Dagli aeroporti scandinavi chiusi per un’ombra russa alle piazze italiane descritte come covi di violenza. Due eventi apparentemente distinti, un’unica strategia di controllo dell’opinione pubblica.
La notte scorsa, lo spazio aereo di due capitali europee è stato paralizzato dalla paura di droni non identificati, immediatamente associati alla Russia. Vuoi mettere?
Nelle stesse ore, le cronache italiane riducevano uno sciopero nazionale con più di mezzo milione di partecipanti a pochi, isolati tafferugli.
Questi episodi non sono coincidenze, ma i sintomi più evidenti di una sofisticata macchina propagandistica che opera su due fronti paralleli: la costante costruzione di una minaccia esterna, con il “nemico russo”, per giustificare l’emergenza permanente e le politiche di guerra, e la sistematica delegittimazione del dissenso interno, trasformando in “facinorosi pro-palestinesi” tutti gli scioperanti, per neutralizzare ogni critica alle alleanze geopolitiche occidentali.
IL NEMICO ALLE PORTE – LA FABBRICA DELLA PAURA
L’oscurità sopra l’aeroporto di Oslo non è solo quella della notte. È un’oscurità elettronica, improvvisa, carica di un’ansia postmoderna.
Gli schermi dei gate si spengono, un annuncio secco e controllato invita alla calma senza riuscirci. Un oggetto volante non identificato, un drone, grande, anonimo, silenzioso come un fantasma, viola lo spazio aereo più controllato di una capitale scandinava.
A Copenaghen, la stessa scena. Il panico non esplode in urla, ma si condensa in un brusio carico di sospetto.
E il sospetto, in quel vuoto informativo, non è di vedere trasformato in realtà lo scenario di Independence Day, ma ha già un nome, sussurrato dai notiziari prim’ancora che dalle autorità: Russia.
Non serve una prova. Non servono indagini. Serve un colpevole.
Anzi, serve indicare la Russia come colpevole. E lo spettro di Putin, evocato a comando, bussa ancora una volta alle porte dell’Occidente grazie all’oliata macchina della propaganda.
L’ANATOMIA DEL SOSPETTO
Il meccanismo è perfetto nella sua cinica semplicità.
Il vuoto informativo è il terreno più fertile per la semina propagandistica. Di fronte al drone anonimo, la domanda legittima “Di chi è?” viene immediatamente soppiantata dall’affermazione comoda “È russo”.
Le ipotesi alternative – un test di sicurezza andato storto, un attore non statale, una semplice quanto improbabile bravata – vengono relegate in un angolo remoto del dibattito perché smonterebbero la propaganda ancor prima di vederla raccogliere i frutti del proprio lavoro tra chi non è molto avvezzo a ragionare e preferisce farsi ottriare qualunque sciocchezza, dal Nord Stream danneggiato dai russi, al drone russo che ha colpito la casa in Polonia.
Perché leggere la realtà che, come sempre, conferma che si tratta di fake news, è evidentemente difficile per certuni.
Perciò, le alternative non sono narrativamente utili. Il nemico pre-costituito, invece, lo è.
Serve a riattivare un pattern consolidato: i “droni fantasma” in Polonia, le misteriose interferenze GPS sul Baltico.
Eventi slegati, decontestualizzati, vengono presentati come le mosse di una campagna coordinata e minacciosa. Una sequenza che crea senso laddove il senso manca.
Perché la tensione deve rimanere alta e l’emergenza deve essere perpetua.
Altrimenti anche le persone comuni cominciano a porsi domande sul perché dei miliardi gettati in armi e sugli effetti delle sanzioni che avrebbero dovuto piegare Mosca entro Natale 2022 a detta di Draghi, von der Leyen e di tutti gli altri grandi leader europei che non ne azzeccano mezza da anni.
Ma il dato più rivelatore è il divario tra le dichiarazioni ufficiali. Le forze di polizia, doverosamente, ammettono: “Non sappiamo chi sia”. La cautela è la loro professione.
Poi, accade il salto logico, il vero atto di fede propagandistico. Politici e commentatori, con una sicurezza che sfida l’assenza di prove, puntano il dito, come in quel video virale in cui un opinionista afferma, senza esitazione: “È stato Putin, un messaggio per testare le nostre difese”.
Ma a che gli servirebbe testare le nostre difese, quando già sa che non esistono difese ai missili ipersonici?
E poi, l’economia russa non era al tappeto, tanto da dover smontare microchip dagli elettrodomestici? Il suo esercito non era equipaggiato solo di pale dell’800 e di dita usate come baionette, tant’è che è impantanato in Ucraina da tre anni e mezzo?
Questo scarto tra l’incertezza investigativa e la certezza mediatica è la prova della politicizzazione dell’incidente e del fatto che lo spettro debba materializzarsi. A qualsiasi costo.
IL DISSENSO IN GABBIA – LA CRIMINALIZZAZIONE DELLA PROTESTA
Mentre gli schermi nordici lampeggiavano di allarmi antiaerei, l’Italia viveva un’altra forma di paralisi, quella della rappresentazione del popolo. Oltre mezzo milione di persone scese in piazza per uno sciopero generale.
Lavoratori, studenti, pensionati, insegnanti. Altri milioni non sono scesi in piazza, ma hanno disertato i posti di lavoro. Una piazza ampia, trasversale, che ha espresso un malessere reale, tangibile, forte.
Eppure, apriamo i giornali o guardiamo i telegiornali e la matematica diventa improvvisamente selettiva. Un numeratore, una manciata di tafferugli, spesso innescati da provocatori o da frange minoritarie, è diventato improvvisamente più grande del denominatore, quei 500.000 cittadini.
Servizi televisivi hanno dedicato cinque minuti agli scontri e trenta secondi, in coda, alle ragioni della protesta. Una sproporzione che non è un errore, ma una strategia.
Qui entra in gioco l’antica tecnica della parte per il tutto.
L’immagine di un cassonetto in fiamme o di un lancio di bottiglie diventa il simbolo di un intero movimento.
È un cortocircuito semiotico potentissimo, perché svuota la protesta del suo contenuto politico, cioè la critica, la politica economica, la richiesta di un cessate il fuoco e la fine dei crimini a Gaza, per ridurre tutto a un mero problema di ordine pubblico.
La violenza di pochi, reale o strumentale, viene utilizzata per delegittimare la pacifica espressione di tutti.
A questo si accompagna l’arma più affilata dell’etichettatura.
Analizziamo il linguaggio. “Sedicenti pacifisti”, “facinorosi pro-Pal”, “antifa”.
Sono non-parole. Sono sigle che servono a chiudere il pensiero, non ad aprirlo. Attivano pregiudizi, creano categorie nemiche interne.
Chi è etichettato come “facinoroso” non ha più diritto di parola. La sua critica non viene confutata, viene semplicemente disprezzata in quanto espressa da un “violento”.
È la stessa strategia delle etichette “complottista”, “novax”, “putiniano”. Mancano argomentazioni e non si vuole affrontare il problema, per distogliere l’opinione pubblica, perciò si utilizzano le etichette.
La reazione politica è la ciliegina su questa torta avvelenata. Prendiamo il tweet della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
Condanna la violenza, giustamente.
Ma ignora completamente, cancella con un colpo di spugna, le istanze di quella piazza oceanica. Un cortocircuito orwelliano evidente, poiché condanna le violenze di piazza, ma non fa nulla contro le violenze di Gaza che provocano decine di migliaia di vittime, tra cui moltissimi bambini, vero e proprio genocidio per cui l’Italia dovrebbe intervenire a norma di Diritto internazionale.
L’obiettivo è duplice: rassicurare la propria base dipingendo il dissenso come barbarie e, soprattutto, dipingere ogni opposizione come illegittima per non affrontare la realtà dei fatti.
Se protesti, sei con i violenti. Se critichi, minacci l’unità nazionale. Il manganello narrativo colpisce forte, e zittisce senza bisogno di alzare la voce. Peggio che in 1984 di Orwell.
IL FILO INVISIBILE – UNIRE I PUNTI DELLA PROPAGANDA
Queste non sono due storie separate, ma due facce della stessa medaglia. La creazione di un nemico esterno, la Russia, serve a compattare il fronte interno, a giustificare una linea atlantista senza se e senza ma, a normalizzare lo stato di eccezione e i tagli alla spesa sociale per acquistare armi.
In questo quadro, il dissenso che mette in discussione gli alleati strategici di questa compagine, come le critiche alle azioni di Israele, pilastro geopolitico occidentale, diventa un atto di sabotaggio per le mire occidentali.
È il discorso dell’emergenza. Un nemico alle porte richiede unità, sacrificio, silenzio. Chi rompe questa unità, chi scende in piazza contro “causa comune” e per criticare un alleato, non è più un cittadino che esercita un diritto, ma diventa un “utile idiota” del nemico, un agente del caos. Un putiniano o un uomo di Hamas.
Lo spettro russo giustifica il manganello narrativo sulle piazze italiane. La paura del primo, zittisce la coscienza che si esprime nella seconda.
CHI CI GUADAGNA?
La risposta è chiara.
A livello internazionale, questa narrazione cementa l’alleanza atlantica, giustifica l’aumento delle spese militari ben oltre il 2% del PIL e legittima l’invio di armamenti come un imperativo categorico, non come una scelta politica discutibile.
A livello nazionale, il governo di turno consolida il proprio potere, presentandosi come l’unico argine contro il caos interno e la minaccia esterna. L’opposizione viene messa in trappola: o condanna la violenza, allineandosi alla narrativa governativa e sconfessando la piazza, o la difende, rischiando di essere etichettata come fiancheggiatrice dei violenti.
È un gioco a perdere per il dissenso. Una strategia che abbiamo visto già durante la pandemia.
E, proprio come allora, è facile ipotizzare che gran parte degli atti di violenza siano stati organizzati e messi in scena da servizi deviati. Ricordiamo ancora tutti l’infiltrato tra la folla che aizzava la folla a rovesciare una camionetta della Polizia.
Tutto già visto. Tutto già studiato. Tutto già ampiamente smascherato.
IL COSTO DEL SILENZIO E IL DOVERE DEL DUBBIO
Le conseguenze di questa doppia narrazione sono profonde e corrosive.
Una narrazione che produce un’opinione pubblica impaurita, polarizzata, incapace di discernere le proporzioni reali, e atrofizza il muscolo del dubbio e del pensiero critico.
Una narrazione che svuota la democrazia del suo elemento fondamentale: il dibattito informato e libero su scelte che determinano il nostro futuro.
Ma, quando un drone non identificato diventa automaticamente russo e un manifestante pacifico diventa automaticamente un violento, cosa resta della nostra capacità di comprendere la complessità del mondo?
I veri fronti di guerra oggi non sono solo a Kiev o a Gaza, ma sono nelle nostre menti, nella battaglia quotidiana per il controllo della realtà.
Resistere non significa negare le minacce o giustificare la violenza, bensì significa rifiutarsi di accettare narrazioni precotte, prive di logica, senza fondamento e sistematicamente smentite dal tempo e dai fatti.
Significa pretendere prove prima delle condanne. Significa ascoltare il coro prima di fissarsi sul singolo stonato.
È un dovere civico. Forse, l’ultimo baluardo di una coscienza libera e democratica.



