La prima vittima della guerra è la verità. È un adagio inflazionato, quasi banale nella sua ripetitività.
Ma la verità non viene semplicemente uccisa, bensì clonata, sfigurata e schierata in battaglia come un esercito di fantasmi. Oggi la nebbia della guerra non è fatta solo di fumo e polvere da sparo, ma di un’incessante foschia informativa, un’architettura della percezione costruita con perizia non soltanto per “manovrare” le nostre opinioni, ma le nostre stesse fondamenta morali. I nostri stessi valori.
Stiamo combattendo una guerra per procura che è soprattutto emotiva, dove il campo di battaglia è la nostra mente.
L’errore fondamentale è credere che questo sia un gioco a due. Beh, non lo è.
IL TEATRO DELLE FAKE NEWS: UN PALCOSCENICO A SENSO UNICO
Analizziamo il copione. È semplice, quasi rassicurante nella sua prevedibilità.
Da un lato del palcoscenico, abbiamo il “Cattivo”: la Russia.
Le sue affermazioni vengono etichettate, inscatolate e vendute come “fake news”. Sempre e comunque.
Un esempio da manuale è la notizia, attribuita a fonti russe, secondo cui il presidente Zelenskyy trasferirebbe 50 milioni di dollari al mese in un conto saudita.
È una storia grossolana, facilmente smontabile, una caricatura della disinformazione che serve a rafforzare la nostra convinzione secondo la quale loro mentono. È un’operazione che ci rassicura. Ci conferma nel nostro ruolo di spettatori illuminati.
Dall’altro lato del palco, c’è l'”Eroe”: l’Ucraina, sostenuta dall’Occidente, cioè noi, i buoni, sempre e comunque.
Le sue narrazioni, per quanto straordinarie, vengono accolte con un’accondiscendenza quasi reverenziale.
Kiev annuncia di aver eliminato 1.240 soldati russi in un solo giorno. Il numero è vertiginoso, quasi inconcepibile in termini umani, ma viene assorbito nel flusso mediatico senza il minimo scetticismo critico.
Non è “fake news”, in questo caso, ma un bollettino di guerra. Dimentichiamo per un istante le famiglie dietro quei numeri, la logistica di una simile ecatombe.
La cifra non serve a informare, ma a costruire l’immagine di un nemico fragile, sull’orlo del collasso, e di un eroe che resiste con una forza sovrumana.
Questo non è giornalismo, ma la costruzione di un mito funzionale allo sforzo bellico. E noi, consumatori di notizie, diventiamo involontariamente custodi e, al tempo stesso carburante, di quel mito.
IL MERCENARIO CUBANO E L’EMBARGO: QUANDO LA NOTIZIA SERVE L’AGENDA
Qui la faccenda si fa più sottile, e infinitamente più interessante. Spunta una notizia, veicolata da una testata tedesca che cita l’intelligence ucraina, di 25.000 soldati cubani in procinto di combattere per la Russia. Non bastavano i nordcoreani.
Una cifra enorme, un potenziale sconquasso sul campo. Ma la vera storia non è nel numero. La vera storia è nella sua funzione.
Quasi simultaneamente, apprendiamo che questa stessa informazione viene utilizzata dal Dipartimento di Stato americano come argomento per opporsi a una risoluzione ONU che chiede la fine dell’embargo contro Cuba.
Ma dai, che coincidenza!
L’argomentazione è chiara: come possiamo allentare la presa su un regime che sostiene attivamente lo sforzo bellico del nostro avversario?
La notizia, assolutamente non verificata, diventa tuttavia strumento e l’informazione si fa leva politica.
Non importa più se i 25.000 cubani siano una stima realistica, un’esagerazione strategica o una completa invenzione. Ciò che conta è la sua utilità geopolitica.
Smascherare questa notizia non significa assolvere la Russia o Cuba, ma esporre il meccanismo per cui un’affermazione, indipendentemente dalla sua veridicità, viene immessa nel sistema informativo per raggiungere un obiettivo politico ed economico preesistente.
È un’operazione di ingegneria narrativa che collega direttamente il campo di battaglia ucraino alle complesse dinamiche delle sanzioni internazionali, un filo invisibile che unisce un soldato a Donetsk con un diplomatico a New York.
IL SUPERMERCATO DI DONETSK E LA MORALE A GEOMETRIA VARIABILE
La guerra della percezione raggiunge il suo apice quando si parla di vittime.
Un missile russo su un condominio a Kiev è, giustamente, un crimine di guerra. Un’atrocità. Un atto barbaro. Ma quando un drone ucraino, come riportato da blogger filo-ucraini e ripreso da fonti occidentali, incendia un supermercato a Donetsk, in territorio occupato, è un atto di guerra. Non è un crimine. Perché Mosca è cattiva e ha aggredito. Kiev si difende.
E al diavolo la storia degli ultimi trent’anni. Perché la narrazione della nostra propaganda dice che la guerra è cominciata nel 2022 e noi siamo i buoni, perciò è così.
Perciò il drone sul supermercato viene presentato come un successo.
In questa narrazione, non ci sono civili. Non c’è la cassiera, il padre di famiglia che fa la spesa, il ragazzo che sistema gli scaffali.
L’edificio, un semplice supermercato, diventa un obiettivo militare de-umanizzato. L’atto stesso, identico nella sua essenza a quello compiuto dalla parte avversa, viene trasmutato da “crimine” a “operazione tattica”.
Nessuna menzione delle potenziali vittime civili, nessuna indignazione. Solo un silenzio assordante.
Questo è il doppio standard nella sua forma più pura e letale. È una licenza morale che concediamo a una parte e neghiamo all’altra, basandoci non sui fatti, ma sulla nostra affiliazione emotiva e politica.
La geografia della compassione viene ridisegnata dai confini del fronte. Le vite da una parte della linea hanno un peso, quelle dall’altra diventano un danno collaterale accettabile, se non addirittura un motivo di vanto per i “successi” militari. Perché gli altri sono aggressori.
OLTRE LA PROPAGANDA: L’EROSIONE DELLA FIDUCIA E IL COSTO DELLA VERITÀ PARZIALE
“Fare la guerra alle fake news russe” è uno slogan seducente, ma pericolosamente incompleto, poiché implica che la verità sia un territorio occupato da un solo nemico. La realtà è che il campo della verità è stato minato da tutte le parti in conflitto.
Ogni notizia, ogni bollettino, ogni smentita non richiesta diventa un’arma.
Il costo finale di questa guerra narrativa non è la vittoria di una propaganda sull’altra, ma l’erosione totale della fiducia. La fiducia nei media, nei governi, nelle istituzioni. Quando ogni informazione deve essere decodificata per capire quale agenda politica stia servendo, il cittadino smette di essere un soggetto informato e diventa un analista perennemente sospettoso, perso in un labirinto di specchi.
La nostra capacità di discernere il vero dal falso si atrofizza. E in questo vuoto, prosperano l’estremismo, il cinismo e l’apatia.
La vera sfida, dunque, non è scegliere quale propaganda consumare, ma riconoscere la propaganda in ogni sua forma, anche e soprattutto quando lusinga le nostre convinzioni. Significa applicare lo stesso rigoroso scetticismo a un comunicato del Cremlino e a un report di un think tank atlantista. Significa chiedere prove, contestualizzare le notizie, interrogarsi sulla loro funzione prima ancora che sul loro contenuto.
Perché nel silenzio della verità, il rumore più assordante è quello delle nostre certezze che si frantumano. E forse, solo da quelle macerie possiamo iniziare a ricostruire un’informazione degna di questo nome e la propaganda dell’aggressore e dell’aggredito che non tiene conto della storia e dei fatti.
