ALLA CASA BIANCA, UN PIANO “PRENDERE O LASCIARE” PER GAZA CHE ESCLUDE HAMAS E L’AUTORITÀ PALESTINESE.
Donald Trump e Benjamin Netanyahu, due mostri della politica populista e legati da un’alleanza che ha ridisegnano le mappe del Medio Oriente, si sono presentati davanti al mondo come architetti di un destino già scritto. Hanno parlato di pace. Hanno sorriso per le telecamere.
Ma il documento che hanno presentato non è un invito. È un ultimatum.
È l’impero che impone il proprio editto. Un imperatore che cambia idea dalla sera alla mattina e un ricercato internazionale su cui pende la richiesta d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Due persone di cui andare fieri, insomma.
Il loro è un piano in 20 punti per porre fine alla guerra di Gaza, durata quasi due anni. Una guerra in cui uno dei due ha massacrato decine di migliaia di persone innocenti, tra cui tantissimi bambini, e l’altro gli ha più volte offerto aiuto.
Se Hamas accetta, la guerra finisce. Se rifiuta, Israele “finirà il lavoro da solo”, ha scandito Netanyahu, con una freddezza che non ammetteva repliche. Tipica dei più efferati dittatori e carnefici della storia.
E Trump, al suo fianco, gli ha offerto la benedizione della più grande potenza mondiale, quella perennemente in guerra con qualcuno da un secolo.
“Bibi, avrai il nostro pieno appoggio per fare ciò che devi fare.” La via facile, o la via difficile. Per la gente di Gaza, entrambe le strade iniziano nello stesso luogo di polvere e paura.
ANATOMIA DI UN ACCORDO: 72 ORE PER DECIDERE IL FUTURO
Questo piano è un meccanismo a orologeria. Preciso, spietato, concepito per forzare una scelta definitiva entro 72 ore. Non c’è spazio per l’ambiguità né per politici veri ed equilibrati. Non c’è spazio per la diplomazia. Non c’è neppure l’ombra di una parvenza di democrazia.
Con un cessate il fuoco immediato, le forze israeliane si ritireranno su linee prestabilite, creando una zona cuscinetto temporanea in attesa di un segnale. Quel segnale è la vita degli ostaggi.
In cambio, Hamas deve liberare tutti i prigionieri rimasti vivi. Le stime parlano di 48 persone, di cui forse solo 20 ancora vive, un numero che ricalca la tragedia dei mesi di prigionia. In cambio, Israele rilascerà circa 2000 palestinesi detenuti dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. Un baratto di anime, quantificato e messo su carta.
LA NUOVA GAZA.
Il piano prevede che Hamas venga cancellata. Così come l’Autorità Palestinese, giudicata troppo debole, troppo corrotta.
Al loro posto, un governo di “tecnocrati” palestinesi senza volto, supervisionato da un’entità quasi imperiale: il “Board of Peace”, un comitato internazionale presieduto da Donald Trump in persona. L’imperatore, appunto. L’amico del criminale di guerra ricercato.
A fungere da galoppino di Trump dovrebbe essere l’ex premier britannico Tony Blair, un fantasma delle guerre passate del Medio Oriente, già convinto con la balla delle armi chimiche di Saddam, e ora designato per dirigere l’autorità transitoria sul campo, la GITA, con un budget iniziale di 90 milioni di dollari.
Il piano garantisce che “nessuno sarà costretto a lasciare Gaza” e che Israele non la occuperà. Ma la promessa più grande, quella di uno stato palestinese, rimane avvolta nella nebbia.
Si parla di un “percorso credibile” verso l’autodeterminazione, un linguaggio annacquato su richiesta di Netanyahu, abbastanza vago da non significare nulla.
DIETRO LE QUINTE: IL PREZZO DELLA PACE
Questo accordo non è nato nel candore dello Studio Ovale, ma in notti di trattative febbrili a New York, lontano dalle telecamere, con il genero di Trump, Jared Kushner, a tessere la tela.
La versione finale è un mosaico di concessioni a Israele e pressioni ai palestinesi. Come gli imperi fanno da sempre con amici e sudditi.
La più straordinaria è avvenuta tramite una linea telefonica sicura. Benjamin Netanyahu, l’uomo che ha fatto della durezza la sua firma politica, si è scusato con il primo ministro del Qatar.
Le sue parole erano di rammarico per l’attacco israeliano su Doha che aveva preso di mira i leader di Hamas, uccidendo una guardia di sicurezza qatariota proprio mentre i negoziati per il cessate il fuoco erano in corso.
Un gesto umiliante, il prezzo da pagare per tenere a bordo Doha, mediatore indispensabile. Mamma mia, quanto spessore umano il ricercato, eh!?
Ma altri alleati cruciali restano scettici. L’Arabia Saudita e l’Egitto osservano da lontano, preoccupati sia da Israele sia dagli USA.
Vogliono un percorso chiaro verso la soluzione a due stati, non una vaga promessa di chi ha disatteso un’ottantina di risoluzioni ONU.
Vogliono un ruolo per l’Autorità Palestinese, non un comitato presieduto da un presidente americano. Senza di loro, e senza i loro petrodollari, chi pagherà per ricostruire Gaza dalle sue ceneri?
IL BIVIO DI HAMAS: RESA O MARTIRIO?
Per Hamas, il piano di Trump non è un’offerta di pace, ma una richiesta di capitolazione. Almeno così sarebbe letta dagli europei se al posto di Gaza ci fosse Kiev e al posto di Israele la Russia.
Il disarmo totale, lo smantellamento dei tunnel, la rinuncia a ogni forma di potere.
È la cancellazione politica e militare. In cambio, ai suoi membri viene offerta un’amnistia individuale se accettano la “coesistenza pacifica”, o un passaggio sicuro per lasciare Gaza per sempre. Un tentativo di spezzare l’organizzazione dall’interno, separando i leader dai combattenti.
La risposta ufficiosa, filtrata attraverso canali non ufficiali, è già arrivata. Hamas non è disposta a disarmarsi.
Per i suoi leader, deporre le armi significa diventare irrilevanti, tradire la causa per cui hanno combattuto e perso migliaia di uomini. Rifiutare l’accordo, però, significa dare a Netanyahu la giustificazione che cerca per l’assalto finale.
È una scelta tra il suicidio politico e l’annientamento fisico. Un bivio terribile, dove ogni strada porta alla fine di qualcosa. E ciò dimostra come si tratti di un piano creato ad arte per dare a Netanyahu una sorta di giustificazione a commettere ulteriori stragi.
VOCI DAL BARATRO: LO SCETTICISMO DI GAZA
Mentre i leader parlano di governance e fondi internazionali, a Gaza la gente ascolta un altro suono. Il ronzio dei droni, le esplosioni lontane che non si fermano mai del tutto.
Per loro, un “Board of Peace” presieduto da Trump suona come un altro nome per l’occupazione. Una forza di stabilizzazione straniera, un’altra uniforme da cui guardarsi. Altri guardiani di una prigione a cielo aperto.
“Vogliamo che la guerra finisca. Vogliamo che i nostri figli possano dormire la notte,” dice un medico da Khan Yunis, la sua voce stanca attraverso una linea telefonica intermittente.
“Vogliamo che i nostri prigionieri tornino a casa. Vogliamo poter ricostruire le nostre vite senza la paura che tutto ricominci tra un anno.”
Lo scetticismo è profondo come i crateri delle bombe. Il piano, visto da qui, sembra un progetto disegnato da uomini lontani per scopi lontani, che ignora la richiesta più semplice e più umana: la dignità. La possibilità di decidere del proprio destino.
LA SCOMMESSA DI 72 ORE
L’orologio ha iniziato a ticchettare. Per Donald Trump, questa è una scommessa sul suo lascito, un tentativo di completare gli Accordi di Abramo e di presentarsi come il grande pacificatore.
Con un piano orchestrato a favore di un criminale suona un po’ macabra barzelletta, ma tant’è.
Per Benjamin Netanyahu è la legittimazione internazionale che ha sempre cercato per raggiungere i suoi obiettivi di guerra, spacciando per “accordi” quelli che per la più alta Corte di Giustizia internazionale e per la stessa ONU sono crimini di guerra.
Ma le domande che contano restano sospese sull’orizzonte fumoso di Gaza. Un’organizzazione votata alla lotta armata accetterà di scomparire in cambio della sopravvivenza fisica dei suoi membri?
Gli stati arabi finanzieranno una pace che non include le loro richieste fondamentali? E, soprattutto, un piano che esclude quasi completamente i palestinesi dalla definizione del loro futuro può davvero portare a una pace duratura?
O è solo il tentativo di dare un volto più diplomatico all’atto finale e più sanguinoso di questa guerra infinita?
Per il mondo sono 72 ore di diplomazia. Per la gente di Gaza, sono 72 ore che separano una pace incerta da una guerra certa.
Per la verità, sono crimini di guerra che trovano un altro nome solo perché i carnefici sono amici di chi comanda.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.



