LA GRANDE ILLUSIONE EUROPEA, MENTRE TRUMP E PUTIN DECIDONO LE SORTI DEL PIANETA

C’è una nebbia densa che ammanta i cieli d’Europa, un senso di costrizione che impedisce di respirare l’aria limpida della realtà.

Mentre i leader europei e i nostri salotti televisivi si affannano a dipingere l’affresco di una battaglia epica tra il “democratico” Occidente e il dittatore di Mosca, tra un Trump isolazionista e un Putin espansionista, stanno perdendo la trama principale della realtà.

La stanno perdendo del tutto.

Perché non esiste alcuno scontro ideologico tra Trump e Putin. Esiste un contatto. Un’intesa profonda, non basata sull’amicizia, ma su qualcosa di molto più solido e spietato: la reciproca comprensione del potere. Una pace ideologica che sta ridisegnando il mondo sulla pelle degli altri.

IL TEATRO DELL’ASSURDO: POKROVSK E LA MATEMATICA DELLA PROPAGANDA

Prendiamo come esempio Pokrovsk. La linea del fronte. L’epicentro del dramma umano che chiamiamo “guerra in Ucraina”.

Un dramma che andrebbe fermato a ogni costo, mentre i l’Europa spinge per la guerra a oltranza, fino all’ultimo ucraino e poi chissà.

Il presidente Zelenskyy, con l’eroismo comunicativo che lo contraddistingue, parlava di 200 soldati russi infiltrati, quasi un fastidio, un problema sotto controllo. Una narrazione perfetta per le telecamere occidentali, per i finanziatori che necessitano di credere in una vittoria possibile.

Ma i fatti sono arrivati poche ore dopo a presentarci la realtà.

L’Institute for the Study of War (ISW), un think tank che non può certo essere accusato di simpatie filo-russe, ci ha sbattuto in faccia un’altra cifra: undicimila. 11.000 soldati russi concentrati su quel singolo settore. Non 200. Undicimila.

La differenza non può essere una svista e neppure un errore di calcolo. È un abisso. È il divario tra la propaganda necessaria a sostenere uno sforzo bellico e la realtà di una “sacca” militare che si sta chiudendo, inesorabilmente.

È la tragedia di soldati ucraini che muoiono mentre i loro leader devono, per necessità strategica, edulcorare la pillola amara al mondo che li sostiene e alle stesse famiglie ucraine, quelle che accompagnano i loro giovani alle stazioni al confine con la Polonia, perché scappino dalla follia della guerra.

In questo teatro, tra propaganda e realtà, Putin offre un cessate il fuoco di poche ore. Per permettere ai soldati accerchiati di arrendersi, certo. Ma soprattutto, offre un “corridoio mediatico”.

Invita i giornalisti occidentali a vedere la realtà. A documentare la disfatta che Kiev nega. È una mossa di comunicazione, non di pace.

Putin non sta offrendo una tregua, ma la prova della sua vittoria in Ucraina, sapendo che l’Occidente, aggrappato alla sua narrazione, non può accettare di guardare.

L’Ucraina, infatti, rifiuta. La definisce una “proposta disonesta”, mentre i leader europei parlano ancora di “pace giusta”, quella che nella storia non è mai esistita.

Certo quella di Putin è una proposta disonesta, ma è una disonestà che espone una debolezza che non si voleva ammettere.

Una disonestà che espone una disonestà più grande e che produce morti, perché sulla disonestà ucraini l’Occidente invia ancora armi, credendo in una vittoria possibile, ma mandando al macero gli ucraini e l’Ucraina.

IL RIFLESSO DAL VENEZUELA: QUANDO L’AGGRESSORE DIVENTA IL SALVATORE

Mentre la nebbia del Donbass accecano le capitali europee, la vera partita si gioca altrove. A migliaia di chilometri di distanza.

Sulle coste del Venezuela.

I media americani, dal Wall Street Journal al Miami Herald, parlano di un attacco imminente.

Nei Caraibi è stata schierata la più grande armata navale statunitense dai tempi della crisi dei missili di Cuba. Dai tempi in cui Kennedy pretese da Cuba ciò che Putin pretende dall’Ucraina.

Cacciatorpediniere, aerei da ricognizione, F-35, droni Reaper. Il pretesto ufficiale è la lotta ai cartelli della droga che, secondo Washington, avrebbe ramificazioni fino ai vertici del governo di Maduro.

Vi suona familiare?

Un paese sovrano, accusato di essere una minaccia (in questo caso, per la droga, in altri casi per l’espansionismo, per le armi chimiche), diventa il bersaglio di un’operazione militare preventiva.

Maduro, sentendo l’odore della polvere da sparo, fa quello che ogni leader nella sua posizione farebbe: chiama i suoi alleati. Chiama Putin. Chiama la Cina. Chiama l’Iran.

E qui, il quadro si completa.

Donald Trump, l’uomo che l’Europa dipinge come il burattino di Putin, smentisce categoricamente. Dice “no”. Nessun attacco.

E dice no perché un’operazione del genere, in questo momento, non rientra nel suo calcolo costi-benefici.

Ma il Pentagono, quell’entità che spesso agisce con una propria agenda, approva l’invio dei missili Tomahawk a lungo raggio all’Ucraina. Un’arma “game changer”, ci dicono.

Un’arma che, per inciso, richiede un addestramento e dei codici di lancio per cui il suo utilizzo necessita per forza di personale NATO che schiacci il bottone, fatto che darebbe a Mosca l’avallo giuridico per dichiarare di essere stata aggredita dalla NATO, con tutte le conseguenze atomiche del caso.

LA DOTTRINA TRUMP-PUTIN: UNA “PAX TRANSACTIONALIS” SULLA PELLE DEGLI ALTRI

Ma c’è qualcosa di più. Qualcosa che l’Europa non può, o non vuole, capire.

Continua a leggere la situazione con le lenti obsolete della Guerra Fredda, del conflitto ideologico.

E continua a raccontarla con la penna di chi ha raccontato supercazzole fin dall’inizio, dalle pale ottocentesche ai russi senza calzini che smontavano microchip, dai droni e gli sconfinamenti, all’attacco all’aereo di von der Leyen, che invece era a terra per un’avaria.

L’Europa non vede che Trump e Putin parlano la stessa lingua del realismo brutale, delle sfere d’influenza.

Per Trump, il mondo è un grande consiglio di amministrazione. L’Ucraina non è un “asset” strategico primario per gli Stati Uniti, ma un problema europeo che sta prosciugando le risorse americane.

Ecco perché ha accettato di lasciar fare agli europei, ma solo in cambio dell’acquisto di armi americane da inviare a Zelensky. Per abbattere le spese e portare a casa qualcosa.

Il Venezuela, invece, è nel suo “cortile di casa”. È una questione di sicurezza nazionale americana, una pedina nel suo emisfero. È ciò che l’Ucraina è per Putin.

La dottrina di Trump è semplice: ognuno si occupi dei propri problemi, a meno che non ci sia un accordo vantaggioso per l’America.

Per Putin, questo linguaggio è perfettamente comprensibile.

Egli considera l’Ucraina parte della sua irrinunciabile sfera di influenza. Riconosce, con la stessa logica spietata di Trump, che il Venezuela appartiene alla sfera d’influenza americana.

La chiamata di Maduro a Putin non è una richiesta di intervento militare diretto. È un segnale a Washington: “Se voi vi immischiate nel mio giardino, io potrei creare problemi nel vostro”.

L’intesa non è un’alleanza.

È un patto di non belligeranza tra due predatori alfa che si sono spartiti il territorio di caccia. Trump non vuole una guerra in Venezuela perché complicherebbe i suoi piani, ma riconosce implicitamente che quel territorio è “suo”. Putin non si sognerebbe mai di intervenire militarmente in Venezuela, ma usa la minaccia per garantirsi il via libera in Ucraina.

In sintesi, se Trump interviene in Ucraina, Putin lo fa in Venezuela. Se Putin interviene in Venezuela, Trump lo fa in Ucraina.

L’EUROPA E L’ILLUSIONE DEL CONFLITTO IDEOLOGICO

E l’Europa?

L’Europa è il bambino che guarda la partita di scacchi tra adulti e non capisce le mosse.

Continua a credere di essere un giocatore abile e apprezzato, quando in realtà è parte della scacchiera. Al più un pedone di poco conto, uno di quelli che si sacrificano subito dopo l’apertura.

I nostri leader, intrappolati in una retorica di “valori” e “democrazia”, non vedono che per Trump e Putin questi sono solo strumenti di marketing.

Se Trump desse l’ok ai Tomahawk in Ucraina, non sarebbe un atto di fede nella vittoria ucraina, ma un modo per indebolire ulteriormente la Russia, testare nuove armi e, come piacevole effetto collaterale, affossare l’economia europea, rendendola ancora più dipendente dagli USA.

La narrativa italiana, in particolare, è drammaticamente incastrata in un’altra dimensione. Si concentra sulla caricatura di Trump, sul timore di un suo disimpegno, senza capire che il suo “disimpegno” è in realtà un riposizionamento strategico che vede l’Europa come un concorrente economico da indebolire, non un alleato da difendere a tutti i costi.

Definire gli USA nostri alleati è idiota. E basta confrontare i costi energetici di oggi con quelli del 2021 perché lo capisca anche uno studente di Ragioneria.

Siamo costipati dalla nostra stessa propaganda. Non riusciamo a respirare, a vedere che mentre noi parliamo di principi, loro parlano di potere, di influenza, di soldi, di interessi.

Mentre noi finanziamo una guerra di logoramento con la speranza che la Russia crolli economicamente, un’illusione che ci costa 50 miliardi di dollari l’anno solo sul settore petrolifero russo, e che dopo quasi tre anni non si è ancora avverata, loro, Trump e Putin, hanno già stabilito le regole del gioco.

La partita, quindi non si gioca per stabilire chi vincerà in Ucraina, ma per vedere quale pezzo della scacchiera globale finirà nella sfera d’influenza di chi.

E, in questo gioco spietato, l’Europa, con la sua cecità strategica e con i suoi giornalisti-megafoni del potere, rischia di essere il premio più ambito.

L’Italia del rapimento Dozier non è solo uno spaccato storico del nostro Paese, ma l’evidenza di come alcune vicende ci sono state narrate in maniera distorta ed edulcorata.

Quello di Eva Ulian è un ricordo in prima persona dei fatti, vissuto dall’interno della base militare americana a Vicenza e a contatto con gli stessi rapitori delle Brigate Rosse.

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Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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