Per le strade lucide e congestionate di Shanghai e per i silenziosi porti di Anversa si aggirano degli spettri nati dal fragore delle gigafactory e alimentato da fiumi di denaro pubblico.
Parlano il linguaggio dell’innovazione, del progresso verde, del futuro a portata di mano. Eppure, sotto la loro pelle scintillante di vernice a zero emissioni, si nasconde il rantolo di un’economia drogata.
Sono le auto elettriche. E sono spettri perché quella della auto elettriche cinesi è una grande bolla a cui manca soltanto il boato.
Warren Buffett non è un giocatore d’azzardo. Le sue decisioni non sono scommesse, sono sentenze basate su una lettura quasi geologica degli andamenti economici.
Per quindici anni, il suo fondo Berkshire Hathaway ha tenuto in grembo BYD, cavalcando l’onda perfetta di un’ascesa che sembrava inarrestabile. Poi, senza una spiegazione, senza una conferenza stampa, ha iniziato a vendere. Non un po’. Tutto. Fino all’ultima, maledetta azione.
Un analista mediocre vede una presa di profitto. Un analista professionale vede il canarino nella miniera di carbone che smette di cantare.
Buffett non fugge dai guadagni, ma dai rischi strutturali, dalle crepe invisibili ai più, ma che precedono il crollo. Ha visto che la festa, finanziata da un generoso e onnipotente padrone di casa, stava per finire, lasciando solo una gigantesca sbornia industriale.
UN GIGANTE GONFIATO: SUSSIDI, FANTASMI E DEBITI
Per capire la crisi delle auto elettriche in Cina, bisogna dimenticare le regole del capitalismo classico. Perché non si tratta di un’industria nata dalla domanda, ma di un’arma geopolitica adottata da uno Stato.
Il piano “Made in China 2025” è stato il Big Bang. Pechino, nel disperato tentativo di affrancarsi dalla dipendenza energetica dal petrolio – le cui rotte marittime sono controllate dal suo principale avversario strategico, gli Stati Uniti – ha deciso di creare dal nulla un’egemonia globale nell’elettrico.
Per farlo, ha iniettato miliardi in sussidi, crediti d’imposta, terreni a basso costo. Un’orgia di denaro pubblico che ha dato vita a un mostro che divora l’Occidente, ma non solo quello.
Nel 2018, esistevano 500 produttori di veicoli elettrici in Cina. Cinquecento. Una foresta di aziende sorte per produrre beni per cui non esisteva una domanda e per intercettare i fondi statali.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una capacità produttiva doppia rispetto alla domanda effettiva. Un eccesso che ora, come uno tsunami, si sta riversando sui mercati, a partire dall’Europa.
Ma il marcio è all’interno.
La guerra dei prezzi è diventata così feroce da trasformarsi in una gara fratricida verso il baratro. Marchi costretti a vendere in perdita pur di sopravvivere, pur di raggiungere gli obiettivi di produzione imposti dall’alto. E quando i conti non tornano, si ricorre alla magia nera della contabilità.
Le “vendite fantasma” sono un trucco sempre più diffuso: le auto vengono registrate come vendute quando passano dalla fabbrica al concessionario, anche se poi restano a prendere polvere nei piazzali per mesi, per essere infine svendute come “a chilometro zero”.
Inoltre, le grandi case automobilistiche usano i loro fornitori come una banca personale, ritardando i pagamenti fino a 180 giorni e oltre. Stanno letteralmente spremendo la loro stessa catena di approvvigionamento per finanziare le operazioni correnti. Non è gestione finanziaria. È giocare a nascondino con la bancarotta.
LA FINE DELL’ELETTRICO E IL CONTAGIO GLOBALE
Secondo Jack Wey, CEO di Great Wall Motors, uno dei colossi cinesi, la partita è finita e l’elettrico ha perso.
È una confessione.
Un’ammissione che il modello è insostenibile. La crisi del gigante immobiliare Evergrande, un’altra creatura del debito e dell’ambizione statale, è rimasta in gran parte confinata entro i confini cinesi. Il suo fallimento ha travolto i risparmiatori locali, anche se l’onda d’urto globale è stata contenuta.
Con l’auto elettrica sarà diverso.
L’inondazione di auto elettriche cinesi a basso costo in Europa è frutto di una strategia di sopravvivenza di un’industria che sta soffocando nella sua stessa sovrapproduzione. Devono liberarsi delle scorte, a qualsiasi costo.
I dazi imposti dall’Unione Europea, che vanno dal 17% al 38%, sono un tentativo di arginare l’onda, ma potrebbero non bastare. Per il consumatore europeo, il vantaggio a breve termine è evidente: auto tecnologicamente avanzate a prezzi stracciati.
Ma qual è il rischio a lungo termine?
Acquistare un’auto da un marchio che, tra tre o cinque anni, potrebbe non esistere più, lasciando i proprietari senza assistenza, senza ricambi, senza valore di rivendita. Insomma, auto il cui valore è pari a zero.
Stiamo assistendo a una deflazione esportata. La Cina, per risolvere i suoi problemi interni di eccesso di offerta, sta deprimendo i prezzi a livello globale, mettendo in crisi i produttori storici europei e americani, che non possono competere con un sistema drogato dai sussidi statali.
IL VERO PREZZO DI UNA RIVOLUZIONE ELETTRICA
L’economia pianificata dell’Unione Sovietica produceva trattori che arrugginivano nei campi perché gli obiettivi erano numerici, non guidati dalla domanda reale. Un sistema che non stava in piedi allora e non regge nemmeno oggi.
Ma, proprio oggi, la Cina sta commettendo un errore simile su una scala infinitamente più grande e tecnologicamente avanzata.
Il collasso non sarà un singolo evento catastrofico come il crollo di Lehman Brothers, ma una lenta, dolorosa agonia. Un consolidamento brutale che vedrà la scomparsa di decine, forse centinaia di marchi. Pechino interverrà, salverà i suoi “campioni nazionali” come BYD, ma non potrà salvare tutti. Il processo sarà lungo e lascerà cicatrici profonde.
Ciò che stiamo osservando non è solo la crisi di un settore industriale, ma la crisi di un modello di sviluppo. Un modello che ha anteposto l’ambizione geopolitica alle regole basilari dell’economia, la quantità alla qualità, l’apparenza alla sostanza.
La marea dei sussidi si sta ritirando e, come dice Buffett, stiamo per scoprire chi sarà il primo a morire.
Una volta che i marchi cinesi saranno nel cassetto dei ricordi, il settore dell’elettrico diventerà uno zero virgola nei numeri delle vendite, che, anche in Europa, è trainato fortemente dalle vetture cinesi a basso costo.
Senza quelle vendite, la percentuale di auto elettriche vendute crollerà e scriverà la parola fine su questa tipologia di auto per parecchio tempo.
L’elettrico, insomma, non è stata soltanto una scommessa azzardata e forzata dalle politiche scellerate dell’Europa, che hanno tentato di imporre un prodotto nuovo e diverso dopo anni di marketing orientato a creare status su un prodotto opposto, ma anche dalla strategia produttiva cinese, ancor più fallimentare nel lungo periodo.
A rimetterci, decine di migliaia di lavoratori europei e centinaia di fabbriche dell’automotive messi in ginocchio da un azzardo.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.



