GLI IRLANDESI AFFOSSANO LE POLITICHE DI VON DER LEYEN E DEI GUERRAFONDAI DI BRUXELLES

Non è stato solo un conteggio di voti quello di Dublino, ma un verdetto quasi plebiscitario contro l’Europa della guerra.

L’elezione di Catherine Connolly alla presidenza dell’Irlanda, con una valanga di preferenze che ha polverizzato la candidata dell’establishment e vicina alle politiche guerrafondaie dell’Europa, non è un’anomalia locale o un capriccio celtico, ma il sismografo che registra il terremoto che sta scuotendo le fondamenta del progetto europeo.

Un terremoto silenzioso, ignorato dai palazzi del potere, ma assordante nelle urne di qualunque nazione, dalla Romania alla Germania, alla Francia.

Ovunque si voti, chi vuole questa Europa del riarmo perde o vince a fatica.

Connolly, 68 anni, avvocatessa, pacifista, fortemente critica nei confronti della NATO e della “militarizzazione” dell’UE, non ha vinto per il suo carisma o per un’abile campagna social, ma perché è diventata il megafono di un sentimento represso, ma dilagante in tutto il continente.

Un sentimento semplice, quasi primordiale.

La gente non vuole la guerra. E non vuole pagare il prezzo della follia di questa Europa.

Ad ogni elezione, da Bratislava a Parigi, da Berlino a Dublino, gli europei stanno inviando lo stesso, disperato messaggio ai loro leader. Un messaggio che viene sistematicamente frainteso, minimizzato o etichettato come populismo dall’autocrazia al potere.

Ma ignorare questo segnale non è più solo negligenza politica, bensì un suicidio che rischia di polverizzare il progetto europeo.

UN “NO” CHE ATTRAVERSA L’EUROPA

La vittoria di Connolly è l’ultimo capitolo di una saga che si sta scrivendo in tutta Europa, lontano dai riflettori puntati sulla leadership di Bruxelles.

Guardiamo alla Slovacchia. Robert Fico ha vinto promettendo di non inviare “un solo proiettile” in Ucraina.

Non ha vinto perché gli slovacchi sono filorussi, ma perché, mentre l’inflazione erodeva i salari, i suoi cittadini non capivano perché le priorità fossero i carri armati e non i loro conti in banca.

Guardiamo alla Germania, il motore economico e ora anche militare del Continente.

Mentre il governo Scholz, guidato da un Partito Socialdemocratico che ha tradito la sua storica Ostpolitik, stanziava 100 miliardi di euro per il riarmo, guadagnavano consensi gli estremi puntando su pacifismo, fine delle sanzioni e diplomazia.

Merz ha vinto le ultime elezioni, ma il suo governo ha una maggioranza da cardiopalma e il suo governo può crollare a ogni alito di vento.

Gli estremismi in Germania stanno crescendo vertiginosamente perché parlano alla Germania profonda, quella che ricorda le rovine del 1945 e che non vede alcun beneficio nel trasformare l’Europa in una fortezza armata fino ai denti.

La gente ha freddo. Il pane costa di più. L’energia è un lusso. Ma gli oligarchi pensano alle armi e alle guerre.

Questa è la cruda realtà economica che fa da sfondo al grande teatro geopolitico.

L’autocrazia che governa l’Unione Europea, un’alleanza non eletta di burocrati della Commissione e leader nazionali che agiscono in un “consenso di Bruxelles” a porte chiuse, lontanissimo dal volere dei popoli, parla un linguaggio incomprensibile per gli europei.

Parla di “autonomia strategica”, “pilastro europeo della NATO”, “economia di guerra”.

Ma le famiglie europee parlano il linguaggio dei bilanci domestici, della spesa e della pace.

E in quel bilancio, i miliardi spesi per l’industria bellica sono miliardi sottratti a sanità, istruzione, pensioni e ambiente.

LA DISSONANZA COGNITIVA DI UN’ÉLITE SCOLLEGATA

In pratica, esiste una voragine semantica, un abisso narrativo, tra l’élite europea e i suoi popoli.

L’élite vede il mondo attraverso il prisma di un conflitto esistenziale tra democrazie e autocrazie, una narrazione importata direttamente da Washington per evitare il crollo dell’impero americano ai danni degli europei, che pagano gas e petrolio quattro volte di più e non possono più esportare in Russia.

I cittadini europei lo vedono attraverso le loro vite. Vedono un’inflazione alimentata dalle sanzioni, una crisi energetica auto-inflitta e una retorica marziale che evoca i peggiori fantasmi del Novecento.

Insomma, questa Europa ha fallito e le elezioni diventano l’unico strumento, per quanto imperfetto, per esprimere questa che non è opinione, ma un dato di fatto: gli europei non vogliono la politica di guerra.

Catherine Connolly è stata votata non solo per le sue posizioni pro-Palestina o per la sua critica agli Stati Uniti, ma perché dice ciò che milioni di persone pensano, ma che nessun leader intorno a von der Leyen e nessun giornalista del mainstream ha il coraggio di affermare, ovvero che la neutralità non è codardia, ma saggezza.

Che la diplomazia non è resa, ma forza.

Che investire nel benessere dei propri cittadini è la forma più alta di sicurezza nazionale.

E, diciamolo, che la guerra è l’unica salvezza di leader che non ne hanno azzeccata mezza negli ultimi quattro anni.

Il 13% di schede nulle in Irlanda, un record storico, è un altro urlo nel silenzio. È il grido di chi si sente senza rappresentanza, intrappolato tra un establishment bellicista in cui non si vuole identificare e alternative considerate impresentabili. È il sintomo più grave della crisi di legittimità che attanaglia l’Europa.

IL VERO MOTORE DEL PACIFISMO POPOLARE

L’Unione Europea sta deviando risorse colossali verso il settore della difesa in un momento di stagnazione economica e debito pubblico record.

La Banca Centrale Europea alza i tassi per combattere un’inflazione in gran parte causata da shock esterni (energia, catene di approvvigionamento) e da scellerate scelte politiche (sanzioni), strangolando le economie nazionali e le imprese europee.

Un suicidio.

Nel frattempo, la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, che agisce più come un ministro degli Esteri e della Difesa che come la custode dei trattati, promuove piani di riarmo che arricchiscono un ristretto complesso militare-industriale.

Non è un piano per la sicurezza europea, ma un massiccio trasferimento di ricchezza pubblica verso interessi privati, giustificato da una paura che viene scientificamente alimentata.

È una politica che dovrebbe essere discussa nelle aule dei tribunali poiché si tratta di alto tradimento e di un furto nei confronti dei popoli europei.

Gli agricoltori che bloccano le capitali con i loro trattori e gli elettori che scelgono candidati come Connolly sono due facce della stessa medaglia ed entrambi dicono che le priorità di von der Leyen, Macron, Merz & C. non sono le nostre.

Gli autocrati al potere stanno sacrificando il nostro presente per un futuro di conflitto che non abbiamo scelto e che non vogliamo.

UNA SCELTA ESISTENZIALE PER L’EUROPA

La vittoria di Catherine Connolly non è la fine della storia, ma l’ennesimo avvertimento.

L’Europa si trova a un bivio esistenziale, poiché può continuare a seguire la strada tracciata da un’élite tecnocratica e bellicista, ignorando il crescente ruggito del dissenso popolare.

In questo modo, però, non farà altro che alimentare le forze centrifughe che già minacciano di disintegrare l’Unione, spingendo masse di elettori verso gli estremi.

Oppure, può ascoltare.

Può capire che la vera forza dell’Europa è nel suo modello sociale, nella sua capacità di garantire pace e prosperità. Può riscoprire la sua vocazione originale: essere un progetto di pace, non l’avamposto di un conflitto per procura.

Le valanghe iniziano con un piccolo crepaccio e l’elezione irlandese è quel crepaccio nel monolite del consenso bellicista europeo.

Altri seguiranno.

Non si tratta di domandarsi se questa valanga silenziosa travolgerà l’attuale leadership, ma quando.

E se, dopo, resterà qualcosa del progetto europeo da salvare se gli scellerati leader si aggrapperanno ancora alla poltrona pur di non ammettere l’evidenza della loro incompetenza e del reale volere degli europei.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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