Un drone di polistirolo. Intatto. Adagiato morbidamente sull’erba di un campo polacco.
Poco più in là, il tetto di un casolare scoperchiato, con le assi rimosse con una precisione quasi chirurgica, lasciando le travi portanti illese.
Queste immagini, deboli e quasi surreali, non sono i resti di un attacco devastante. Lo capisce anche un bambino.
Eppure, sono diventate la scintilla che minaccia di incendiare un continente.
Mentre i leader da Bruxelles a Washington tuonano contro la “deliberata provocazione russa”, ciò a cui stiamo assistendo non è una reazione a un’aggressione, ma l’esecuzione di un copione già scritto.
“L’Europa è già in guerra contro la Russia,” ha dichiarato Medvedev.
Non era una minaccia. Era una constatazione. Un’osservazione agghiacciante sulla nostra realtà di cancro del mondo, che ci rifiutiamo di vedere.
ANATOMIA DI UNA PROVOCAZIONE
Analizziamo le prove.
I droni gonfiabili, più simili a giocattoli da ricognizione che a strumenti di morte, non hanno lasciato crateri.
Non hanno scalfito la terra arata su cui sono atterrati. Il tetto della casa polacca sfida le leggi della fisica di qualsiasi esplosione conosciuta. Sembra più l’opera di smantellamento di una squadra di operai che l’impatto di un ordigno bellico.
Dov’è la devastazione? Dov’è il fuoco? Dov’è la prova inconfutabile che giustifichi la mobilitazione di decine di migliaia di soldati e lo schieramento di caccia da combattimento?
Non c’è. Resta solo la propaganda dei nostri pennivendoli. Quelli che vi hanno raccontato di pale e microchip, e ora pretendono di raccontarvi come stanno le cose.
E proprio questa assenza di prove concrete è l’indizio più schiacciante.
Ci è stato servito un pretesto debole, quasi offensivo nella sua ingenuità, perché non era pensato per resistere a un’analisi forense, ma per essere creduto ciecamente da chi si è bevuto le pale e le dita usate come baionette perché Mosca non aveva soldi per le munizioni.
Per dare in pasto ai media e a un’opinione pubblica spaventata una ragione per ritenere necessario tagliare su Sanità, Scuola e Pensioni e indebitarci a vita per armi e guerra.

LA REAZIONE ORCHESTRATA: IL VIA LIBERA PER “SENTINELLA DELL’EST”
La velocità della risposta è stata sbalorditiva. In poche ore, Varsavia ha gridato all’attacco, la NATO ha attivato i protocolli di difesa e i media, come il prestigioso Le Monde, hanno pubblicato titoli che parlavano di “incursioni” e della necessità di “proteggere l’Europa”.
Una reazione così rapida e coordinata non suggerisce improvvisazione, ma preparazione e messa in scena di un copione. Anche perché, si tratta degli stessi che su Israele ancora non sono riusciti a trovare la quadra per un solo misero pacchetto di sanzioni.
Questo “incidente” – o messa in scena – è stato la parola d’ordine per attivare l’operazione “Sentinella dell’Est”. Un piano di militarizzazione massiccia e senza precedenti lungo tutto il fianco orientale dell’alleanza, dalla Finlandia fino al Mar Nero.
Non è una difesa, ma un posizionamento offensivo che da Mosca non può essere visto in maniera diversa di una minaccia concreta ai suoi confini.
Decine di migliaia di soldati si stanno muovendo, le basi si stanno riempiendo e la tensione, per le famiglie che vivono lungo quel confine, diventa ogni giorno più palpabile.
I leader europei stanno costruendo il teatro di guerra, pezzo per pezzo, in attesa dell’incidente definitivo, quello che renderà lo scontro inevitabile.
A CHI GIOVA TUTTO QUESTO?
Per capire chi ha scritto questo copione, basta chiedersi chi ne trae profitto.
Non certo gli europei, che stanno già pagando un prezzo altissimo. Mentre le bollette strangolano le famiglie da Lisbona a Vilnius e le industrie tedesche chiudono per i costi insostenibili dell’energia, il nostro continente si indebolisce economicamente e si lega mani e piedi alla protezione militare ed energetica degli Stati Uniti.
Il vantaggio per Washington, invece, è doppio: logora la Russia, il rivale storico, e al tempo stesso de-industrializza e sottomette l’Europa, da sempre concorrente economico.
E lo fa usando l’Ucraina come strumento. Alla faccia di quelli che davano dell’incompetente a Trump.
Poi ci sono i pazzi europei, quei leader che non ne hanno azzeccata mezza neppure di striscio, dalle sanzioni dirompenti in avanti, e che ora, non avendo più nulla da perdere, sono disposti alla guerra mondiale pur di non dover restituire agli europei i miliardi bruciati per la loro scelleratezza e passare il resto della vita in prigione.
Kiev, ormai, non combatte più per la propria sovranità. La guerra l’ha persa da mesi. Combatte perché noi paghiamo. Il paziente è tenuto in vita solo dalle macchine e se si stacca la spina, si scopre che è morto.
La richiesta di 120 miliardi di dollari entro il 2026, come richiesto da Zelensky, non è solo un appello disperato per la sopravvivenza, ma è il budget necessario per continuare a sostenere una guerra per procura.
Una guerra in cui i soldati ucraini mettono i corpi, gli americani le armi e i cittadini europei i soldi.
I leader dei paesi dell’Est Europa, dal canto loro, giocano una partita ambigua.
Spinti da una legittima memoria storica di oppressione, si offrono come l’avamposto più aggressivo della NATO, guadagnando una rilevanza politica e strategica che non hanno mai avuto, ma rischiando di trasformare le loro nazioni nel primo, devastante campo di battaglia.
In un mondo normale li chiameremo pazzi.

IL FRONTE SILENZIOSO E LA DISPERAZIONE DI KIEV
Mentre la propaganda occidentale festeggia improbabili vittorie, sbandierate in pompa magna dai nostri pennivendoli – sempre quelli delle pale e dei microchip, la cui credibilità è pari a zero – la realtà sul campo è un’altra.
Il fronte ucraino sta crollando. Le perdite sono insostenibili e la situazione è disperata. Non è un caso che lo stesso Zelensky, l’eroe della resistenza, sia tornato a invocare un incontro con Putin un minuto dopo aver chiesto 120 miliardi per sostenere la guerra.
È un segnale inequivocabile che la via militare è un vicolo cieco.
Un segnale che i suoi sponsor occidentali, però, continuano a ignorare, spingendo per una guerra fino all’ultimo ucraino, perché, altrimenti, Macron, Meloni, von der Leyen e Merz dovrebbero dare conto agli europei dei miliardi bruciati e dei costi dell’energia alle stelle per una sconfitta prevedibile già nel 2022 da chiunque avesse aperto almeno un libro di storia contemporanea nella sua vita.
La vera minaccia per l’Europa non è un’invasione russa.
Questa narrazione serve solo a giustificare l’escalation. È pura propaganda.
La vera minaccia è l’ostinazione a prolungare un conflitto che sta distruggendo una nazione, destabilizzando l’economia globale e trascinando l’Europa sull’orlo di un conflitto diretto, le cui conseguenze sarebbero inimmaginabili.
La vera minaccia per gli europei è questa Europa.
IL PREZZO DELL’OBBEDIENZA
I droni di cartapesta in Polonia non sono stati un attacco, ma un invito. Un invito ad accettare una narrazione che ci conduce, passo dopo passo, verso il baratro.
Una narrazione che serve a mascherare il fallimento delle sanzioni e di ogni politica degli attuali leader europei, e a giustificare un coinvolgimento sempre più diretto in un conflitto che non abbiamo scelto, ma che è l’unica strada percorribile da quei leader per salvarsi il fondoschiena.
L’Europa è davvero già in guerra.
Ma non sta combattendo per i propri valori o per la propria sicurezza, ma per mantenere in vita un ordine mondiale unipolare che sta morendo, sacrificando la propria prosperità e la propria pace sull’altare di interessi che non le appartengono.
Mentre i nostri leader parlano di difesa e sicurezza, ma non specificano che l’unica difesa e l’unica sicurezza che paventano è la loro.
Non stiamo affatto proteggendo il nostro futuro, ma semplicemente iniziando a pagare il conto in denaro, stabilità e, presto, forse, in vite umane, per le strategie fallimentari di una classe dirigente improponibile e per quelle furbe di Washington che, dall’incompetenza manifesta dei nostri leader da reparto psichiatrico ha solo da guadagnare.



Giornalista pubblicista, Scienze Politiche, Esperto di Comunicazione e arte concettuale.

Giornalista freelance, Politiche Internazionali, Esperto di Comunicazione e critico d’arte.
