L’ECO DEL SILENZIO. ANATOMIA DI UN SUCCESSO SUSSURRATO

Maralba Focone a Cremona, dove l’arte è diventata specchio di una società afona.

Cremona non è una città abituata al silenzio, ma al vociare e al chiacchiericcio tra le sue strade medievali.

È una città di liutai, di vibrazioni, di archi che accarezzano le corde di un’anima di legno per farla cantare.

È la culla di un suono perfetto, cercato per secoli.

Eppure, per settimane, la città ha ospitato un’arte che del silenzio ha fatto la sua cattedrale, un’arte abitata da figure esili, introverse, piegate da un dolore composto, quasi liturgico. Le opere di Maralba Focone.

La mostra, inizialmente prevista fino a fine ottobre, è stata prorogata fino a metà novembre. Una decisione dettata da un’inattesa risposta di pubblico, dalla gente che ha continuato ad arrivare per visitare la mostra.

Le tele di Focone, con la loro emanazione quasi monocromatica e la loro materia pittorica densa, quasi un bassorilievo dell’angoscia, non hanno semplicemente decorato le pareti di Gabetti Arte, ma hanno veicolato sentimenti ed emozioni con prepotenza.

In un’epoca definita dalla performance obbligatoria, dalla comunicazione incessante e dalla felicità come imperativo categorico, l’opera di Focone ha offerto la legittimazione radicale del diritto alla fragilità, all’angoscia, alla tribolazione.

Il diritto al silenzio per riflettere.

Le sue figure allungate, che evocano la sintesi formale di un Modigliani, filtrata attraverso la cruda empatia di una Kathe Kollwitz, non sono ritratti di individui, ma archetipi della nostra condizione post-pandemica, della precarietà economica che si fa esistenziale, dell’isolamento che persiste nonostante l’iperconnessione che ci rende impossibile nasconderci agli altri.

L’artista non dipinge persone, ma mette in scena la distanza che c’è tra loro.

Ma l’analisi non può e non deve fermarsi qui. Un fenomeno di questa portata non si spiega solo con l’esegesi critica.

Si comprende ascoltando.

E durante le settimane di apertura, gli operatori della mostra hanno raccolto una serie di pensieri lasciati dai visitatori. Non critiche d’arte di esperti, ma le confessioni reali di persone comuni che hanno fruito della mostra.

Frammenti di un dialogo muto tra l’osservatore e la tela.

Questi commenti, provenienti da persone di ogni estrazione sociale e professionale, costituiscono il dato più rilevante di questa operazione culturale. Sono la prova empirica che l’arte, quando è onesta, cessa di essere un oggetto e diventa un’esperienza, un luogo di incontro. Un confessionale, persino.

Per comprendere l’impatto di Maralba Focone, dobbiamo cedere la parola a chi ha guardato e si è sentito guardato.

IL CORO MUTO: VOCI DALLA MOSTRA

Le prime voci a emergere sono quelle allenate a decifrare i codici umani, a leggere tra le righe del non detto.

Lucia, insegnante: «In questi volti e in queste posture c’è tutta la fragilità dell’adolescenza. Mi ricordano alcuni miei studenti, quelli più silenziosi, che portano dentro un mondo intero che non riescono a esprimere. C’è un grande rispetto per la vulnerabilità umana.»

Sabrina: «Un’incredibile esplorazione dell’inconscio. Le figure allungate sono la rappresentazione perfetta di come il dolore psichico si somatizzi. Le mani, sempre in primo piano, sono il centro dell’azione o della non-azione. È un’arte che non ha paura di guardare dentro l’abisso interiore.»

Ferdinando: «Mamma mia! Qui c’è del colore, e tanto. Mi piace come lo lavora, si vede che non ha paura di usare la spatola, di lasciare il segno. In certi punti è quasi un bassorilievo. Ha un gran mestiere, non c’è che dire.»

Simona, pittrice: «C’è un coraggio notevole nel lavoro di Focone. La sintesi formale è estrema, ma non perde mai il contatto con l’umano. Si sente l’eco di Modigliani, ma la sintesi è del tutto personale. Il gesto pittorico è viscerale, onesto. Si sta mettendo a nudo sulla tela.»

Luca: «Trovo affascinante la struttura di queste opere. C’è una geometria del dolore. Le linee dei corpi creano delle tensioni che guidano l’occhio. Nei paesaggi, poi, la tecnica è quasi scultorea, un approccio quasi architettonico al sentimento.»

Paola, musicista: «Ogni quadro è una melodia. I lavori monocromatici sono come un “adagio” da suonare con il violino. Il ritmo delle pennellate, a volte spezzato, a volte lungo e fluido, è una vera e propria partitura visiva. C’è un silenzio assordante.»

Angelica, fotografa: «La luce in questi quadri è tutta interiore. La composizione è superba, le figure spesso riempiono l’inquadratura, creando un senso di claustrofobia emotiva. È come se l’artista avesse usato un fuoco sull’emozione.»

Anna: «Vedo persone che portano un peso. Le schiene curve, le teste chine… sono posture che conosco bene. Sono i gesti di chi ha subito un trauma, di chi si sente sconfitto. Non c’è rabbia, però. C’è una rassegnazione dignitosa.»

Alberto, agente immobiliare: «Interessante… soprattutto i quadri con gli edifici. Quel borgo con i tetti rosa ha un potenziale enorme, mi trasmette un’idea di “luogo dell’anima”. Creano un’atmosfera, per chi non cerca solo “il bello” ma qualcosa che faccia pensare.»

Carlo, ristoratore della zona: «Questa è una cucina dell’essenziale. Pochi ingredienti, ma di una qualità assoluta. L’ingrediente principale è l’emozione cruda. C’è un sapore agrodolce in quasi tutte le opere, una malinconia che ti resta sul palato. Non è un’arte facile o consolatoria, ma ti nutre in profondità.»

L’ARTE COME NECESSITÀ SOCIALE

Cosa ci dice questo coro di voci? Ci dice che ogni visitatore ha proiettato sulle tele la propria sensibilità, il proprio vissuto, trovando non una risposta, ma qualcosa di molto più prezioso: una domanda condivisa.

Il successo di questa esposizione non è un mero evento artistico. È un sintomo. Un segnale potentissimo che la società, al di là del rumore di fondo, ha un disperato bisogno di spazi di decompressione emotiva, di luoghi dove la tristezza non sia un bug da correggere ma una parte legittima dell’esperienza umana.

L’arte di Focone è diventata un servizio pubblico non dichiarato.

L’esigenza di prorogare la mostra ha dimostrato l’esistenza di un bisogno tra le persone, un bisogno di comprendere la fragilità che oggi è vista come una devianza.

Cremona, la città del suono, ha dato voce al silenzio grazie all’arte di Maralba Focone e il pubblico, inaspettatamente, si è fermato ad ascoltare. Forse perché, in un mondo che urla, la cosa più rivoluzionaria è imparare di nuovo a sussurrare?

RT

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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