L’Europa sta costruendo la sua Eurasia del controllo, un blocco alla volta. E noi siamo i mattoni.
Il pensiero non è più libero.
Questa non è una profezia. Non è l’incipit di un romanzo distopico.
È una constatazione incontrovertibile, un referto autoptico sul cadavere ancora caldo di un’idea che credevamo immortale: la libertà d’espressione occidentale.
George Orwell non era un veggente, ma un acuto osservatore della natura umana e delle meccaniche del potere. Non ha predetto il futuro, ci ha fornito un manuale d’istruzioni.
E sembra che, a Bruxelles come a Londra e a Berlino, – per ora solo lì – qualcuno lo stia seguendo alla lettera. Con una meticolosità agghiacciante.
L’Eurasia di Orwell non era solo una massa continentale, era un’omologazione ideologica, un superstato mentale prima che geografico, definito dalla sua ostilità verso l’Oceania.
Oggi, mentre puntiamo il dito contro i nemici designati a Est, stiamo meticolosamente importando e perfezionando i loro più efficaci strumenti di controllo.
IL LABORATORIO BRITANNICO, DOVE AVERE UN’OPINIONE È REATO
L’Inghilterra, culla della Magna Carta, del liberalismo di John Stuart Mill, è oggi l’avanguardia di un esperimento sociale terrificante, semplice e brutale.
Se un tuo commento, un tuo post, persino un post condiviso, viene percepito come “offensivo” o capace di “turbare” un membro di una categoria protetta, puoi finire in carcere.
Non per diffamazione, non per un’incitazione diretta e comprovata alla violenza. No. Per aver turbato.
Il Parlamento Europeo e il Times parlano di oltre 30 arresti al giorno. Trenta. Al giorno.
Sono 11.000 all’anno. Undicimila.
Pensateci.
Non è più la sostanza oggettiva di un’affermazione a essere giudicata, ma l’impatto soggettivo che genera su un ascoltatore potenzialmente ipersensibile. È la vittoria della tirannia della vulnerabilità, un’arma potentissima nelle mani di chi vuole silenziare ogni voce fuori dal coro.
Si è creata una neolingua giuridica in cui “sicurezza” significa assenza di dissenso e “violenza” è una parola che non ci piace.
Questo non è progresso, ma un’involuzione deliberata verso uno stato di polizia del pensiero, dove l’autocensura diventa il primo, istintivo meccanismo di sopravvivenza sociale.
L’agente di polizia non è più solo per strada, ma è nella tua testa, rilegge le tue bozze, ti ferma il dito un istante prima di cliccare “invia”. Perché fanno in modo che tu viva nella paura.
LA GERMANIA E LA VERITÀ IN APPALTO
Se il modello britannico è la mazza, quello tedesco è lo stiletto. Più sottile, più elegante, forse ancora più letale.
La Corte d’Appello di Berlino ha emesso una sentenza che dovrebbe far tremare le vene ai polsi di ogni cittadino europeo. Ha sancito che una piattaforma privata come LinkedIn ha il diritto di rimuovere qualsiasi contenuto che contraddica le fonti “ufficiali”, come l’OMS o gli enti governativi. Senza obbligo di verificare che il contenuto dica il vero e sia supportato da fonti e fatti.
Rileggetelo.
Senza l’obbligo di verificare che il contenuto dica il vero e sia supportato da fonti e fatti.
La verità non è più un orizzonte da raggiungere tramite il dibattito, il confronto, la dialettica scientifica o filosofica, ma è diventata un prodotto confezionato, un dogma calato dall’alto da enti la cui infallibilità è data per decreto.
La piattaforma social non è più un’agorà, per quanto caotica, ma il terminale di un Ministero della Verità privatizzato in cui si può esprimere solo ciò che vuole chi comanda.
È un modo per silenziare le opposizioni e per controllare le masse.
È un’architettura di controllo straordinariamente efficiente, in cui lo Stato non si sporca le mani con la censura diretta, ma delega il lavoro sporco a entità private che, in nome della “sicurezza” e delle “linee guida della community”, diventano i gendarmi de facto del discorso pubblico, erodendo lo spazio del dibattito legittimo fino a farlo coincidere con il perimetro del dogma ufficiale.
Un professore universitario, un medico con decenni di esperienza, un premio Nobel possono essere silenziati da un algoritmo addestrato a riconoscere una sola verità, cioè quella governativa.
E se, per ora, queste censure naziste sono problemi solo degli inglesi e dei tedeschi, non dimentichiamoci che le medesime censure le abbiamo già vissute anche noi durante la pandemia, quando sono stati cancellati post di premi Nobel, docenti universitari di medicina e di virologia, perché non erano allineati al pensiero unico.
Perciò, c’è poco per stare tranquilli.
LO SPECCHIO CINESE: CENSURA DELLA COMPETENZA O DEL CONSENSO?
E se guardiamo alla Cina, l’involuzione dell’Europa è ancora più evidente.
La sua recente legge sugli influencer, pur essendo emanazione di un regime autoritario, introduce un principio che, al confronto con la deriva europea, appare quasi illuminista, perché non si vieta il contenuto contrario in sé, ma si vieta a chi non ha competenza di trattare argomenti complessi.
Vuoi parlare di medicina, diritto, ingegneria, finanza? Devi dimostrare di avere i titoli per farlo, una laurea o un master universitario.
L’Europa fa l’esatto opposto.
Da noi, un virologo di fama mondiale che esprime un dubbio sulle linee guida ufficiali viene bannato, cancellato, ridotto al silenzio. Un economista che critica le politiche della BCE viene etichettato come disinformatore.
Al tempo stesso, virologi che non ne hanno azzeccata mezza durante la pandemia possono tranquillamente pontificare in tv, senza contraddittorio, continuando a esprimere fake news smontate dal tempo e dai fatti.
In Cina si silenzia l’incompetente. In Europa si silenzia il dissenziente, anche e soprattutto se competente.
Quello applicato in Inghilterra e in Germania non è un sistema che protegge la “verità scientifica”, ma un sistema che protegge il “consenso del potere” e delle lobby, anche quando questo è palesemente antiscientifico o illogico.
Stiamo creando una società di cittadini a cui è permesso parlare di tutto, a patto che non abbiano le competenze per farlo davvero e che ripetano a pappagallo la versione ufficiale ottriata da chi comanda.
È la vittoria del dilettante conformista sull’esperto eretico.
LA GHIGLIOTTINA DIGITALE: DALLA CENSURA FINANZIARIA ALL’EURASIA
Ma la censura del pensiero è solo un lato della medaglia. Il vero potere, l’atto finale del controllo, è economico. La progressiva, inesorabile guerra al contante non è una semplice questione di modernizzazione o di lotta all’evasione, ma la costruzione dell’infrastruttura per la sottomissione totale.
I casi di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, o di Frédéric Baldan, sono il trailer del film che ci attende. Esprimi una posizione sgradita al potere? Ti vedi chiudere i conti correnti.
Un clic. Fine.
In una società completamente digitale, senza più contante, non potresti più comprare un pezzo di pane, un biglietto del treno, una bottiglia d’acqua. Non potresti neppure ingaggiare un avvocato per fare ricorso, non potendolo pagare.
Saresti un non-cittadino. Un fantasma digitale. La tua stessa esistenza biologica dipenderebbe dal tuo costante allineamento ideologico. È un ricatto perfetto, una ghigliottina invisibile pronta a calare su chiunque osi deviare.
Questa è la saldatura finale tra il modello di sorveglianza orwelliano e il capitalismo della sorveglianza. Non solo sanno cosa pensi, ma hanno il potere di spegnerti se ciò che pensi non è approvato. Per ora, solo con i social, poi con i soldi.
QUALE EUROPA? LA DOMANDA CHE NON POSSIAMO PIÙ IGNORARE
È questa l’Europa dei popoli sognata a Ventotene? Un’unione fondata sulla libertà che ora arresta i cittadini per un post e impone la verità del governo e di chi comanda delegandone la censura a multinazionali della tecnologia?
Un continente che si riempie la bocca di “diritti” mentre costruisce la più sofisticata gabbia che l’umanità abbia mai concepito?
Continuiamo a descrivere Russia e Cina come dittature illiberali, e non sono certamente delle democrazie, ma siamo così accecati dalla nostra presunta superiorità morale da non vedere che stiamo correndo nella stessa direzione, solo con una migliore campagna di marketing e un’interfaccia utente più amichevole.
L’Eurasia di Orwell non si formerà con trattati firmati in stanze piene di fumo, ai nostri giorni.
Si sta formando ora, nelle clausole dei termini di servizio che accettiamo senza leggere, nelle leggi approvate nel silenzio generale, nell’abitudine all’autocensura.
Forse l’Eurasia non è una destinazione geografica, ma uno stato della mente. La stanno costruendo giorno dopo giorno per noi.
E ci siamo già dentro.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.




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