GLI OSCAR DELLA CENSURA E LA GUERRA PER L’ANIMA DELLA CULTURA

Mentre il rombo dei cannoni ridisegna i confini fisici dell’Europa e le macerie di Gaza gridano vendetta a un Occidente sordo e complice della follia di Israele, c’è un altro conflitto, più subdolo e forse più pericoloso, che infuria nei nostri salotti.

Una guerra silenziosa, che non si combatte con i droni, ma con i comunicati stampa. Non con le sanzioni economiche, ma con le epurazioni culturali.

Una battaglia contro il pensiero liberale che stiamo perdendo in modo spettacolare.

IL MANUALE DEL CENSORE: COLPA PER ASSOCIAZIONE

Prendiamo il caso, esemplare, del Maestro Valery Gergiev.

La sua colpa? Non certo quella di aver invaso la Crimea o di aver bombardato Mariupol. Nient’affatto.

La sua colpa è stata quella di essere amico di Vladimir Putin.

Eppure, la sua unica arma è una bacchetta da direttore d’orchestra, ma è stata giudicata troppo pericolosa per essere brandita sul palco della Reggia di Caserta.

Perciò l’Italia, Paese che giudichiamo democratico e inclusivo, lo ha cacciato. Lo ha silenziato.

La sua arte, considerata patrimonio mondiale, è stata improvvisamente contaminata dall’odio, dalla russofobia, dall’intolleranza, avvelenata da una colpa per associazione che non ammette appello. Come nelle peggiori dittature della storia.

Questo è il paradigma applicato all’orbita russa: una condanna collettiva. Un esilio culturale. Artista e Stato diventano un’entità unica, inscindibile.

L’arte è ridotta a mera propaganda, un nemico da estirpare dal corpo puro della nostra cultura.

La stessa cosa è accaduta nello sport, dove la Russia è stata bandita dai mondiali di Calcio e, negli altri sport, laddove gli atleti russi possono gareggiare, devono farlo senza inno e senza bandiera.

LA BUSSOLA MORALE CHE GIRA A 180 GRADI

Tuttavia, se puntiamola l’attenzione verso il Medio Oriente, quando 1500 artisti e intellettuali firmano un appello per Gaza, chiedendo al Festival di Venezia di non ospitare colleghi israeliani, è accaduto il miracolo.

L’intero establishment culturale è insorto con un grido unanime a difesa di un principio sacrosanto, riscoperto come un antico Vangelo: “La cultura deve restare libera! Gli artisti non possono e non devono pagare per le colpe dei loro governi!”.

Ma dai!

Solo che per Valery Gergiev è stato diverso. Perché?

La stessa ferocia con cui, solo poche settimane prima, quel principio era stato calpestato e sepolto, è stato poi riutilizzato per difendere gli artisti israeliani.

La contraddizione non è solo palese, ma anche assordante. È un capolavoro di dissonanza cognitiva istituzionalizzata. Per il russo, l’arte è politica e va cancellata, ma per l’israeliano, la politica non deve toccare l’arte, che va preservata.

La stessa bacchetta che nelle mani di Gergiev era un’arma, nelle mani di un israeliano diventa un innocuo ramoscello d’ulivo.

Perciò, è in atto una discriminazione evidente, perniciosa, di stampo fascista.

WOODY ALLEN E L’IMPERDONABILE CRIMINE DELLA COMUNICAZIONE

Il paradosso raggiunge il suo apice grottesco con il caso Woody Allen, un tempo icona intoccabile dell’intellettuale nevrotico, oggi degradato a “impresentabile” sulle stesse testate che lo celebravano fino a pochi mesi fa.

Ma il suo crimine non sono le vecchie accuse da cui è stato assolto due volte dai tribunali. No.

Il suo crimine, ancora più imperdonabile, è stato collegarsi in video con un festival cinematografico russo.

Ma dai! Non si fa. I russi sono sporchi e cattivi, orchi che mangiano i bambini. Non sono come gli israeliani, che a Gaza stanno solo scherzando, evidentemente.

In un istante, Allen è diventato complice di Putin. Un fiancheggiatore. Perché in questo nuovo manuale del censore orwelliano, l’atto di comunicare e di fare arte è diventato un atto di guerra se di mezzo ci sono i russi.

UNA SCHIZOFRENIA DA PAURA PROFONDA

Questa spaccatura schizofrenica nella coscienza occidentale rivela una debolezza abissale.

Incapaci di incidere realmente sulla brutalità della guerra fisica, combattiamo una sua versione edulcorata, a basso rischio, sul terreno più comodo della cultura.

Cancellare un concerto, d’altronde, è più facile che fermare un carro armato o un missile ipersonico.

Esiliare un regista è più semplice che negoziare una pace. È un’operazione di pulizia della coscienza, non un’autentica affermazione di principi.

Nella nostra moralista, quanto isterica, voglia di combattere l’autoritarismo di Putin, ne stiamo inconsapevolmente adottando i comportamenti peggiori, costruendo le nostre liste di proscrizione, in lunghi elenchi di pacifisti, intellettuali, saggi, persone ancora senzienti, non razziste, non russofobe, colte, che conoscono le vere origini della guerra in Ucraina.

Ma anche liste di oppositori al regime di Tel Aviv e al genocidio, di persone che chiedono sanzioni contro Israele e un aiuto ai palestinesi, in nome del Diritto internazionale e dei Diritti umani.

La cosa grottesca è che gli stessi censori di oggi sono quelli che ieri ti davano addosso quando incolpavi Putin come mandante delle uccisioni di alcuni giornalisti dissidenti, quando quelli come me venivano attaccati dai tanti che consideravano lo Zar come il meglio che potesse capitare all’Europa, mentre stavano in fila per un selfie con lui.

Giornalisti, intellettuali, politici da destra a sinistra.

Ma, con queste contraddizioni e con questa isteria, stiamo praticando la nostra forma di colpa collettiva e stiamo decidendo, con arroganza da inquisitori, chi ha il diritto di parola e chi deve essere messo a tacere. Proprio come accaduto durante la pandemia, quando le strategie della propaganda negavano i contraddittori.

Orami, la differenza tra le nostre decantate democrazie e quei regimi che diciamo ancora di voler combattere è sempre più sottile e, mentre applaudiamo a noi stessi per la nostra presunta purezza morale, per la nostra supponente superiorità sul pianeta, non ci accorgiamo della tragedia in atto né della nostra drammatica involuzione.

La bacchetta del direttore che abbiamo spezzato in nome della libertà era anche la nostra. Quelle bandiere russe che vietiamo, sono le nostre. Così come i crimini di Israele che approviamo e appoggiamo sono i nostri. Ne siamo complici.

Stiamo uccidendo il simbolo della nostra capacità di dirigere un’orchestra di voci diverse, anche dissonanti e in questo silenzio assordante che abbiamo creato, cancellando contraddittori, artisti e sportivi, l’unica musica che si sente è il suono straziante di una libertà che, per paura di morire, si sta lentamente suicidando.

Le uniche voci che ancora urlano sono quelle della propaganda che non smette di raccontarci di pale, microchip, muli, sanzioni dirompenti, droni, missili, sconfinamenti e altre sciocchezze pur di giustificare riarmi e il business della guerra.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

Rispondi