LA NARRAZIONE DEL 7 OTTOBRE CHE SI SGRETOLA DI FRONTE ALLE DOMANDE

Analisi critica di un evento che ha scosso il Medio Oriente e ha dato il pretesto a Israele per una rappresaglia che si è trasformata nei più efferati crimini di questo primo quarto di secolo.

Il 7 ottobre 2023 è una data cruciale, usata come ultima difesa per mesi dalla propaganda anti palestinese, ma citato sempre con più timidezza via via che l’esercito di Tel Aviv si è macchiato di crimini indifendibili.

Un punto di non ritorno.

La narrazione dominante, quella di un Israele colto di sorpresa da un attacco brutale e indiscriminato di Hamas, ha giustificato una delle più feroci risposte militari del XXI secolo, sfociata poi nel genocidio certificato anche dall’ONU.

Ma questa narrazione mostra crepe profonde.

Giornalisti, analisti e persino fonti interne israeliane sollevano interrogativi scomodi, trasformando una storia in bianco e nero in un intricato mosaico di grigi e di misteri inquietanti.

IL GRANDE FALLIMENTO DELL’INTELLIGENCE CHE NON REGGE AI FATTI

La prima e più devastante incongruenza riguarda il sistema di intelligence israeliano, considerato tra i migliori al mondo.

Capace di effettuare omicidi mirati in paesi sovrani di persone iper-protette con mezzi sofisticati e piani diabolici.

Fonti multiple, inclusi rapporti interni dello Shin Bet e analisi dell’Osservatorio Strategico, confermano una realtà ben diversa dalla narrazione veicolata dalla stampa di casa nostra: i segnali di un attacco in grande stile c’erano tutti, altro che attacco a sorpresa.

Hamas non ha agito nell’ombra assoluta, ma ha pianificato un’operazione militare di una complessità inedita, l’”Operazione Alluvione Al-Aqsa”, basata su un principio di sorpresa sia strategica che dottrinale, ma che era un po’ il segreto di Pulcinella.

Lo sapevano tutti a parte, a quanto pare, l’intelligence migliore al mondo, o uno dei migliori.

L’attacco è stato portato da più aree: terrestre, aerea, marittima e cibernetica, perciò è stata necessaria una pianificazione che è impossibile sia riuscita a sfuggire agli apparati dell’intelligence israeliana.

Delle due una: o l’intelligence israeliana è stata sopravvalutata dalla propaganda occidentale – ma stride con le azioni compiute all’estero in questi anni dal Mossad – oppure Hamas ha messo in piedi una sofisticata organizzazione segreta tra le migliori al mondo, cosa ancor meno credibile.

Circa duecento forze speciali hanno disattivato con precisione chirurgica il famigerato “muro di ferro”, neutralizzando telecamere, sensori e torri di comunicazione.

Sta di fatto che Israele non è stato semplicemente colto di sorpresa, ma superato nella sua arena principale, quella tecnologica e informativa.

E, se non si tratta di un atto pianificato o “fatto accadere” dallo stesso Israele, questo non è un dettaglio, ma il motivo di un fallimento sistemico che la narrazione ufficiale ha tutto l’interesse a minimizzare, spostando l’attenzione esclusivamente sulla “barbarie” dell’avversario.

IL BILANCIO DELLE VITTIME: UN CONTO SOMMERSO DAL FUOCO AMICO?

Il numero di 1.200 morti israeliani è diventato un mantra, un dato sacrale che non ammette repliche.

Eppure, analisi critiche come quelle di Roberto Iannuzzi nel suo “Il 7 ottobre tra verità e propaganda” invitano a una riflessione più cauta.

Infatti, esiste una zona d’ombra significativa su come queste persone siano morte. Prove e ricostruzioni suggeriscono che una parte non quantificata, ma potenzialmente consistente, delle vittime israeliane potrebbe essere caduta sotto il cosiddetto “fuoco amico”.

I combattimenti urbani, d’altronde, sono sempre caotici.

I carri armati israeliani e gli elicotteri d’attacco Apache intervenuti per contrastare i miliziani hanno operato in un teatro denso di civili israeliani.

È perciò plausibile, come avviene in ogni guerra asimmetrica, che una parte della devastazione sia stata inflitta dalla reazione, sproporzionata e caotica, dello stesso Israele. E non tenerne conto inficia ogni valutazione.

Ovviamente, tale evidenza non assolve Hamas dalle sue responsabilità, ma complica enormemente il racconto di un male unidirezionale.

Il rifiuto ostinato di Tel Aviv a permettere indagini forensi internazionali indipendenti sui corpi delle vittime non fa che alimentare questi legittimi sospetti, trasformando la narrazione ufficiale sul 7 ottobre in un possibile strumento di propaganda.

Se Israele non avesse nulla da nascondere, non avrebbe alcun problema nei riguardi di indagini indipendenti e, anzi, le avrebbe caldeggiate.

LA MACCHINA DELLA PROPAGANDA: ATROCITÀ, DECAPITAZIONI E LA BANALITÀ DEL FANGO INFORMATIVO

Le accuse di decapitazioni di bambini, stupri di massa e mutilazioni sistematiche hanno scosso l’opinione pubblica mondiale, fornendo la giustificazione morale immediata per la “risposta schiacciante” su Gaza.

Ma le prove di questi crimini non esistono o sarebbero poco credibili in aula di tribunale.

Fonti giornalistiche indipendenti, tra cui l’Internazionale e il magazine israeliano +972, hanno messo in luce come molte di queste accuse siano state diffuse senza verifica, basate su testimonianze di terza mano e poi ritrattate persino da alcuni funzionari israeliani.

Insomma, molto probabilmente, si tratta di fake news.

Questo non significa che non ci siano state atrocità. Significa che la loro dimensione e la loro natura potrebbero essere state ingigantite in un preciso contesto di costruzione del consenso e di propaganda.

La propaganda di guerra, si sa, è il primo colpo che si spara. E in questa guerra, la disinformazione è stata un’arma letale quanto i razzi.

Video manipolati, deepfake generati da intelligenza artificiale e narrazioni contrapposte hanno creato una cortina di fumo impenetrabile, dove la verità dei fatti è la prima vittima.

Entrambe le parti hanno imbrattato il campo, ma il megafono dell’establishment mediatico occidentale ha amplificato, spesso acriticamente, soprattutto la voce di Israele.

IL CONTESTO GEOPOLITICO: UNA NARRAZIONE COMODA PER UNA STRATEGIA PRECOSTITUITA

Infine, dobbiamo chiederci: a chi giova questa narrazione, perché l’analisi non può fermarsi alla cronaca.

Deve scavare nella geopolítica.

La versione del “7 ottobre come Pearl Harbor o l’11 settembre d’Israele” ha fornito a Benjamin Netanyahu e al suo governo di estrema destra la licenza di procedere con una pulizia etnica e militare di Gaza che era già nei cassetti da decenni. Lo stesso Netanyahu l’aveva paventata più volte.

Ha rinsaldato un’alleanza politica traballante, ha deviato l’attenzione dalle profonde crisi interne israeliane e dai guai giudiziari di Netanyahu, giustificando di fronte ai partner occidentali un livello di violenza che altrimenti sarebbe stato inaccettabile.

La narrazione ufficiale non è solo un racconto dei fatti, ma un potente strumento di propaganda politica per tenere buone le masse.

Smontarne i pezzi di questa narrazione propagandistica non significa solo fare luce su una verità storica più complessa, ma anche opporsi alla logica spietata che trasforma migliaia di vite civili, israeliane e soprattutto palestinesi, in mere pedine di un grande gioco di potere o, al più, in danni collaterali.

La ricerca della verità sul 7 ottobre non è un esercizio di relativismo morale, ma un dovere morale, un atto di resistenza civile e intellettuale per chiunque preferisca analizzare con pensiero critico i fatti della storia, senza scivolare in superficiali analisi acritiche o nel tifo da bar.

È la difesa del diritto a dubitare, a investigare, a non accettare passivamente le versioni che i potenti ci impongono. In quelle ore di caos e sangue è morta anche la trasparenza. E forse, riportare alla luce i fatti, in tutta la loro scomoda complessità, è l’unico vero tributo che possiamo pagare a tutte le vittime, senza bandiere.

Perciò, per comprendere cosa sia accaduto davvero il 7 ottobre, è necessario domandarsi chi ha tratto maggior beneficio da quei tragici fatti.

Non certo Gaza, come era prevedibile ben prima del 7 ottobre.

Quindi, escludendo l’ipotesi che Hamas non potesse immaginare una rappresaglia violenta di Israele, e non volendo credere che l’intelligence israeliana si sia fatta mettere in scacco da quattro disperati come mai nessuno al mondo era riuscito in precedenza, resta un’altra ipotesi.

Un’ipotesi per cui, quel 7 ottobre serviva ad altro.

A mettere le mani sul gas, per esempio, come raccontiamo nel primo articolo proposto sotto “La Striscia di Gas”.

Pertanto, certamente il 7 ottobre 2023 ha avuto luogo un attacco terroristico atroce, drammatico e che va condannato senza se e senza ma. Tuttavia, in primo luogo non è possibile cancellare decenni di occupazione illegale, per il Diritto internazionale, che hanno generato profondo odio nei confronti di Israele.

Ancora di più, è necessaria un’indagine internazionale e indipendente che faccia luce sui veri mandanti di quel 7 ottobre e su tutte le sfaccettature di un’azione di guerra pianificata nei minimi dettagli, troppo perfetta per essere opera di Hamas o di qualche altra frangia terroristica, se non coadiuvata da organizzazioni ben più equipaggiate e addestrate.

Dott. Pasquale Di Matteo

Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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