Il Vecchio Continente non ha più l’immagine della culla del diritto e del libero pensiero, ma quella di un’entità politica smarrita.
La Commissione von der Leyen ha deciso di puntare tutto sul collasso della Federazione Russa, una mossa che non tiene conto della situazione geopolitica mondiale né della situazione economica e strutturale della Russia.
Industria di guerra, materie prime infinite, banca centrale e moneta propria sono condizioni per cui, prima di fallire, ne devono passare di capodanni. Nel mentre, diversi paesi europei sono alla frutta e i loro cittadini e le imprese sono strozzati dal caro vita e dal costo dell’energia alle stelle.
Non si tratta più soltanto di una contrapposizione militare con Mosca, ma di un progressivo scollamento dagli stessi interessi strategici degli Stati Uniti, in un gioco di specchi dove l’Europa rischia di rimanere l’unica a pagare il conto di una visione geopolitica cristallizzata.
La strategia ricalca errori già commessi, reiterati con una irrazionalità tragicomica, quasi che l’ammissione di un fallimento potesse far crollare l’intera architettura burocratica di Bruxelles.
LA FABBRICA DEL CONSENSO
L’apparato mediatico occidentale ha smesso di essere il cane da guardia della democrazia per trasformarsi in un megafono acritico di narrazioni prefabbricate, come ho spiegato nel mio libro La Fabbrica della Paura.

Moltissimi giornalisti, anziché informare e fare inchieste su chi comanda, sono diventati leccapiedi del potere e loro portavoce, dispensando fake news e propaganda pur di avallare ogni scelta.
Siamo immersi in una “disinformazione di ritorno” che scivola nel grottesco.
Quando leggiamo di soldati russi ridotti al cannibalismo per fame o di droni abbattuti da canti popolari, assistiamo alla morte dell’intelligenza.
Senza dimenticare i soldati russi armati solo di pale dell’800, mandati a morire al ritmo di 1000 al giorno, cioè oltre un milione di morti dal 2022 a oggi.
Calcolando che l’intero esercito russo contava, nel 2022, 1.250.000 uomini, risulta chiaro il livello della sciocchezza veicolata come notizia attendibile.
E senza dimenticare i “microchip smontati dalle lavastoviglie per armare droni, carri armati e missili.” Anche qui, basterebbe andare a vedere quanti milioni di dollari spendono gli americani in Ricerca e Sviluppo per il settore della Difesa, per rendersi conto della castroneria spacciata per verità.
Queste non sono notizie, ma veline psicologiche destinate a un’opinione pubblica che si vuole, in primo luogo, fortemente ignorante, poi anestetizzata e incapace di distinguere il fatto dalla caricatura.
La demonizzazione dell’avversario ha raggiunto vette tali da ignorare persino la logica elementare e la demenzialità è diventata la nuova normalità.
È la parabola dei lupi russi che mangiano solo renne finlandesi: una narrazione che tratta il cittadino come un cretino, come il destinatario di una fiaba macabra invece che come il sovrano di un sistema democratico.
Eppure, questa deriva non è ridicola, ma pericolosa, perché quando il giornalismo abdica al suo ruolo di verifica, la verità diventa un accessorio inutile, persino fastidiosa per la propaganda.
IL GRIDO NEL DESERTO: LA SOLITUDINE DEL DISSENSO
In questo scenario di fervore bellicista, persino la figura del Pontefice risulta un’anomalia fastidiosa, un granello di sabbia negli ingranaggi della macchina da guerra.
Papa Leone XIV è stato vittima di un processo di marginalizzazione mediatica senza precedenti. Chi oggi osa invocare il disarmo o la via diplomatica non viene confutato con argomenti, ma espulso dal discorso pubblico attraverso l’arma del ridicolo o l’accusa infamante di collaborazionismo.
Definire “filo-russo” un Papa che cerca di fermare un massacro è il sintomo di una patologia sociale profonda. È la dimostrazione che il mainstream non accetta più zone grigie, né istanze morali che non siano funzionali all’escalation. La pace è diventata una parola sovversiva per i leader della guerra.
IL MIRAGGIO ECONOMICO E IL FALLIMENTO DELLE PROFEZIE
Osserviamo con costernazione la discrepanza tra i dati reali e le promesse di collasso imminente che ci sono state somministrate negli ultimi quattro anni.
Ci avevano assicurato che il rublo sarebbe diventato carta straccia, che l’economia di Mosca sarebbe implosa sotto il peso del primo pacchetto di sanzioni dagli effetti dirompenti, (Siamo arrivati a 19 pacchetti, da allora, e la Russia, non solo è ancora in piedi, ma adesso pare in grado di invadere l’Europa).
Che il peso del nostro pacchetto di sanzioni lo aveva assicurato, a maggio 2022, l’allora premier italiano, Mario Draghi, che aveva annunciato che “le sanzioni imposte alla Russia hanno avuto effetti dirompenti, ma il momento di massimo impatto di tutte le sanzioni fin qui approvate nei confronti della Russia sarà da questa estate in poi”.
Nel 2022, il Pil russo calò del 2,1%, meno di quanto fosse stato pronosticato. Addirittura, nel 2023 lo stesso Pil russo crebbe del 3,6% (più di quello Usa e di quello Ue).
L’anno scorso è cresciuto del 4,3% e nel 2025 tra lo 0,6 e l’1%.
Qualcuno potrebbe dire che nel 2025 il PIL russo ha subito un rallentamento fortissimo, ma il PIL dell’Italia, Paese non in guerra e non sanzionato, dovrebbe essere dello 0,5% secondo le stime Istat o dell’1,6% secondo quelle Bce.
Ci avevano assicurato che Putin avrebbe finito i missili in poche settimane e che fosse in fin di vita per ben quattro tipologie di cancro diverse.
I fatti, però, raccontano una storia diversa: una Russia che cresce più della zona euro, che diversifica i propri mercati e che mantiene una stabilità interna che i nostri leader avevano escluso categoricamente.
Federico Fubini ha più volte suonato il de profundis per una moneta russa che invece ha mostrato una capacità di resistere inaspettata.
Sbagliare una previsione è umano, e ci mancherebbe, ma trasformare l’errore in un dogma e perseguitare chi lo aveva previsto è, invece, il segnale di una deriva autoritaria. Significa vivere nel mondo dispotico di 1984 di Orwell.
IL MINISTERO DELLA VERITÀ E IL CASO JACQUES BAUD
Il punto di non ritorno è stato superato con la persecuzione amministrativa del dissenso scientifico e analitico. Dopo i casi Nunziati e Baldan, di cui abbiamo già discusso e sui quali trovate gli articolo in calce, il caso di Jacques Baud, ex colonnello dell’intelligence svizzera, è un monito agghiacciante per tutti.
Quando l’Unione Europea ha deciso di congelare i beni e limitare la libertà di movimento di un analista perché le sue tesi sono “non conformi”, siamo entrati ufficialmente nell’era dell’illiberalismo burocratico.
Una cosa che non accade a Pechino o a Mosca, ma in Europa.
E non è stato un tribunale a condannarlo, ma un ufficio politico.
Questo è il metodo Orwell applicato alla realtà: se non puoi confutare l’analisi, distruggi l’analista.
La libertà di parola in Europa non è più un diritto inalienabile, ma una concessione condizionata all’allineamento con i desiderata di Kaja Kallas e dei vertici di Bruxelles. È il principio del “colpirne uno per educarne cento”, un’eredità dei regimi totalitari che pensavamo di aver consegnato alla storia.
Di fatto, siamo entrati in una dittatura, perché quanto sta accadendo non ha alcun fondamento giuridico.
L’UCRAINIZZAZIONE DELL’EUROPA: IL PARADOSSO DEI VALORI
Stiamo assistendo a un fenomeno sociologico inquietante: per difendere la democrazia ucraina, l’Europa sta adottando i tratti meno democratici di quel sistema.
La messa fuori legge di undici partiti di opposizione, la cancellazione della lingua russa, il rogo dei libri e la glorificazione di figure storiche controverse come Bandera vengono accettati dall’UE senza battere ciglio.
Al contempo, sugli intellettuali europei si adotta un clima da caccia alle streghe.
Il caso di alcune dimissioni dal comitato scientifico di Limes, volte a colpire l’indipendenza di Lucio Caracciolo, è la prova che la pressione per il conformismo sta soffocando anche le voci più autorevoli e storicamente bilanciate.
È tutto già visto, durante il Ventennio. Lo stiamo vivendo di nuovo. E, come allora, chiunque lo denunci viene deriso, se non emarginato a sua volta.
UNA PAURA REALE PER UN FUTURO OPACO
Quello che mi spaventa non è solo la guerra ai confini, ma la guerra interna che stiamo conducendo contro la nostra stessa identità liberale.
Se la libertà di pensiero viene sacrificata sull’altare della sicurezza o della “vittoria a ogni costo”, cosa resterà dell’Europa quando i cannoni taceranno?
Il rischio è di trovarci in un continente impoverito, non solo economicamente, ma moralmente, dove il dubbio è un reato e l’analisi critica è considerata tradimento.
La gestione della comunicazione in questo conflitto ha creato un precedente pericolosissimo: abbiamo legittimato la censura come strumento di politica estera.
Come studioso e come cittadino, sento il peso di un’oppressione che si fa sottile, burocratica, pervasiva, perniciosa.
Stiamo costruendo un muro che non è fatto di mattoni e filo spinato, ma di pregiudizi e silenzi obbligati con la forza.
Se non recuperiamo la capacità di guardare alla realtà per quella che è, senza il filtro deformante della propaganda, l’eclissi della ragione in Europa diventerà una notte perenne, dalla quale sarà difficile risvegliarsi.




