Le indiscrezioni hanno scosso le capitali. I recenti report del Financial Times e del Washington Post non hanno soltanto divulgato colloqui riservati, ma hanno smontato l’idea di un’unità occidentale, esponendo un drammatico scisma transatlantico proprio sull’asse cruciale della guerra in Ucraina.
Non si tratta di beghe da corridoio, ma di una frattura profonda che oppone il crudo realismo di una fazione statunitense al cocciuto idealismo bellico di Kiev e dei suoi alleati europei. Gli stessi che poi davano dei cocciuti a quelli di Hamas di fronte allo strapotere israeliano.
La posta in gioco è la continuazione del conflitto, e il nodo, come sempre, è il Donbas.
LO SCISMA TRANSATLANTICO
Pur ufficialmente smentita, la notizia di un presunto litigio tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky è comunque credibile.
La narrazione di un incontro in cui Trump avrebbe esortato Zelensky a “cedere il Donbas” è brutale, ma riflette la fredda logica di chi vede il prolungamento del conflitto come una perdita netta, politica, militare e finanziaria.
Il Financial Times riporta che Trump avrebbe usato toni accesi, quasi un ultimatum: “Devi cedere il Donbas a Putin, o ti distruggerà.”
Questa non è retorica da showman, ma la chiara espressione di una posizione che privilegia la de-escalation immediata al trionfo territoriale, un approccio che guarda al bilancio americano più che alla bandiera ucraina.
L’obiettivo dichiarato di Trump è congelare il conflitto lungo l’attuale linea del fronte, dove la Russia detiene circa il 78% dei territori rivendicati.
Zelensky, dal canto suo, avrebbe portato mappe e fatto richieste di maggiore supporto, scontrandosi contro un muro che ha negato i Tomahawk e proposto una ritirata strategica.
Trump, mosso dalle sue priorità economiche e dalla necessità di compiacere un elettorato stanco delle guerre per procura, sta di fatto riallacciando il dialogo con Mosca.
Il suo atteggiamento è palesemente disinteressato all’Ucraina e ossessionato dai costi finanziari e politici che impone questa guerra.
La posizione di Trump, pur cinica, è dettata dal fatto che la pazienza americana è ai minimi storici e che il flusso di risorse non può essere infinito, specialmente quando la vittoria è soltanto un miraggio ideologico e si rischiano magre figure militari, come con i patriot e gli F16.
LA DURA MATEMATICA DEL FRONTE UCRAINO
La realtà sul campo è amara e non corrisponde agli squilli di tromba delle cancellerie occidentali.
La narrazione secondo cui Mosca è sull’orlo del collasso è una fantasia della propaganda occidentale che, dopo tre anni e mezzo di sciocchezze smontate dai fatti, ha perso ogni credibilità.
Certamente, l’economia russa non è nel suo periodo migliore, stretta tra embarghi e sanzioni, ma l’idea che Mosca sia in procinto di capitolare resta un’assurdità che si narra dal lontano 2022.
I dati oggettivi, ignorati dai politici che temono di scontentare i propri elettori a cui hanno detto di tifare per Kiev al motto di “condizionatori o pace”, mostrano avanzamenti russi, seppur lenti, e perdite ucraine sempre più insostenibili da parte del popolo ucraino.
L’Ucraina, sebbene combattiva, è militarmente in svantaggio e subisce un tasso di distruzione infrastrutturale insostenibile nel lungo periodo. Per di più, nonostante la legge marziale e il divieto di elezioni imposti da Zelensky, la popolazione manifesta sempre di più contro il regime al potere.
La proposta russa, riportata anche dal Washington Post, di cedere il controllo del Donetsk in cambio di concessioni su Zaporizhzhia e Kherson, pur essendo respinta da Kiev, illustra perfettamente questa asimmetria di potere.
Putin negozia dalla posizione di chi ha l’iniziativa, di chi sta vincendo la guerra e ha la certezza matematica di non poterla perdere, perciò può permettersi di chiedere un prezzo per fermare il massacro. Più la guerra andrà avanti, più quel prezzo sarà elevato.
L’attuale linea di condotta europea non è solo ideologicamente cieca, ma anche economicamente insensata, poiché il continuo afflusso di miliardi verso Kiev, mascherato da supporto democratico e patriottico, è un volano per le fabbriche di armi occidentali che crea un incentivo perverso a prolungare il conflitto, spostando sul contribuente europeo (e sulle future generazioni) il costo di un riarmo da 6.800 miliardi di euro entro il 2035.
L’IMMOBILISMO EUROPEO E IL SIMBOLO DI BUDAPEST
I leader europei, come il premier polacco Tusk, rispondono a questa logica di stallo con l’unica ricetta che conoscono: “nessuna concessione, la guerra deve continuare.”
Fidandosi della loro miopia, temono che qualsiasi cedimento aprirebbe la strada a ulteriori aggressioni russe, perciò chiedono che continui l’uso della forza, anche se provoca solo inutili morti e peggiora le condizioni dell’Ucraina e degli ucraini.
Ma se l’aggressore, che detiene l’iniziativa militare, ottiene col fuoco ciò che gli si nega al tavolo diplomatico, negare il dialogo non è eroismo, bensì autolesionismo fantozziano. Si prolunga il massacro sotto il mantello di una presunta “vittoria finale” che è matematicamente impossibile.
La posizione del governo polacco è particolarmente delicata, data la sua vicinanza geografica, ma è strategicamente discutibile l’idea che l’Ucraina debba essere sostenuta “finanziariamente, politicamente e militarmente” fino alla vittoria senza mai considerare una via d’uscita negoziale.
È una strategia da nani politici.
A riprova del cambiamento di clima, tuttavia, la sede scelta per il potenziale incontro tra Trump e Putin è Budapest, casa del “ribelle” Viktor Orbán.
Una mossa nient’affatto casuale, ma uno schiaffo diplomatico a Zelensky e all’establishment europeo, un messaggio diretto di Trump che il centro di gravità della mediazione si sposta verso chi predilige il realismo politico alla follia bellica.
LA NECESSITÀ DELLA LOGICA E IL COSTO DELL’IDEOLOGIA
Il dibattito pubblico è polarizzato tra chi tifa per la “vittoria ucraina”, evidentemente privo di competenze per sfuggire agli stupefacenti della propaganda bellicista, e chi è accusato di “filo-putinismo” per aver semplicemente analizzato i fatti e previsto giorno dopo giorno, dal 2022, ciò che si sta verificando da tre anni e mezzi.
Con buona pace di “Putin ha tre anni di vita”, “le nostre sanzioni hanno avuto effetti dirompenti”, “Mosca potrebbe capitolare prima dell’inverno”, “i russi non hanno più armi e munizioni e sono armati solo di pale”, e altre sciocchezze narrate nel 2022 e spacciate per informazione da chi è ormai solo megafono del potere.
Questa ideologizzazione infantile della crisi ucraina è figlia di vertici europei privi di leader all’altezza della situazione. Non è questione di essere egoisti o patrioti, ma di logica razionale: se sei la parte che sta perdendo e non puoi difendere il tuo territorio indefinitamente, continuare a rifiutare ogni forma di dialogo, pur con compromessi dolorosi, è la strada più rapida verso la distruzione totale e un finale per cui le concessioni di oggi sarebbero sarebbero poca cosa rispetto alla capitolazione totale di domani.
La Russia si fermerà se e quando le verranno concesse sufficienti garanzie per disincentivare un’ulteriore avanzata, perciò, non trattare e andare avanti, per l’Ucraina è un suicidio e Zelensky ha già e avrà ancora di più sulla coscienza il suo intero popolo.
La pace, qualunque essa sia, non serve a “far arretrare la Russia”, ma a fermare il massacro di giovani ucraini.
La storia è disseminata di paci ingiuste che hanno evitato guerre catastrofiche, perciò la scelta di Kiev di non cedere nulla, pur sapendo che ogni giorno di guerra aumenta il numero di vittime e riduce le possibilità di un futuro stabile per la stessa esistenza dell’Ucraina, è il fallimento totale di una politica ideologica che sacrifica l’interesse nazionale a lungo termine per la vanagloria di un leader che sa che, una volta conclusa la guerra, finirà nel dimenticatoio, nella migliore delle ipotesi.
A Budapest, se l’incontro avrà luogo, non si tratterà di trovare una pace giusta nel senso ideale del termine, che non è mai stata attuata nella storia, ma si tratterà di trovare una pace possibile che cominci a salvare ucraini rapiti per strada dal regime e inviati a morire al fronte.
E, per quanto doloroso possa sembrare a chi crede ancora alle sciocchezze della propaganda, la logica impone di considerare anche quelle concessioni che oggi il cieco idealismo rifiuta di accettare.
Perché il prezzo del mancato realismo si sta pagando in vite umane. E quel costo, purtroppo, è irreversibile.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.



