Mentre un ronzio fantasma tiene in ostaggio i cieli d’Europa per droni che non si sa ancora da dove arrivino, ma costringono la Danimarca a sigillare il suo spazio aereo, e mentre il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, dispensa rassicurazioni affannose – “gli italiani possono stare tranquilli, non credo che Putin voglia attaccare l’Italia” –, la guerra in Ucraina sta subendo una metamorfosi silenziosa, ma sempre più orwelliana.
Non si combatte più solo nelle trincee del Donbas che mandano al macero intere generazioni ucraine o sotto le bombe che martoriano Kiev, ma è diventata una guerra sottile e ambigua, una guerra di specchi, su tre fronti paralleli.
L’escalation militare autorizzata nell’ombra, la guerra psicologica sui nervi del continente europeo e una torbida partita di ingerenze dove l’Occidente, che si erge a giudice buono, infallibile e integerrimo, viene scoperto a usare le stesse carte del suo avversario.
La crepa più profonda si è aperta su Fox News, lontano dai palazzi di Bruxelles, dove, con una franchezza disarmante, Keith Kellogg, inviato speciale di Donald Trump per l’Ucraina, ha sganciato una bomba politica: il tycoon avrebbe dato, già da qualche settimana, il via libera a Kiev per colpire obiettivi a lungo raggio all’interno della Federazione Russa.
Una linea rossa che persino l’amministrazione di Biden ha esitato a superare.
La rivelazione di Kellogg è ancora più dirompente nella sua sfumatura: “Trump ha autorizzato, ma a volte il Pentagono non ha dato all’Ucraina l’autorità di eseguirli”. Una sorta di “ok, amico, ti faccio contento e ti dico che puoi farlo, ma solo quando ti diremo che potrai farlo.”
Se non si tratta di un modo per raggirare Zelensky, allora siamo di fronte allo spettro di una spaccatura all’interno dell’apparato di potere americano: una volontà politica radicale frenata, a tratti, da una cautela militare. Cosa che, nella storia, è sempre stata al contrario.
È l’eco di una filosofia che si fa strada nel campo repubblicano, incarnata da figure come JD Vance e Marco Rubio, per cui non esistono “luoghi sacri”.
La risposta del presidente Volodymyr Zelensky non si è fatta attendere.
La sua richiesta di missili Tomahawk, sistemi d’arma di eccezionale profondità offensiva, non è più un appello disperato, ma la logica conseguenza di una porta che, a Washington, si sta visibilmente socchiudendo. La guerra senza ripari, prima un tabù, è ora un’opzione sul tavolo.
Ma mentre l’Occidente contempla di infrangere le proprie regole sul campo di battaglia, picchiando duro con la propaganda degli sconfinamenti russi nello spazio aereo europeo, con l’attacco all’aereo della von der Leyen, ma, al contempo, dipingendo Putin prossimo alla morte e alla guida di una nazione senza munizioni e armata solo di pale, una storia proveniente dalla Moldavia ne incrina le fondamenta morali.
In un sarcastico gioco del destino, la “vittoria della democrazia” nelle elezioni moldave è festeggiata come uno scacco a Mosca, ma su questa vittoria si accende più di qualche luce sinistra.
Innanzitutto, se queste ingerenze russe non sono solo una fantasia della nostra propaganda, beh… fanno ridere, visto che non vincono un’elezione.
Intatto, ben altre ingerenze ci sono state sul voto in Moldavia.
Pavel Durov, fondatore di Telegram, ha accusato pubblicamente i servizi segreti francesi di aver chiesto la sua collaborazione nel censurare canali Telegram vicini ai candidati filorussi per favorire il governo filo-occidentale in cambio di “cose buone” da dire al giudice che ne aveva ordinato l’arresto.
Un ricatto, un’ingerenza…, chiamatela come volete. Il paradosso è, comunque, accecante.
La democrazia, ufficialmente difesa contro le manipolazioni del Cremlino, sarebbe stata “aiutata” con gli stessi strumenti di pressione e censura che si attribuiscono alle autocrazie. Cosa che gli USA fanno da sempre, a cominciare dal referendum italiano del 3 giugno 1946.
La narrazione della propaganda, dunque, si frantuma. La lotta tra democrazia e autoritarismo si rivela un labirinto di specchi, dove ogni attore sembra riflettere le tattiche più oscure del suo nemico.
È in questo clima di ambiguità morale e militare che si innesta la terza, più subdola, forma di guerra: quella psicologica.
Le parole di Zelensky, che avverte l’Italia di possibili attacchi con droni russi, hanno un suono sinistro.
Se prima potevano essere lette come un appello all’unità, oggi sollevano interrogativi inquietanti.
Come può il presidente ucraino avere tali certezze? La sua è una preveggenza basata su intelligence solida, – perciò l’intelligence ucraina è superiore a quelle dei paesi NATO – o si tratta di una manovra calcolata per alimentare quella stessa paura che spinge governi – come quello danese – a paralizzare la vita civile?
Si fa strada un sospetto, sebbene indimostrabile, ma plausibile: se alcuni di questi droni “russi” non fossero affatto russi, ma strumenti di una strategia della tensione volta a cementare un’alleanza che inizia a mostrare segni di stanchezza?
Il risultato è un’Europa in trincea psicologica.
Le rassicurazioni di Tajani, la mobilitazione tedesca, i cieli chiusi di Copenaghen non sono più solo risposte a una minaccia esterna, ma i sintomi di un conflitto che ha violato lo spazio mentale dei cittadini in modo che quegli stessi cittadini digeriscano senza troppi malumori tagli a Sanità, Scuola, Pensioni, Welfare per destinare più miliardi alle armi.
La guerra non è più “là fuori”, ma è un’ansia costante, un’ombra che aleggia sopra le nostre città e nelle scelte dei nostri parlamenti, che stanno riscrivendo il futuro delle nostre aziende e delle nostre vite.
Alla fine, tutti i fili si intrecciano.
Un’America divisa che flirta con l’escalation totale, un’Europa che si scopre non solo vittima, ma potenziale artefice di quelle stesse ingerenze che condanna.
Un’Ucraina che, per sopravvivere, sembra aver imparato a usare la paura come un’arma.
In questa guerra di specchi, non è più fondamentale capire chi vincerà sul campo, ma chi sta davvero difendendo la democrazia.
E, soprattutto, la democrazia che emergerà da questo conflitto, forgiata da ricatti, censure, propaganda e paure, sarà ancora quella che si è giurato di proteggere?
La vera vittima collaterale potrebbe non essere un territorio, ma la chiarezza morale con cui l’Occidente ha sempre definito se stesso.

Dott. Pasquale Di Matteo
Giornalista freelance, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.




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