La storia non viene scritta dagli eroi. Quelli fanno sempre una brutta fine.
La storia viene scritta dai contabili, dai cinici e, più spesso di quanto si ammetta, dai disillusi.
Mentre il fango delle trincee ucraine continua a inghiottire giovani ucraini e russi in un’atroce contabilità quotidiana, la vera pace, quella sporca e pragmatica che i leader europei non vogliono, sta prendendo forma a Washington, dettata da un’equazione spietata che ha più a che fare con i sondaggi elettorali in Ohio che con la sovranità dell’Ucraina.
Si mormora di un piano in 28 punti. Un documento fantasma, un accordo segreto negoziato lontano dagli occhi indiscreti di Macron, Merz, von der Leyen, sempre più irrilevanti.
Gli Stati Uniti e la Russia stanno definendo i termini della resa ucraina, e a Zelenskyy, come all’Unione Europea, verrà presentato il conto a cose fatte.
Perché la guerra è tra USA e Russia e l’Ucraina presta “solo” il campo di gioco e gli uomini da mandare al macero.
Ma perché adesso? Perché questo scatto verso la diplomazia del disimpegno?
LA GEOMETRIA VARIABILE DEGLI INTERESSI
La guerra, per l’Occidente, è stata un investimento. Un massiccio investimento finanziario, militare e, soprattutto, narrativo.
Abbiamo investito nella favola di Davide contro Golia, del baluardo della democrazia contro la tirannia. Ma ogni investimento richiede un ritorno, o quantomeno una sua giustificazione. E qui, il castello di carte crolla.
Notizie, sempre più insistenti, di corruzione sistemica a Kiev – i famigerati “cessi d’oro”, metafora grottesca di un sistema che marcisce dall’interno – hanno compiuto ciò che l’artiglieria russa non è riuscita a fare: hanno eroso la credibilità dell’investimento.
L’elettore medio americano, che paga le tasse e vede il costo della vita aumentare, inizia a percepire la guerra come un pozzo senza fondo in cui i suoi dollari scompaiono per arricchire un’élite straniera.
Una narrazione potente, quella della resistenza eroica, è stata soppiantata da una verità ancora più viscerale, quella dello spreco e del tradimento.
L’amministrazione americana, con un occhio alle prossime elezioni presidenziali, sa che non può permettersi questa emorragia di credibilità. Non si tratta più di fermare Putin, ma di non perdere il Michigan.
Senza dimenticare il caso Epstein, che vede Trump in grande difficoltà.
E così, l’exit strategy, un tempo un’eresia, diventa una necessità politica.
L’URLO DEL CONDANNATO: IL MISSILE COME MESSAGGIO
Come reagisce un attore politico quando scopre di essere stato escluso dal tavolo dove si decide il suo destino? Fa rumore. Fa più rumore possibile.
L’uso recente e spettacolare dei missili ATACMS da parte dell’Ucraina non è un evento militare, ma un disperato atto di comunicazione politica. È un messaggio urlato ai suoi stessi padrini a Washington: “Non potete fare un accordo senza di me. Guardate cosa posso fare ancora con le vostre armi. Posso ancora far precipitare gli eventi.”
Un gesto che arriva immediatamente dopo l’attentato ferroviario in Polonia, altro fatto che vede coinvolti due ucraini, sbrigativamente indicati come al servizio di Putin.
Sono gesti estremi di chi sa che l’unica sua leva rimasta è la capacità di sabotare una pace che lo annienterebbe per sempre a livello politico. E, forse, non soltanto politico.
Colpendo in profondità il territorio russo con tecnologia americana, Zelenskyy non cerca una vittoria sul campo, ormai un miraggio per chi ha solo spazio tra le orecchie, ma cerca di rendere politicamente impossibile una de-escalation negoziata da altri.
Vuole alzare la posta, costringere la NATO a entrare in guerra contro la Russia, legare le mani di chi, a Washington, vorrebbe semplicemente chiudere la partita.
È il ricatto del condannato, la cui unica speranza di sopravvivenza è trascinare tutti con sé nell’abisso.
È la dimostrazione del fatto che se Zelensky fosse stato Putin, l’atomica l’avrebbe già usata mesi fa. Altro che eroe!
BRUXELLES, IL GIGANTE DORMIENTE SENZA SVEGLIA
E l’Europa che fa?
L’Europa osserva, protesta, si indigna, perché i suoi piani di un grande riarmo perderebbero la scusa da dare in pasto agli europei.
La premier estone Kaja Kallas tuona che “l’accordo deve coinvolgere l’UE e Kiev”. Cioè quelle che l’accordo non lo vogliono. Parole nobili. Parole vuote. Parole che valgono meno di zero. Parole di chi non ha alcuna intenzione di salvare vite ucraine.
Siamo di fronte al più grande teatro dell’assurdo della politica internazionale contemporanea.
L’Unione Europea, che ha svuotato i propri arsenali, che non ha una capacità produttiva militare autonoma sufficiente, che dipende energeticamente e militarmente da attori esterni, che ha messo in ginocchio le sue imprese e tanti cittadini europei, che non parla di pace, ma di guerra alla Russia nel 2028, forse 2029, al più tardi nel 2030, pretende di dettare le condizioni.
È la quintessenza dell’incompetenza politica.
Lo sconfitto, perché sul piano strategico, commerciale, militare e industriale, l’Europa è la vera sconfitta di questo conflitto, si presenta al tavolo del vincitore, quella Russia che avanza lentamente, ma inesorabilmente, e del finanziatore stanco, gli USA, pretendendo di avere voce in capitolo.
Un po’ come quando i leader europei andarono a lezione da Trump. Ricordate Trump dietro la scrivania e i leader europei davanti a lui, su sedie anonime, come ad ascoltare un dibattito?
È la dimostrazione lampante di una leadership che ha perso ogni contatto con la realtà, credendo che la forza delle dichiarazioni possa sostituire la forza degli eserciti e delle economie.
LA LOGICA SPIETATA DEL CREMLINO
Dall’altra parte, il Cremlino osserva con una calma glaciale e ride dell’incompetenza degli europei.
La portavoce Maria Zakharova nega, ovviamente. La diplomazia ufficiale è una facciata. La vera partita si gioca altrove. Come si è sempre fatto e come chiunque abbia un briciolo di studi di diplomazia sa.
La Russia non ha fretta.
Sa che il tempo, le risorse umane e la capacità industriale sono dalla sua parte. Il piano dei 28 punti, per Mosca, non è una concessione, ma un’offerta al nemico sconfitto: “Potete darci ciò che ci stiamo già prendendo sul campo, risparmiando entrambi tempo e vite umane, oppure possiamo continuare a prendercelo con la forza, senza che voi possiate fare nulla se non continuare a strozzare le vostre economie come fatto finora.”
Non è una richiesta, ma la constatazione di un rapporto di forza.
Mosca non scenderà a compromessi sui suoi obiettivi strategici minimi, la Crimea, il Donbas, la neutralità dell’Ucraina, perché sa di non averne bisogno, al di là delle tante balle raccontate dalla propaganda occidentale di questi anni (1000 russi uccisi ogni giorno, armati solo di pale ottocentesche, a dorso di muli perché senza mezzi corazzati, senza divise e senza calzini, umiliati dalle nostre sanzioni dirompenti e in fuga per l’ennesima controffensiva ucraina).
L’unica variabile è il costo per raggiungere gli obiettivi fissati nel 2022.
L’accordo segreto, dunque, è semplicemente un tentativo americano di abbassare quel costo per tutti, prima che diventi politicamente insostenibile per l’Amministrazione Trump.
Perché Putin non ha elezioni alle porte da non perdere. Lui, invece, sì.
Il sipario sta calando sulle illusioni.
La grande narrazione della vittoria ucraina e dell’unità occidentale si sta sgretolando sotto il peso della corruzione, della stanchezza e del calcolo politico più cinico.
L’epilogo di questa guerra non sarà la ridefinizione dei confini sulla mappa, ma la consapevolezza che le vite di centinaia di migliaia di ucraini sono state sacrificate sull’altare di una favola a cui i leader europei hanno scelto di credere per fare dell’Europa una superpotenza militare, mentre l’hanno resa politicamente insignificante, commercialmente dipendente da altri e industrialmente al tappeto.


Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.





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