sono Trump e Putin.

Entrambi hanno compreso che la partita si giocava su un piano diverso da quello della retorica sui “valori”.

Putin, definendo il piano una “base per la pace”, accetta di buon grado di formalizzare le sue conquiste, come qualunque vincitore ha sempre fatto in passato.

Ha raggiunto i suoi obiettivi militari minimi, ha dimostrato la debolezza strutturale della NATO e ha accelerato la frattura del blocco occidentale.

Ora può permettersi di sedersi al tavolo, da vincitore di fatto. La sua minaccia di conquistare altri territori non è un bluff, ma la logica conseguenza di un eventuale rifiuto di Zelensky: se la guerra deve continuare, sarà una guerra di logoramento che la Russia, a questo punto, sa di poter vincere.

E i fatti, al di là della becera propaganda di pale ottocentesche, microchip delle lavastoviglie, muli e mancanza di calzini, lo dimostrano senza se e senza ma.

Trump, dal canto suo, chiude una partita che non ha mai voluto giocare, ereditata dall’Amministrazione Biden e considerata un cattivo investimento.

Il suo obiettivo non è una pace giusta, ma una pace rapida che gli permetta di concentrarsi sui veri avversari strategici e di presentarsi agli elettori come l’uomo che ha fermato una guerra infinita. Ha trattato direttamente con l’unica controparte che riconosce come pari, perché è l’unica che ha armi come le sue: la Russia.

L’Europa e l’Ucraina, in questa equazione, sono semplici variabili dipendenti.

L’ULTIMO ATTO: LA TRAGEDIA DELLA DIGNITÀ

Alla fine, tutto converge sulla figura tragica di Zelensky.

Nel suo discorso alla nazione, ha elencato ciò che era in gioco: “la nostra sovranità, la nostra indipendenza, la nostra terra, il nostro popolo”.

È un lapsus freudiano di straziante onestà che il “popolo” arrivi per ultimo, dopo i concetti astratti e il territorio fisico. È la sintesi di una guerra in cui la vita umana è diventata l’ultima delle priorità.

E visti quanti ucraini ha fatto rastrellare per le strade per mandarli a morire al fronte, quando poteva trattare tre anni fa, si capisce quanto gli stia davvero a cuore il suo popolo.

La sua scelta tra “perdita della dignità” e “perdita di un partner chiave” è la confessione di un fallimento che non è solo suo, ma soprattutto di un’intera generazione di leader occidentali.

La dignità è già stata persa nel momento in cui si è accettato di combattere una guerra senza comprendere che non si aveva la forza di vincerla e senza la saggezza di negoziarla.

Una sconfitta che è anche di tantissimi giornalisti italiani che hanno raccontato fake news e narrazioni irrealistiche e che ora devono fare i conti con la realtà che dimostra la loro colossale incompetenza.

Leader che hanno accettato l’attentato al Nord Stream continuando ad appoggiare l’esecutore. Che hanno tentato più volte la carta dello sconfinamento russo, con i droni, i missili in Polonia, con l’invenzione dell’attacco all’aereo di von der Leyen e altre sciocchezze prive di fondamento.

Tutto per orientare l’opinione pubblica a favore della guerra. E la cosa triste è che tanti sono convinti ancora che siano fatti veri e non fake news, come dimostrato dai fatti.

Perciò, in un mondo giusto e onesto, il minimo sindacale sarebbe le dimissioni in blocco degli attuali leader europei e dei direttori dei quotidiani per manifesta incompetenza.

Ora, a Zelensky non resta che scegliere quale tipo di sconfitta amministrare.

Questo piano non è la fine della storia, ma è solo la fine del racconto che ci siamo narrati per anni.

Perché che la Russia avrebbe vinto noi, e pochi altri, lo scrivevamo già nel 2022, quando i grandi quotidiani parlavano di sanzioni dagli effetti dirompenti, di pale, microchip e muli, dandoci dei putiniani e dei complottisti.

La verità è che erano solo degli sciocchi incompetenti o delle voci al soldo dei potenti. Quale delle due ipotesi vi sembra più corretta?

Il mondo multipolare è qui, ed è un luogo molto più freddo e pragmatico.

E ci dice che se gli accordi si fossero firmati nel 2022, migliaia di famiglie ucraine non avrebbero sedie vuote intorno al tavolo. Milioni di ucraini non sarebbero fuggiti all’estero. Kiev non sarebbe indebitata in maniera insostenibile.

E per cosa? Per giungere tre anni dopo a essere costretti a firmare trattati ancora più stringenti, ma, peggio, con la consapevolezza di una NATO molto meno forte di quanto tutti immaginavano tre anni fa.

La pace di Trump, se mai si realizzerà, non porterà giustizia. Porterà silenzio. E in quel silenzio, l’Europa dovrà finalmente fare i conti con i fantasmi della propria impotenza.

Se la pace non si realizzerà, ci saranno altre settimane, forse mesi, di morti e di territori ucraini conquistati dai russi, fino a quando non si arriverà comunque a una resa.

Zelensky può solo scegliere quale livello di fallimento accettare. L’Europa può solo osservare la sua misera irrilevanza.

Noi possiamo renderci conto di quante boiate ci hanno raccontato i “giornalisti accreditati”. Per scegliere da chi informarci in futuro. Da chi ha scelto di raccontarvi balle o da chi vi ha raccontato ciò che il tempo e i fatti hanno certificato?

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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