LA PACE È SOLO IL PRETESTO PER LA GUERRA PERENNE?

Stiamo assistendo alla più grande operazione di dissonanza cognitiva di massa dal secondo dopoguerra a oggi. E questo i più lo hanno capito.

Se osserviamo il palcoscenico della diplomazia internazionale lontani dalla retorica mainstream, notiamo una discrepanza terrificante, quasi psichiatrica, tra ciò che viene detto davanti alle telecamere sorridenti di Berlino e ciò che viene pianificato nei corridoi di Bruxelles e Washington.

È un teatro dell’assurdo dove la parola “pace” viene utilizzata come lubrificante semantico per introdurre il meccanismo irreversibile della guerra totale.

LA SEMANTICA DELLA DISSIMULAZIONE

Da un lato abbiamo i titoli rassicuranti, l’ottimismo di facciata che dipinge accordi imminenti e strette di mano risolutive. Dall’altro, c’è la cruda realtà dei documenti tecnici e delle dichiarazioni militari, per cui sembra che non si stia negoziando la fine del conflitto, ma intervenendo per la sua cronicizzazione.

Le proposte sul tavolo, quei famosi punti sottoscritti dalle cancellerie europee, non sono rami d’ulivo, ma micce già accese. Perché pretendere il dispiegamento di una forza multinazionale a guida europea dentro i confini ucraini e richiedere il mantenimento di un esercito di 800.000 uomini in tempo di pace – finanziato, si badi bene, dai contribuenti europei – non è certo diplomazia, ma un ultimatum travestito.

La Russia, piaccia o meno, ha tracciato delle linee rosse indelebili sulla neutralità di Kiev, e ignorarle, proponendo garanzie di sicurezza che equivalgono a un Articolo 5 di fatto, significa sapere perfettamente che Mosca non potrà mai accettare. E allora perché proporlo?

Semplice. Perché il rifiuto russo servirà a legittimare l’escalation successiva. È una trappola logica: ti chiedo l’impossibile per poterti accusare di non volere il possibile.

L’ECONOMIA DI GUERRA COME NUOVO WELFARE

La narrazione secondo cui la ricostruzione e il riarmo saranno pagati con i beni russi congelati è una favola per l’elettorato distratto; la realtà giuridica e finanziaria è ben diversa e molto più complessa e il conto, salatissimo, verrà servito sulle tavole degli europei. Altro che asset russi!

Stiamo parlando di una pressione fiscale destinata a esplodere per finanziare un complesso militare-industriale che, attraverso voci come quelle di Leonardo, ci vende la paura per farci acquistare missili.

Quando si sente dire che “da Mosca a Roma un missile arriva in tre minuti”, non stiamo ascoltando un’analisi strategica imparziale, ma una strategia basata sul terrore.

La sicurezza diventa un prodotto di lusso, e la valuta con cui si paga è il welfare state, smantellato pezzo per pezzo per “adottare una mentalità di guerra”, come suggeriscono con agghiacciante serenità i vertici olandesi e tedeschi.

LA SOCIOLOGIA DELLA PAURA: PREPARARE LE MENTI AL SACRIFICIO

Ma come si convince una popolazione che ha vissuto ottant’anni di pace e prosperità relativa ad accettare che i propri figli debbano “tornare a farsi male”, come auspicano le alte cariche militari francesi?

Si lavora sull’immaginario collettivo e si normalizza l’impensabile.

Il Ponte sullo Stretto che diventa infrastruttura di evacuazione militare non è solo una sceneggiata, ma anche un segnale preciso che punta a militarizzare lo spazio civile, rendere la guerra una possibilità tangibile nella quotidianità del cittadino. Si dice alla gente: “preparatevi a soffrire come i vostri nonni”.

È una regressione antropologica imposta dall’alto, dove la stupidità e la follia sono i nuovi valori, mentre lo spirito critico è roba da ingenui.

La fretta, questa isteria collettiva che ha contagiato le leadership occidentali, ha un nome e un cognome: Donald Trump.

La sola possibilità che dall’altra parte dell’oceano qualcuno decida di “far scoppiare la pace”, chiudendo i rubinetti del supporto incondizionato, ha gettato nel panico l’establishment europeo.

Devono rendere il conflitto strutturale, irreversibile, blindato da accordi giuridici vincolanti. Devono cementare la guerra nelle fondamenta dell’Europa prima che l’opinione pubblica si svegli dal torpore.

IL FALLIMENTO DELLA NARRAZIONE E LA SVOLTA AUTORITARIA

C’è però un problema in questo ingranaggio perfetto: la credibilità.

La gente inizia a notare le crepe. Se Putin afferma, con un pragmatismo che gela il sangue, di non avere alcun interesse a invadere l’Europa, ma anche di essere pronto a una risposta non chirurgica in caso di attacco, (perciò, potenzialmente atomica), e dall’altra parte i nostri leader evocano scenari apocalittici per giustificare censure e leggi liberticide, il cittadino medio – dotato di buon senso – inizia a farsi delle domande.

Il crollo del consenso verso i governi europei non è frutto della propaganda russa o di fantomatici hacker che manipolano le menti deboli, ma il risultato diretto della schizofrenia dei nostri rappresentanti.

Non puoi predicare i valori democratici mentre prepari scudi informatici per silenziare il dissenso. Non puoi erigerti a difensore della libertà mentre costruisci un apparato di censura per impedire che la “campana russa” venga anche solo ascoltata per comparazione.

Se il tuo prodotto, la tua visione del mondo, la tua politica, è valido, non hai bisogno di eliminare la concorrenza narrativa con la forza. Se hai bisogno di bavagli, retate digitali e filtri social per mantenere il consenso, significa che hai già perso la battaglia delle idee.

L’Occidente non ha bisogno di più armi o di più guerra ibrida. Ha bisogno di guardarsi allo specchio e chiedersi se la democrazia che pretende di esportare a colpi di cannone esista ancora dentro i propri confini.

Al momento, la risposta sembra essere un inquietante no.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Rispondi