IL LABIRINTO DELLE VERITÀ, L’UCRAINA TRA MEMORIA DI SANGUE E TEATRO

Esiste un punto cieco nella visione geopolitica occidentale, una zona d’ombra dove la logica dei “buoni contro i cattivi” si sgretola contro il muro della storia.

Se vogliamo davvero comprendere l’abisso che separa Mosca da Kiev, non dobbiamo guardare solo i movimenti dei carri armati o le fluttuazioni del gas, ma dobbiamo scrutare dentro le ferite aperte di due popoli che ricordano l’orrore in modi diametralmente opposti.

Perché, in questo caso, la storia non è un libro di testo, ma un’arma che continua a sparare.

LA TRAPPOLA DELLA MEMORIA: QUANDO ENTRAMBI HANNO RAGIONE

Per comprendere il presente, bisogna scavare nelle macerie lasciate dal Novecento.

Nella memoria collettiva ucraina, l’evento fondamentale è l’Holodomor, la carestia che sterminò da 1,5 a 3,5 milioni di ucraini nelle zone rurali.

Gli storici non sono ancora concordi se fu dovuta alla rapida industrializzazione dell’URSS oppure se fu un’azione chirurgica di Stalin per eliminare il movimento indipendentista ucraino, ma sta di fatto che, per gli ucraini, milioni di contadini furono affamati metodicamente da Mosca per spezzare il sogno di un’identità nazionale.

Anche in questo caso, l’interpretazione del fatto è stata più brutale del fatto stesso.

Ed è questa interpretazione della carestia degli anni Trenta del secolo scorso che spiega perché, per un ucraino di oggi, la Russia non è un vicino, ma è l’aggressore esistenziale che ha già provato a cancellarli una volta.

Dall’altro lato del confine, la verità russa ha un sapore diverso, altrettanto amaro.

Per Mosca, il trauma supremo è l’invasione nazista. I russi non dimenticano che una parte della popolazione ucraina accolse la svastica come un vessillo di liberazione dal giogo sovietico, collaborando attivamente agli orrori della Shoah.

Quando il Cremlino parla di “denazificazione”, parla di una ferita ancora aperta, perché fa di tutti gli ucraini dei nazisti.

Due interpretazioni errate, o comunque forzate, di fatti realmente accaduti, spingono entrambi i popoli ad avere le loro ragioni.

Entrambi i popoli abitano stanze separate della stessa tragedia. Hanno entrambi ragione nei loro ricordi, ma quelle verità sono tossiche l’una per l’altra.

IL FANTASMA DELL’IMPERO E IL NODO DELLE MINORANZE

La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata, sociologicamente parlando, una compressione che ora sta esplodendo.

Per secoli, gli Zar prima e i Commissari poi hanno rimescolato i popoli come tessere di un mosaico.

Quando l’impero è crollato, i nuovi stati, dai Baltici alla Finlandia, fino alle repubbliche dell’Asia Centrale, hanno cercato di costruire la propria identità rimuovendo i segni del passato russo.

Ma nessuno si è posto il problema di che fine avrebbero fatto i milioni di russi etnici rimasti “dall’altra parte”.

Ed è proprio qui che nasce la radice della politica di Putin.

L’autocrate russo si muove su binari antichi: la missione di proteggere i russi fuori dai confini. È una visione che per noi appare obsoleta, quasi ottocentesca, ma che per la cultura politica russa è un imperativo morale e strategico. E se non riusciamo a comprenderlo, è una nostra mancanza, non russa.

È la stessa logica che portò l’Italia a morire per Trento e Trieste. Il problema è che questa protezione si trasforma inevitabilmente in invasione.

LA GUERRA SURREALE E IL FALLIMENTO DELL’INFORMAZIONE

Guardiamo al fronte di oggi, al caso quasi onirico di Kursk.

Un tempo, l’invasione del suolo russo avrebbe significato l’apocalisse nucleare in pochi minuti. Oggi, assistiamo a un’incursione gestita quasi come un evento che potremmo definire di marketing bellico, perché è miseramente fallita, nonostante l’evidente impiego di mezzi e uomini NATO, dall’inglese perfetto, ma qualcuno ne parla ancora come una grande conquista ucraina.

Se compariamo il conflitto ucraino con quello di Gaza, notiamo un dato sociologico spiazzante: il rapporto tra morti civili e militari in Ucraina è incredibilmente basso. È una guerra a “bassa intensità”, dove sembra esistere un limite non scritto che le parti temono di varcare.

Anche se la propaganda occidentale ha tentato di ridimensionare Gaza, per nascondere i crimini di Israele, e di esasperare la guerra in Ucraina per creare la paura del mostro russo, che serve a giustificare il riarmo e le politiche belliciste dei leader europei.

In tutto questo, il giornalismo moderno ha fallito.

Siamo inondati di dati, ma privi di comprensione.

A differenza della guerra del Kippur o delle Falkland, dove conoscevamo ogni movimento di brigata, oggi l’informazione è un muro di fumo denso oltre il quale si vede poco o nulla.

I mass media sono gestiti da figure prive di preparazione tecnica, spesso privi di lauree specifiche, incapaci di spiegare se un battaglione stia avanzando o stia semplicemente recitando una parte per i giornali di domani. Senza competenze storiche. Sappiamo tutto della superficie, nulla del nucleo.

Perché, come ho spiegato nel mio libro LA FABBRICA DELLA PAURA, oggi non interessa più informare, ma narrare ciò che serve al potere a cui si risponde.

L’UCRAINA COME GUERRA CIVILE POST-SOVIETICA

La tragedia finale è che questa, in fondo, è una guerra civile tra fratelli che hanno smesso di riconoscersi e hanno negato ogni tentativo di capirsi.

E la loro relazione è stata incancrenita dalle posizioni della NATO, che si è allargata sempre più a Est, e dai leader europei, che continuano a non ascoltare la voce dei milioni di ucraini che fuggono all’estero, si nascondono ai reclutatori e disertano.

Perché chi dice di voler aiutare gli ucraini non ha alcun interesse per ciò che pensano e vogliono davvero gli ucraini, ma perseguono interessi finanziari e geopolitici propri.

Quello dell’Ucraina è un territorio complesso. L’ovest, con Leopoli, non è mai stato russo. È stato austriaco, polacco, mitteleuropeo. La zona orientale, al contrario, è un “calderone” sovietico.

Putin ha scommesso sul fatto che i russi d’Ucraina lo avrebbero accolto come un liberatore, ma ha perso, in parte, la scommessa.

Perché trent’anni di indipendenza hanno creato qualcosa che Mosca non ha previsto, una nuova generazione che si sente ucraina non per etnia o per lingua, ma per cittadinanza.

Puoi parlare russo e sentirti ucraino.

Questo è il salto evolutivo che il Cremlino non riesce a processare.

Eppure, al tempo stesso, una parte di popolazione di quelle regioni, è profondamente ancorato alla Russia.

Ed ecco perché la situazione è complessa.

È come se fossimo in una lotta fratricida, in cui alcuni figli vogliono uccidere il padre per essere finalmente liberi, mentre altri lo difendono e lottano contro i fratelli visti come estranei.

È una tragedia greca recitata con armi moderne e con la spada di Damocle dei missili ipersonici e delle testate nucleari sulle teste, dove alla fine, indipendentemente da chi vincerà sul campo, la ferita tra le memorie sarà così profonda che ci vorranno secoli per rimarginarla.

Forse, non succederà mai.

Ecco perché, come è sempre accaduto nella Storia, è indispensabile dare spazio alla diplomazia. Anche perché non siamo più nell’era delle guerre combattute con la cavalleria, ma, in caso di reale difficoltà esistenziale, le superpotenze possono contare su armi in grado di annientare intere città in meno di un quarto di giro dell’orologio.

Motivo per cui non scoppierà mai una guerra vera tra USA e Russia, ma il rischio di un’escalation che estenda il territorio del conflitto inglobando l’Europa è sempre più elevato.

Qualora mi sbagliassi e scoppiasse una guerra vera tra Russia e USA, nessuno resterebbe vivo e nelle condizioni di rinfacciarmelo.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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