LA TRAGEDIA DI UNA GUERRA ANNUNCIATA. UN DISASTRO TRA UCRAINA, RUSSIA E NATO
La guerra è un fallimento.
Un fallimento della diplomazia, dell’empatia, della ragione. Ma soprattutto, la guerra è un fallimento della memoria.
Basta leggere qualche commento sui social per accorgersi di come vi siano tanti ancora convinti che un bel giorno di febbraio, nel 2022, Putin, in quanto malvagio, non sapendo che fare decise di invadere l’Ucraina.
Gente che, al più, di storia ha letto qualche dispaccio della propaganda occidentale, quella che raccontava di sanzioni dirompenti, di pale e altre supercazzole.
Ma la storia è fatta di eventi, di fatti.
E il fango delle trincee di Bakhmut, le sirene su Kiev, le vite spezzate nel Donbass non sono nate dal nulla in una gelida alba del febbraio 2022. Sono l’atto finale, sanguinoso e atroce, di una tragedia scritta a più mani nel corso di trent’anni, un copione che abbiamo colpevolmente ignorato, preferendo la rassicurante, ma fallace “teoria della pazzia” alla complessa e scomoda verità storica.
La narrativa dominante in Occidente ha dipinto l’invasione russa come l’imprevedibile capriccio di un autocrate isolato, un delirio imperialista senza causa né contesto. È una spiegazione semplice, quasi confortante. Ma è falsa e non ha più valore di un commento al bar.
La realtà, come emerge da un’analisi spietata dei fatti, è una catena causale di umiliazioni, promesse non mantenute, ingerenze e paure che hanno trasformato una pace possibile in un conflitto inevitabile.
No, non è una giustificazione. Comprendere non è giustificare, ma è il prerequisito per non ripetere gli stessi errori. Ed è un dovere morale verso il popolo ucraino, sacrificato sull’altare di uno scontro tra titani che si combatte sulla sua terra.
LA PRIMA UMILIAZIONE E IL PECCATO ORIGINALE DELLA NATO
Per capire il 2022, dobbiamo tornare al 1999.
In quegli anni, la Russia era in ginocchio. Il “periodo nero” della presidenza Yeltsin aveva lasciato il paese umiliato da tre tracolli devastanti: politico, con il parlamento bombardato nel 1993; militare, con la disfatta nella prima guerra cecena; ed economico, con il default del 1998.
Era una nazione debole, dipendente, disperatamente in cerca di un posto nel nuovo ordine mondiale.
Fu in quel momento di massima vulnerabilità che la NATO, anziché costruire un’architettura di sicurezza inclusiva, scelse di trasformarsi.
Il bombardamento della Serbia, alleata storica di Mosca, senza un mandato ONU, fu il peccato originale.
Ma allora, era lecito non rispettare il Diritto internazionale, perché a non rispettarlo eravamo noi, i buoni.
Quel bombardamento trasformò un’alleanza nominalmente difensiva in uno strumento offensivo, cementando nella psiche russa il sospetto che l’Occidente non fosse un partner, ma un predatore.
La Russia, troppo debole per intervenire, ingoiò l’amaro calice di quella che percepì come la sua prima, grande umiliazione post-sovietica.
L’UCRAINA SULLA SCACCHIERA E IL GOLPE DI MAIDAN
Avanziamo al 2013. L’Ucraina, storicamente un ponte tra due mondi, era un paese costituzionalmente neutrale.
La sua popolazione, divisa tra una componente filo-occidentale e una russofona, aveva eletto un presidente, Viktor Yanukovich, che incarnava proprio questa ambiguità neutralista. Ma la neutralità non era contemplata sulla scacchiera delle grandi potenze.
Due offerte si contesero l’anima di Kiev. Da un lato, un accordo con l’UE, condizionato però da misure di austerità draconiane imposte dal FMI. Dall’altro, un’offerta economicamente più vantaggiosa da parte di Putin. Yanukovich scelse Mosca. La reazione fu Piazza Maidan.
Le proteste, inizialmente genuine, divennero presto il teatro di una delle più sfacciate operazioni di ingegneria geopolitica del XXI secolo. Victoria Nuland, inviata dell’amministrazione Obama-Biden, distribuiva biscotti in piazza mentre ammetteva un “investimento” americano di 5 miliardi di dollari per “aiutare l’Ucraina a raggiungere il futuro che merita”.
In una telefonata intercettata, la stessa Nuland pianificava il futuro governo ucraino con l’ambasciatore USA, liquidando il parere degli alleati europei con un ormai celebre “Fuck the EU”.
Il finale fu un colpo di stato.
Cecchini misteriosi spararono sulla folla e sulla polizia, il caos divampò e il presidente legittimamente eletto fuggì per salvarsi la vita. Al suo posto, si insediò un governo filo-occidentale, con dentro quattro ministri neofascisti, il cui primo ministro era proprio l’uomo scelto da Washington. La neutralità ucraina era morta.
Uno studio condotto dal prof. Ivan Katchanovski, ucraino che vive in Canada ed è docente alla School of Political Studies e al programma di Conflict Studies and Human Rights dell’Università di Ottawa, – non certo uomo di Putin, insomma – ha rilevato cose incredibili su quei cecchini e sui fatti accaduti in quella piazza.
I cecchini responsabili delle uccisioni durante il massacro di Maidan non erano agenti governativi, ma membri pro-Maidan che sparavano da edifici occupati dai manifestanti.
Ha raccolto numerose testimonianze e ammissioni, inclusi 14 membri dei gruppi di cecchini, che collegano leader specifici al colpo di Stato.
Ha dimostrato che le indagini e i processi, tuttavia, sono stati ostacolati dal governo di estrema destra, senza arresti o condanne. Proprio il ruolo dell’estrema destra è stato significativo e violento durante gli eventi di Maidan e nelle conseguenze successive, come il massacro di Odessa.
Le narrazioni ufficiali occidentali, pertanto, sono spesso contrarie alle prove emerse. Sono mera propaganda.
LA GUERRA DIMENTICATA E LA TRAPPOLA DI MINSK
Il golpe del 2014 non portò la pace.
Al contrario, accese la miccia della guerra civile.
L’est e il sud del paese, a maggioranza russofona, non riconobbero il nuovo governo. La Crimea votò per l’annessione alla Russia.
Nel Donbass scoppiò una guerra che l’Occidente ha scelto di dimenticare per otto lunghi anni. Una guerra che, secondo le stime ONU, ha causato 14.000 morti, tra cui migliaia di civili, e centinaia di migliaia di profughi, ben prima dell’invasione del 2022.
Non a caso, lo stesso presidente Sergio Mattarella chiese a Putin di intervenire con tutta la sua influenza per porre fine alla guerra in Ucraina, nelle regioni del Donbass.
Non era febbraio 2022, ma l’11 aprile 2017.
Eppure, tanti italiani non sanno o non ricordano. E l’ignoranza, purtroppo, fa credere a una realtà distorta.
In questo contesto storico nacquero gli Accordi di Minsk, mediati da Germania e Francia. Essi prevedevano un cessate il fuoco e, punto cruciale, uno status di autonomia speciale per il Donbass all’interno di uno stato ucraino federale. Era la via d’uscita diplomatica. Una via mai percorsa.
Come sappiamo, anni dopo, la cancelliera Merkel e il presidente Hollande hanno confessato che gli Accordi di Minsk erano una trappola. Un espediente per “dare tempo all’Ucraina”, per permetterle di armarsi e addestrarsi con il supporto della NATO in vista della guerra che tutti sapevano sarebbe arrivata.
La diplomazia era stata una farsa, un inganno per preparare il campo di battaglia.
La stessa cosa è avvenuta con il sabotaggio degli accordi in Turchia nel 2022, quando Boris Jonson convinse Zelensky a non trattare e a scegliere la guerra.
Proprio in quel periodo, l’ex premier britannico riceveva un bonifico di 1 milione di sterline da un magnate delle armi, come documentato nell’articolo che trovi in fondo a questo.
TRA LA COREA E LA FINLANDIA, IL PREZZO DELLA STORIA
Oggi, mentre cerchiamo una via d’uscita, si parla di “soluzione coreana” e “soluzione finlandese”. La prima è la fotografia di un fallimento: un conflitto congelato lungo una linea del fronte, una ferita perennemente aperta, una pace armata che dura da 70 anni senza un trattato. È la non-soluzione, la procrastinazione della tragedia.
La seconda, la “finlandizzazione”, era la soluzione sul tavolo prima che tutto iniziasse. Dopo la Guerra d’Inverno del 1939-40, l’Unione Sovietica, pur avendo vinto, si accontentò di una porzione di territorio e impose alla Finlandia una sola, fondamentale condizione: la neutralità.
Per quasi 80 anni, la Finlandia neutrale ha prosperato in pace e sicurezza, fino alla sua recente, e forse avventata, adesione alla NATO.
La neutralità era ciò che la Russia chiedeva per l’Ucraina. Era ciò che la storia e la geografia suggerivano. Era la via per evitare la catastrofe.
Ma la logica delle sfere d’influenza, la paranoia di una Russia che si sente accerchiata, gli interessi per le materie prime ucraine da parte di diverse aziende occidentali, soprattutto inglesi e francesi, e l’arroganza di un Occidente che ha scambiato la fine della Guerra Fredda per una vittoria incondizionata, hanno prevalso.
La storia non offre giustificazioni, ma lezioni che vanno capite. Ci insegna che le grandi potenze, che siano gli Stati Uniti nel loro “cortile di casa” o la Russia ai suoi confini, sono pronte a fare la guerra quando percepiscono una minaccia alla loro sicurezza.
Ignorare questa profonda e paranoica pulsione della politica russa, rafforzata da decenni di storia, è stato un errore strategico di proporzioni epocali dei nostri attuali leader e anche di tanti presunti guru di geopolitica che narravano di Mosca al tappeto, pale e microchip rubati dalle lavastoviglie.
Tuttavia, a causa di tanti analfabeti funzionali, – e per colpa degli interessi di qualcuno, – l’Ucraina ne sta pagando il prezzo più alto. Un prezzo fatto di sangue, rovine e un futuro incerto, intrappolato tra l’incudine di un passato imperiale e il martello di un’alleanza in espansione.
La pace, quando arriverà, non potrà ignorare le cause profonde di questa tragedia. Altrimenti, sarà solo un altro armistizio in attesa della prossima guerra.
Con la speranza che quelli che ancora parlano di “pace giusta” possano trovare tempo per aprire un libro di storia. Scoprirebbero che “pace giusta” è un concetto mai verificatosi.
Potrebbero, per esempio, studiare cosa pretese Kennedy nel 1962 dallo Stato sovrano di Cuba. O quale pace giusta imposero gli americani al Giappone, dopo due atomiche.
Insomma, scoprirebbero che a continuare a vivere nell’ignoranza storica continuano a spingere gli ucraini al macero credendo in una realtà che non esiste.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.



