Mentre Washington traccia le coordinate del mondo per il prossimo quarto di secolo, aggiornando ossessivamente la sua National Security Strategy, l’Europa vaga nelle nebbie della propria irrilevanza.
Siamo spettatori paganti di una tragedia che ci vede protagonisti passivi.
Ma non è solo incompetenza. È qualcosa di più profondo, di sociologicamente più allarmante: è l’atrofia del pensiero logico.
Se analizziamo i comportamenti delle élite occidentali, dai generali a stelle e strisce come Petraeus ai nostri governanti locali, notiamo un pattern terrificante, un disco rotto che si ripete.
Pianificano l’escalation. Discutono di inviare missili a lungo raggio nel cuore di una superpotenza nucleare con la stessa leggerezza con cui si ordina un caffè al bar.
Manca totalmente il calcolo della reazione. È come lanciare un’automobile da un cavalcavia sperando che la gravità si prenda una pausa, senza chiedersi chi ci sia sotto o cosa accadrà all’impatto.
IL VUOTO INQUIETANTE DEL “PIANO B”
C’è un aneddoto che fotografa impietosamente lo stato comatoso della nostra classe dirigente. Riguarda un noto politico italiano, Stefano Bonaccini, il quale, incalzato da Luca Telese sulla possibilità che la strategia in Ucraina fallisse, ha reagito con stizza, quasi con offesa. Perché non hanno un piano B. Non l’hanno mai avuto.
Questa non è politica, è gioco d’azzardo con le fiches dei cittadini. Con i soldi dei cittadini. Con le vite dei cittadini.
Abbiamo affidato il timone del continente a “dilettanti allo sbaraglio” che confondono il desiderio con la realtà. Hanno scommesso tutto sul crollo immediato dell’avversario, ignorando la reale forza del nemico e la nostra fragilità industriale. E quando la realtà ha presentato il conto, invece di cambiare rotta, hanno accelerato verso il precipizio.
SUDDITANZA E DEINDUSTRIALIZZAZIONE: IL PREZZO DEL NON ESSERE
Gli Stati Uniti fanno il loro mestiere. Curano i propri interessi. Sempre.
Che alla Casa Bianca ci sia un democratico o un repubblicano, la musica non cambia: l’America first. L’Europa, invece, agisce contro se stessa.
Abbiamo accettato in silenzio il sabotaggio delle nostre infrastrutture energetiche vitali, come il Nord Stream, un atto che ha spezzato la spina dorsale dell’industria tedesca e, a cascata, di quella europea.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, anche se si cerca di non guardare.
La Germania è in recessione strutturale. L’Italia sta scivolando verso un modello economico da “parco giochi”: turismo e servizi, senza più la capacità di produrre auto che si vendano, figuriamoci tecnologia avanzata di difesa.
Stiamo drenando risorse dal welfare, dalla sanità e dalla scuola per finanziare un riarmo tardivo e confuso, acquistando spesso sistemi d’arma americani. Stiamo vivendo un trasferimento di ricchezza colossale, dai contribuenti europei all’industria bellica d’oltreoceano.
Siamo diventati il bancomat delle crisi altrui.
E mentre l’economia sanguina, i “volenterosi” d’Europa, leader presi a schiaffi in patria come Macron, cercano legittimità internazionale spingendo per una guerra che non possono sostenere. È la geopolitica della disperazione.
DALLA CULTURA DEL VINCOLO ALLA CULTURA DELLA POTENZA
Il problema non è tecnico. È esistenziale.
L’Unione Europea produce tonnellate di carte: regolamenti sulla curvatura dei cetrioli e sui tappi delle bottiglie di plastica, direttive green irrealizzabili, documenti tecnici che nessuno legge. È la cultura del vincolo.
Se c’è un termine che possa sintetizzare cosa sia l’Europa oggi è proprio “vincolo”.
Ciò che manca, tragicamente, è la cultura dell’interesse strategico.
Una vera Strategia di Sicurezza non si scrive con il moralismo, ma con le industrie, con l’energia e con la demografia.
Sicurezza significa sapere da dove arriverà il gas tra dieci anni al miglior prezzo possibile, senza che nessuno possa chiudere il rubinetto o imporre dazi né farcelo pagare a prezzi assurdi.
Sicurezza significa avere catene logistiche che non si spezzano al primo soffio di vento geopolitico nel Mar Rosso.
Sicurezza significa avere un’industria capace di sostenere lo sforzo tecnologico senza dipendere dai microchip asiatici, dai software californiani e dalle terre rare che non abbiamo.
Finché l’Europa non risponderà alla seguente domanda, “Chi siamo e cosa vogliamo essere tra vent’anni?”, rimarrà quello che è oggi: un campo di gioco dove altri, più cinici e più preparati, disputano la loro partita.
Siamo la somma delle nostre fragilità perché abbiamo rinunciato ad avere una visione unitaria.
Il Mediterraneo, l’Africa, il Medio Oriente non possono essere note a piè di pagina nei nostri dossier, perché sono il nostro cortile di casa, il nostro destino geografico. Eppure, li guardiamo con gli occhi presi in prestito da Washington, incapaci di formulare un pensiero autonomo che tuteli i nostri cittadini.
L’ULTIMA CHIAMATA PER LA REALTÀ
La storia non aspetta gli indecisi.
Il tentativo fallito di sequestrare gli asset russi in Belgio, bloccato solo dal terrore della BCE di far crollare l’euro e la reputazione finanziaria del continente, dimostra che siamo arrivati al limite. I soldi sono finiti. La retorica si sta sgretolando di fronte ai fatti sul campo di battaglia.
Serve una rivoluzione copernicana nel pensiero europeo. Dobbiamo smettere di essere i servitori sciocchi di strategie decise altrove e iniziare a ragionare come un attore geopolitico adulto.
Serve meno burocrazia e più visione. Meno ideologia e più realismo. Soprattutto, servono leader con competenze storiche, filosofiche e geopolitiche, perché l’ignoranza in queste materie, come si evince, fa danni enormi.
Se non saremo in grado di definire i nostri interessi vitali, dalla sicurezza energetica a quella sociale, e di difenderli con le unghie e con i denti, il destino è segnato.
Non saremo giocatori. Saremo il pallone di una partita giocata da altri.




