PERCHÉ L’EUROPA NON VUOLE DAVVERO CHE LA GUERRA FINISCA

A Ginevra sembrerebbe andare in scena una farsa.

Si parla di pace, eppure, un brivido di panico percorre le cancellerie europee. Un terrore freddo, poiché il piano di pace proposto dall’amministrazione Trump, pur con tutte le sue brutali imperfezioni, rappresenta un’uscita di emergenza da un edificio in fiamme, il cui incendio è stato provocato dall’incompetenza di tanti che ora temono di doverne pagare il conto.

Perciò l’Europa, invece di correre verso l’aria, sembra impegnata a sbarrare la porta dall’interno perché qualcuno resti tra le fiamme.

LA SINDROME DI GINEVRA E LA SPERANZA CHE DIVENTA MINACCIA

La reazione europea al vertice svizzero è pura dissonanza cognitiva.

Per due anni, l’intero apparato mediatico e politico occidentale ha costruito una narrazione monolitica, per cui la guerra è necessaria per arrivare alla pace.

Ora che una via d’uscita, per quanto impervia e sgradevole, si materializza, quella stessa architettura narrativa crolla, rivelando un’inquietudine profonda dei nostri leader belligeranti.

Non si tratta solo di contestare i dettagli del piano, come se nella storia ci fosse mai stato un piano di pace incontestabile.

La cessione di territori è una pillola amara, la limitazione delle forze armate è umiliante, ma queste sono le cicatrici che ogni guerra lascia sul corpo dei vinti.

Basta aprire un qualunque libro di storia per scoprire che non è mai esistita nessuna pace giusta, ma solo imposizioni dei vincitori ai vinti. Sempre e comunque. Vi sembra giusta la pace imposta al Giappone nel 1945? E quella alla Germania dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale?

L’agitazione febbrile, le contromisure affannose, le lettere di “perplessità” firmate da leader che fino a ieri non avevano un piano alternativo se non quello di fornire armi fino all’ultimo ucraino, non nascono dalla preoccupazione per Kiev, ma dalla paura di perdere il controllo della narrazione. E, con essa, il potere.

Il dialogo tra Stati Uniti e Russia, con l’Ucraina costretta a un ruolo da comprimaria, taglia fuori l’Europa. La rende irrilevante.

Un tweet in maiuscolo di Donald Trump, che accusa Zelensky di “zero gratitudine”, è sufficiente a gelare i “progressi enormi” decantati dal Segretario di Stato Rubio, perché l’Europa non ha ancora compreso che questo non è un negoziato tra pari, ma una dimostrazione di forza in cui l’Europa è semplicemente lo spettatore che pagherà il conto dello spettacolo, chiunque vinca.

Ed è solo questione di tempo. O con questa pace o con un’altra, più avanti, ma a un prezzo ancora più alto, proprio come quello di oggi è molto più elevato di quello della trattativa del 2022.

LA “PACE GIUSTA”: IL PIÙ NOBILE DEGLI ALIBI

Sentiremo ancora parlare, fino alla nausea, di “pace giusta”.

È l’alibi più nobile, la scusa più spendibile per giustificare l’inazione diplomatica. Una scusa che funziona con chi nelle ore di storie giocava a tris con il compagno di banco, perché la storia non conosce paci giuste, ma solo accordi dettati dai rapporti di forza sul campo.

La pace è sempre stata la firma apposta dal vincitore su un documento che il perdente è costretto a subire per non perdere molto più di quanto ha già perso.

Pretendere il contrario significa vivere in un mondo di fantasia. E, quando a vivere in un mondo di fantasia, è un leader a capo di una nazione europea, la cosa è preoccupante.

Perché tale fantasia ha un costo reale, misurabile in vite umane. Ogni singolo giorno in cui si procrastina un accordo in nome di una ridicola “pace giusta”, si aggiorna una contabilità macabra sui campi di battaglia ucraini.

Si aggiungono nomi a una lista infinita di giovani strappati per le strade e mandati a morire al fronte.

L’unica pace giusta è quella che ferma questo massacro in qualunque modo e a qualunque prezzo. Oggi. Non domani.

Tutto il resto è retorica sporca di sangue, una speculazione filosofica sulla pelle degli ucraini.

L’alternativa a una pace imperfetta non è una pace perfetta, che non è mai esistita e mai esisterà, ma la continuazione della guerra fino alla distruzione totale dell’Ucraina.

IL NEMICO NECESSARIO: L’ECONOMIA DI GUERRA COME NUOVO WELFARE

Perché, dunque, questa ostinazione degli europei?

La risposta segue il flusso del denaro e del potere.

La fine della guerra farebbe crollare il paradigma che l’élite europea ha faticosamente costruito negli ultimi due anni: l’esistenza di un grande e temibile nemico alle porte.

Questa narrazione non serve solo a compattare l’opinione pubblica, ma è il motore di un gigantesco progetto di riconversione industriale e sociale.

Giustifica il riarmo europeo. Permette di deviare miliardi di euro, che un tempo erano destinati a sanità, istruzione, pensioni e welfare, verso le industrie della difesa.

Non ci sono soldi per mettere in sicurezza scuole fatiscenti e ponti pericolanti, né per assumere più poliziotti e più infermieri e medici, ma si mandano miliardi in Ucraina e si spende fino al 5% in armamenti.

La guerra è diventata il nuovo, perverso, modello di sviluppo economico. Un’opportunità per ristrutturare le economie nazionali sotto la bandiera dell’emergenza securitaria, mettendo a tacere ogni dissenso interno.

Un’arma per rimettere in carreggiata il settore dell’automotive mandato a morire con le irresponsabili politiche green di von der Leyen, che hanno prodotto la cancellazione di 48.700 posti di lavoro in Germania solo nei primi nove mesi del 2025 e in gran parte proprio nel settore auto.

Se la minaccia del nemico alle porte svanisce, come si giustificheranno i tagli futuri?

Come si spiegherà ai cittadini che le loro pensioni sono a rischio mentre i bilanci militari esplodono?

La pace, per questi leader, non è la fine di un problema, ma l’inizio di un problema ben più grande: dover rispondere delle proprie scelte ai propri elettori.

L’Europa è già la grande sconfitta di questo conflitto. Si è privata dell’energia a basso costo russa per legarsi mani e piedi al più costoso gas liquefatto americano. Si è disarmata, svuotando i propri arsenali per riempire quelli ucraini.

E ora, mentre Washington e Mosca disegnano i contorni del futuro, si ritrova a discutere di come finanziare una ricostruzione che, in gran parte, arricchirà le multinazionali americane.

Il dramma non è solo la brutalità della guerra, ma l’ipocrisia di chi, pur avendone il potere, sceglie di non fermarla, perché, mentre a Ginevra si discute di virgole e si esprimono “perplessità”, sui campi dell’Ucraina si continuano a contare le croci.

Questa è l’unica verità che conta. E nessuno, in Europa, sembra avere il coraggio di dirla.

Né i politici né i tanti giornalisti che per quasi quattro anni ci hanno raccontato di pale, muli, sanzioni dirompenti e soldati russi senza calzini.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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