Un boato sordo. Poi la polvere.
Sembrava una bomba, ma non è stato un attacco nemico, ma un pezzo d’Italia che crolla su se stessa, seppellendo chi ci lavorava dentro. Come accade ogni tanto con i ponti, con le scuole fatiscenti, con gli smottamenti per un po’ di pioggia in più, per intenderci.
Stavolta, è toccato alla Torre dei Conti, un cantiere nel centro della Capitale, diventato il mausoleo di un operaio e il simbolo plastico, e tragicamente perfetto, di una nazione che si sgretola dall’interno.
Mentre accade questa tragedia, a Bruxelles e nelle altre capitali europee, i discorsi sono altisonanti, le priorità chiarissime: miliardi di euro da destinare allo sviluppo di armi sempre più sofisticate, e un impegno incrollabile per un fronte lontano migliaia di chilometri.
C’è una schizofrenia, una disconnessione patologica tra la realtà che i cittadini vivono ogni giorno e la narrazione che le élite politiche perpetuano.
È il grande inganno del nostro tempo: distrarre l’opinione pubblica con il feticcio di una guerra per procura da vincere a ogni costo, mentre si lascia marcire il fronte interno, quello del lavoro, della sicurezza, della dignità.
E a chi si lamenta, si pone dinanzi il martirio degli ucraini. Già, quegli stessi ucraini che mandiamo al martirio rinunciando a qualsiasi intervento diplomatico.
IL FRONTE INTERNO: MORIRE DI PACE
Parliamo di lavoro. O meglio, del suo fantasma.
In Italia, il lavoro è diventato povero, precario, mortale. Non è un’iperbole, è statistica.
L’incidente di Roma non è un caso isolato, ma la logica conseguenza di un sistema che, per massimizzare il profitto, taglia sistematicamente sulla sicurezza, sulla manutenzione, sulla formazione.
Io stesso, quando lavoravo in fabbrica, ho visto chi doveva vigilare sulla sicurezza chiudere un occhio sulle porte aperte dei centri di lavoro e delle macchine a taglio laser, bloccate con delle forchette nei micron. Perché accade in migliaia di aziende?
Semplice: perché il sistema consente che una società privata si occupi di sicurezza. Perciò può diventare fornitrice per un’impresa cliente. E ciò comporta il fatto che, se troppo fiscale e precisa, l’azienda cliente si rivolge ad altri più permissivi.
Perché lavorare rispettando le regole aumenta il costo singolo di un pezzo, perciò si preferisce tagliare sulla sicurezza di chi lavora.
Oggi, a distanza di tanti anni, la situazione è molto peggiorata.
Si tagliano i costi perché i margini sono risicati, perché l’economia è stagnante, perché il potere d’acquisto si erode. E così, si taglia la vita. Si muore di pace, nei cantieri, nelle fabbriche.
È un paradosso che diventa beffa quando la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, sfrutta cinicamente la nostra tragedia per dileggiarci.
“Finché il governo italiano continuerà a spendere inutilmente i soldi dei suoi contribuenti,” ha dichiarato, “l’Italia crollerà tutta, dall’economia alle torri”.
L’umiliazione non sta nel fatto che lo dica lei, ma nel fondo di verità che le sue parole, per quanto inopportune e strumentali, contengono.
Siamo diventati così fragili che persino i nostri avversari geopolitici possono usare le nostre crepe interne come arma di propaganda. Persino avversari che il nostro Mario Draghi dava per spacciati nel 2022, quando parlò degli effetti “dirompenti” delle nostre sanzioni.
Questo degrado non è solo economico, ma istituzionale. Mentre si discute di inviare armi per “difendere la democrazia” in Ucraina, in Italia si approva una riforma della giustizia che, con la separazione delle carriere, rischia di porre il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo.
Si indebolisce uno dei pilastri fondamentali dell’equilibrio democratico per interessi di parte, mentre lo Stato si dimostra incapace di garantire la sicurezza più elementare ai suoi cittadini.
IL FRONTE ESTERNO: L’AGONIA DI UNA VITTORIA IMMAGINARIA
E mentre il fronte interno cede, cosa succede su quello esterno, quello che ossessiona i nostri media e i nostri governi?
La narrazione ufficiale parla di resistenza eroica e di una vittoria possibile. La realtà, per chi ha l’onestà intellettuale di analizzare i dati, racconta un’altra storia.
La caduta di Pokrovsk, roccaforte logistica e ultimo baluardo ucraino nel Donetsk, è imminente. La sua perdita, secondo l’autorevole Institute for the Study of War (ISW), -non certo al soldo di Putin,- non sarebbe un normale arretramento, uno dei tanti di questi ultimi mesi, ma il potenziale collasso dell’intero fronte orientale.
I russi avanzano, lentamente, ma inesorabilmente, intensificando la pressione proprio lì, declassando le operazioni altrove.
L’idea stessa di “vittoria” è diventata un concetto favolistico, che si rimpicciolisce con il passare dei mesi.
Dalla fantasiosa riconquista della Crimea, paventata fino alla fine dell’anno scorso, si è passati alla speranza di tornare ai confini pre-2022 dell’ultima estate, per arrivare all’obiettivo odierno, molto più modesto e disperato: difendere la linea del fronte abbastanza a lungo da costringere Putin a “congelare” il conflitto.
Non è proprio una strategia di vittoria, ma una strategia di logoramento, in cui a logorarsi non è solo la Russia, ma soprattutto l’Ucraina, e con essa le economie europee che la spingono ancora a combattere.
Il presidente Zelenskyy, sempre più in difficoltà, cerca capri espiatori interni.
Le purghe di generali, le accuse ai sindaci di Kiev e Odessa, l’incriminazione dell’ex capo della compagnia energetica nazionale per un contratto di sette anni fa, sono tutti segnali di una leadership che, di fronte al fallimento sul campo, ha un disperato bisogno di scaricare le responsabilità.
È la politica che prevale sulla strategia militare, e, storicamente, è sempre un presagio di sconfitta.
In questo quadro desolante, la Commissione Europea plaude ai “progressi” dell’Ucraina verso l’adesione all’UE, ignorando una corruzione dilagante e un sistema democratico sempre più autoritario. Una farsa per mascherare un fallimento su tutta la linea.
IL PREZZO DELLA FINZIONE E L’INVIDIA DEI PICCOLI UOMINI
C’è chi, di fronte a questa analisi, reagisce con fastidio. Sono quelli che credevano alle scemenze della propaganda occidentale fatta di microchip rubati alle lavastoviglie ucraine, di muli usati al posto dei mezzi corazzati distrutti, di sanzioni dirompenti, di soldati russi armati solo di pale.
Spesso commentano, nascosti dietro account creati ieri, e, comunque, non argomentano, denigrano.
Attaccano chi scrive, non le idee.
E, quando si attacca chi scrive e non le idee, significa che un’analisi basata sui fatti smaschera la propaganda e dà fastidio.
Ma c’è una seconda ragione, più umana e più triste: l’invidia.
La mediocrità non tollera chi esce dal coro.
Chi non ha idee proprie, né il coraggio di esporle, può solo tentare di demolire quelle altrui. Passa il suo tempo a distruggere, perché è l’unico modo per sentirsi, per un istante, meno piccolo.
Ed è su queste persone che fa perno la propaganda, quel sistema di giornalisti che hanno scelto di non informare più, per diventare megafoni del potere. Per soldi, per interessi, per disegni diversi, per meccanismi di sponsorizzazione.
Ho provato a sintetizzare le ragioni di questa deriva del giornalismo italiano in questo libro: “La Fabbrica delle Paura”. Un libro in cui tratto della gestione pandemica e della guerra in Ucraina, smontando la fabbrica della paura e le propagande di casa nostra e svelando i meccanismi degli ospiti fissi in televisione.

Il libro è un’esclusiva Amazon e puoi trovarlo qui a un prezzo irrisorio:
La società è guidata da una classe politica che ha scelto di abitare un mondo di favole. La favola di una guerra giusta che si può vincere, la favola di un’economia che regge, la favola di un’Italia al centro del mondo.
Il prezzo di questa finzione lo pagano persone reali. Lo paga l’operaio di Roma e la sua famiglia. Lo paga il soldato ucraino mandato al fronte a morire per una causa già persa. Lo paghiamo noi, cittadini europei, i cui soldi vengono bruciati per alimentare un conflitto che ci impoverisce e ci rende più insicuri.
Fino a quando potremo permetterci di far sgretolare casa nostra per inseguire una vittoria immaginaria altrove?

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.



