Mentre le sanzioni contro Mosca si rivelano un’arma autolesionista, che danneggia soprattutto il Vecchio Continente, una serie di misteriosi “incidenti” colpisce le sue stesse infrastrutture energetiche.
Un’inchiesta su una guerra economica combattuta su due fronti: uno dichiarato e uno nascosto.
TRE ESPLOSIONI NEL CUORE D’EUROPA
Un odore acre di petrolio bruciato si sta diffondendo sull’Europa orientale.
Non proviene dal fronte ucraino, ma dal nostro continente.
In una manciata di ore, tre fiammate quasi simultanee hanno squarciato la notte in Ungheria, Slovacchia e Romania. Tre raffinerie. Tre incidenti. Tre pilastri della nostra sicurezza energetica che vacillano.
La propaganda occidentale parla di coincidenze, di sfortunate fatalità industriali.
Ma quando le coincidenze si allineano con la precisione di un’operazione militare, un giornalista serio ha il dovere di porre domande, anche scomode.
Per esempio, si tratta di semplici incidenti o di altro?
Il filo rosso che unisce queste tre colonne di fumo è inequivocabile: tutte e tre le strutture processano greggio russo, arterie vitali che, nonostante la retorica bellica, continuano a pompare il sangue che tiene in vita la nostra economia. Anche l’Italia.
E sembra proprio che qualcuno abbia deciso che queste arterie vadano recise. Ma chi tiene in mano il bisturi?
IL TEATRO DELLE SANZIONI ALLA RUSSIA
Proprio mentre le sirene ululavano in Romania, a Washington e a Bruxelles andava in scena l’ennesimo annuncio di vittoria.
Gli Stati Uniti hanno varato nuove sanzioni contro i colossi petroliferi russi Rosneft e Lukoil.
L’Unione Europea ha approvato il suo diciannovesimo pacchetto di misure restrittive. I titoli dei giornali, con la consueta fanfara, hanno parlato di un colpo mortale all’orso russo, di un Putin ormai alle corde, di una vittoria quasi certa.
Una litania che doveva essere l’ultima tre anni e mezzo fa, invece siamo alla diciannovesima.
E, anche stavolta, i numeri, aridi e spietati, raccontano un’altra storia. Una storia di autolesionismo.
Le conseguenze di queste sanzioni non si sono fatte attendere, infatti.
Secondo Reuters, non certo al soldo di Putin, il prezzo globale del petrolio greggio ha registrato un’impennata “vertiginosa” del 5% in un solo giorno.
Perché se si limita l’offerta di un bene essenziale sul mercato globale, il suo prezzo sale. Per tutti. Soprattutto per chi, come l’Europa, ne è un acquirente disperato, non un venditore.
Gli Stati Uniti, esportatori netti di energia, osservano e traggono profitto. Noi, europei ed italiani, paghiamo il conto.
È la stessa miope logica che vediamo applicata ai nostri bilanci nazionali. In Italia, il governo si vanta di aver aumentato i fondi per la sanità, omettendo che l’incremento è nettamente inferiore al tasso di inflazione.
In termini reali, ciò significa che i nostri ospedali hanno meno soldi per acquistare medicine e pagare i medici, non di più.
Si propaganda un taglio come fosse un investimento. Allo stesso modo, festeggiamo le sanzioni che ci strangolano, illudendoci di strangolare il nemico.
La Russia, nel frattempo, aveva previsto tutto.
Come confermato da ex consulenti della sua Banca Centrale, da mesi Mosca ha riorientato i suoi flussi commerciali, stipulando accordi in Yuan e Rubli con partner come Cina e India.
Le sanzioni sul dollaro, che sarebbero state devastanti un anno fa, oggi arrivano tardi. Troppo tardi per Mosca. Ma in perfetto orario per far male all’Europa. Per far del male solo a noi.
L’IDEOLOGIA DEL SABOTAGGIO: QUANDO L’ALLEATO DIVENTA UNA MINACCIA
Coincidenze, si diceva.
Ma il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, primo atto di questa tragedia, ci ha insegnato a essere scettici.
Oggi sappiamo che gli attentatori erano ucraini. Non sappiamo se gli USA abbiano avuto un ruolo, ma certamente non è stata la Russia a provocare il peggior attentato a infrastrutture europee dal 1945, ma quelli che consideriamo nostri alleati.
E, anche questa volta, tra le tre capitali, solo due hanno vantaggi dalle esplosioni alle raffinerie, e di certo non Mosca.
Le dichiarazioni dei leader polacchi, come l’ex Ministro degli Esteri Sikorski, che ringraziò apertamente gli USA per la distruzione del Nord Stream, o quelle del Primo Ministro Tusk, secondo cui “sabotare un invasore non è un crimine”, non possono essere archiviate come semplici boutade.
Rappresentano, invece, la verbalizzazione di una nuova, spaventosa dottrina: la santificazione del terrorismo infrastrutturale, persino contro un alleato come la Germania, se serve a perseguire un obiettivo geopolitico superiore.
Se questa è la logica, allora le raffinerie in Ungheria e Slovacchia, paesi che hanno mostrato scetticismo verso la linea dura contro Mosca, diventano bersagli legittimi.
E gli “incidenti” smettono di sembrare tali. Diventano avvertimenti. Messaggi inviati non solo a Mosca, ma anche ai partner europei “titubanti”. Un promemoria brutale su chi comanda davvero l’alleanza.
LA DOPPIA PARTITA: GUERRA SUL CAMPO, DIPLOMAZIA NEI SALOTTI
Eppure, mentre l’aria in Europa si fa irrespirabile, da Washington giunge una melodia diversa, quasi surreale.
L’inviato speciale di Putin, Kirill Dmitriev, dopo un incontro con l’amministrazione americana, dichiara alla CNN che una “soluzione diplomatica è vicina”.
Come può essere? Come possono coesistere l’escalation delle sanzioni, i sabotaggi e i venti di pace?
Questa dissonanza cognitiva riflette la doppia realtà del conflitto. Sul campo, l’Ucraina è in affanno.
Lo stesso Zelenskyy, abbandonata la retorica della “vittoria totale”, parla ora di “congelare la linea del fronte”, un eufemismo per una tregua disperatamente necessaria. La guerra di logoramento sta erodendo le sue forze e lo stanno costringendo sempre di più all’angolo.
Ma sul piano della guerra economica, la partita è diversa.
L’obiettivo non è più solo la vittoria militare di Kiev, ma un indebolimento strategico e permanente di due potenze: la Russia come rivale globale e l’Europa come concorrente economico.
In questo gioco, le sanzioni e i sabotaggi non sono strumenti per finire la guerra, ma per prolungarla, per rendere il danno all’economia europea strutturale e irreversibile.
L’EUROPA COME CAMPO DI BATTAGLIA ECONOMICO
La scacchiera è chiara a chiunque non sia miope.
L’Europa si trova stretta in una morsa: da un lato, subisce le conseguenze delle proprie sanzioni, un boomerang economico che colpisce i suoi cittadini e le sue industrie; dall’altro, vede le sue stesse infrastrutture vitali diventare bersagli in una guerra ibrida condotta da attori che, sulla carta, dovrebbero essere suoi alleati.
In pratica, i veri nemici li abbiamo in squadra e i festeggiamenti per ogni nuova sanzione assomigliano sempre più a un ballo macabro sul ponte del Titanic.
Ogni misura che dovrebbe indebolire la Russia finisce per aumentare il costo della vita a Roma, Berlino e Parigi, rendendo le nostre imprese meno competitive e le nostre famiglie più povere, come dimostrano i fatti di questi ultimi quaranta mesi.
Stiamo finanziando la nostra stessa de-industrializzazione, applaudendo mentre lo facciamo, guidati da leader incompetenti e illusi da giornalisti che hanno smesso di fare il proprio lavoro per trasformarsi in megafoni del potere.
Abbiamo alleati che stanno sabotando l’Europa. Alleati che sono dentro e fuori dall’Europa.
Perché continuiamo a chiamarli alleati?
E perché leader e giornalisti fanno fina di nulla?

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.




