IN EUROPA, SE FAI IL GIORNALISTA E PONI DOMANDE SCOMODE, TI LICENZIANO

Purtroppo, non si tratta di un’idea allarmistica, ma della realtà dei fatti.

Il 13 ottobre, a Bruxelles, in quell’Europa che si dice faro di democrazia, il giornalista Gabriele Nunziati ha posto una di queste domande. E per questo ha perso il lavoro.

Licenziato per aver chiesto alla portavoce della Commissione Europea, Paula Pinho, una cosa di una linearità disarmante: «Se la Russia dovrà pagare per la ricostruzione dell’Ucraina, anche Israele dovrà farlo per Gaza?»

Una domanda che non contiene un’opinione, né un pregiudizio. Contiene un parallelo. Un test di coerenza per l’architettura etica e politica dell’Unione Europea. Un test di intelligenza per chiunque abbia superato almeno un esame di Diritto internazionale all’università.

La risposta della portavoce è stata un capolavoro di elusione: «La sua è una domanda molto interessante sulla quale però non vorrei commentare in questo momento.»

Un non-detto che, col senno di poi, era già una sentenza.

Pochi giorni dopo, a seguito di telefonate definite dallo stesso Nunziati come “abbastanza tese”, il suo rapporto di collaborazione con l’Agenzia Nova è stato interrotto. Senza un motivo ufficiale nella lettera di licenziamento.

Il motivo, tuttavia, è chiaro a tutti: quella domanda non doveva essere posta in nome di una censura su certi argomenti che non è scritta da nessuna parte ma vive e aleggia in questi comportamenti, che giudicare fascisti è ancora poca cosa.

QUANDO LA “RAGION DI STATO” DIVENTA LA RAGION D’EDITORE

La giustificazione postuma dell’Agenzia Nova è un documento che andrebbe studiato nei manuali di sociologia della comunicazione come un esempio plastico di autocensura preventiva e di sottomissione del giornalismo a logiche che con l’informazione non hanno nulla a che vedere.

Secondo la versione tragicomica dell’agenzia, la domanda di Nunziati denotava “ignoranza dei principi fondamentali del diritto internazionale” ed era “tecnicamente sbagliata”.

Roba da scompisciarsi dal ridere.

La Russia, argomentano, è un aggressore non provocato; Israele ha subito un’aggressione. Una giustificazione che ci si aspetta dall’eroe del bar sport, non certo da chi dovrebbe conoscere la realtà dei fatti. Un sofisma fragile, che crolla sotto il peso della logica e della realtà fattuale.

La domanda di Nunziati non verteva sulla legittimità dell’inizio di un conflitto, ma sulle responsabilità per la distruzione di infrastrutture civili.

Quello di Agenzia Nova è un tentativo goffo di spostare il dibattito, di confondere le acque per non ammettere il vero peccato di Nunziati: aver messo in imbarazzo la linea editoriale dell’agenzia, esponendone forse le pressioni o le convenienze politiche.

Un po’ come se il Washington Post, per paura di Nixon, avesse licenziato i giornalisti del caso Watergate.

Di fatto, si ammette che non si possono porre certe domande. Oggi, fare il giornalista in Europa, e farlo in maniera seria, non si può.

La parte più rivelatrice del comunicato, tuttavia, è un’altra.

L’agenzia si duole che il video della domanda sia stato ripreso da canali Telegram russi e media vicini all’Islam politico, causando “imbarazzo in termini di indipendenza informativa e oggettività”.

E tali affermazioni sono un paradosso ancora più inquietante.

Un giornalista non viene più giudicato per la pertinenza della sua domanda, ma per chi la strumentalizza.

L’agente della “colpa” diventa la reazione di terzi, non l’atto giornalistico in sé.

Ma questa è la capitolazione del giornalismo alla propaganda. Significa ammettere che la propria linea editoriale è dettata dalla paura di come i “nemici” potrebbero interpretare una semplice domanda.

E si ribadisce la censura, quindi.

DUE PESI, DUE MISURE: IL TABÙ GEOPOLITICO CHE SOFFOCA LA VERITÀ

Il caso Nunziati è la cartina di tornasole di una schizofrenia morale che attraversa l’Occidente, a livello politico e a livello mediatico, dove tanti giornalisti hanno ucciso l’informazione, scegliendo di diventare megafoni del potere. O, almeno, di non disturbarlo.

Le giustificazioni di Agenzia Nova sono le stesse che si sentono in Cina e in Russia e contro cui per anni abbiamo puntato il dito, gridando, giustamente, alla dittatura.

Ma è l’Europa oggi, gente.

Per la Russia, giustamente, si chiede conto di ogni mattone distrutto in Ucraina.

La condanna è unanime, le sanzioni severe, la richiesta di riparazioni un imperativo morale. Ma quando il teatro delle operazioni si sposta a Gaza, il metro di giudizio cambia radicalmente. La critica a Israele diventa un tabù, la richiesta di responsabilità un’eresia.

E se poni domande vere, supportate dalla logica, dal Diritto internazionale e dai fatti, ecco che diventi un problema e ti censurano, ti chiudono un canale, ti licenziano.

Il licenziamento di Nunziati non è un episodio, non l’atto di un singolo editore, ma il sintomo di un clima di censura che è gravissimo.

È il segnale inviato a un’intera categoria professionale. È un avvertimento in stile mafioso, per cui ci sono santuari intoccabili, narrazioni che non possono essere messe in discussione. Altrimenti, si resta senza lavoro.

Si può raccontare la guerra, ma solo da una trincea ideologica e solo se al potere sta bene.

Il giornalista non è più un testimone critico, non è più nemmeno il cane da guardia del potere, ma un soldato, consapevole o meno, di una guerra di narrazioni. Un soldato che, se si macchia di insubordinazione, deve pagarne le conseguenze.

Chiunque osi tracciare parallelismi scomodi, chiunque applichi un principio di universalità etica, viene bollato come ingenuo, ignorante o, peggio, come fiancheggiatore del nemico.

LA NUOVA CENSURA NON USA IL BAVAGLIO, MA LA LETTERA DI LICENZIAMENTO

Dimenticate l’immagine romantica del censore del regime che annerisce gli articoli con un pennarello.

La nuova censura europea è più elegante, più sottile, e forse per questo più pericolosamente fascista.

È una censura economica. Agisce sulla precarietà dei rapporti di lavoro, sulla vulnerabilità di collaboratori e freelance che possono essere allontanati con una semplice comunicazione, senza clamore e senza la necessità di scomodare leggi liberticide.

Oppure, come accaduto ad altri, si chiudono i conti, con un clic.

Questa forma di repressione soft genera un’arma potentissima: l’autocensura.

Per ogni Gabriele Nunziati che perde il lavoro, ce ne sono cento che, la prossima volta, ci penseranno due volte prima di formulare una domanda “interessante”. Fino a quando nessuno avrà più il coraggio di porre domande e la dittatura… ops, il potere andrà avanti indisturbato, come se fosse tutto normale.

È un meccanismo di addomesticamento di massa che svuota il mestiere del giornalista del primo dovere di questo mestiere: il coraggio di chiedere.

Una situazione che indebolisce il giornalismo libero e indipendente, come hanno denunciato diversi esponenti politici, che hanno chiesto ad Agenzia Nova di fare chiarezza sulle reali motivazioni del licenziamento.

Un episodio che dimostra come sia sempre più difficile trovare fonti di informazione che non siano viziate da interessi politici superiori, non a caso, sono proprio i blog come Tamago quelli che non hanno avuto bisogno di raccontare sciocchezze di pale e microchip, ma vi hanno sempre raccontato i fatti reali.

Un’involuzione che denuncio nel mio ultimo libro, La fabbrica della paura.

UNA DERIVA AUTORITARIA NEL CUORE DELL’EUROPA

Quando fare una domanda diventa un atto sovversivo, la democrazia è malata. Molto malata.

L’episodio di Nunziati lo dimostra.

Le classifiche sulla libertà di stampa vedono l’Italia e altri Paesi europei in una posizione preoccupante, con crescenti pressioni da parte di attori politici ed economici che minano l’autonomia dei media.

Questa “deriva fascista”, nel suo significato più profondo di soppressione del dissenso e di imposizione di una verità di Stato, si nutre del silenzio.

Si alimenta della paura dei giornalisti di perdere il lavoro e della conseguente omertà che trasforma le conferenze stampa in rituali coreografati, dove le domande sono addomesticate e le risposte sono scritte in anticipo.

La storia di Gabriele Nunziati è un monito per tutti.

È la storia di un uomo che ha fatto semplicemente il suo mestiere, con coraggio e lucidità. Uno dei pochi ancora capaci di porre domande intelligenti, serie e nel momento opportuno.

La sua epurazione è una ferita inferta al diritto di ogni cittadino europeo di essere informato, di conoscere la verità al di là delle narrazioni ufficiali.

Difendere il diritto di un giornalista di porre qualsiasi domanda, per quanto scomoda, significa difendere l’ultimo argine che ci separa da un futuro in cui il potere non dovrà più rispondere a nessuno.

E quel futuro, per chiunque creda nella libertà, è semplicemente inaccettabile.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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