UNA VOLTA ERANO I POMPELMI 

La guerra a Gaza è una sorta di infinita tragedia che dura da oltre 70 anni. Non voglio distinguere tra chi sia il buono e chi il cattivo ma è notorio che nessuno dei due belligeranti sia “buono”.

Democratico (?) uno, Israele, il cui Parlamento è eletto certamente in maniera democratica, diciamo all’occidentale, e uno anarchico (?), una accezione certamente impropria ma che potrebbe dare l’idea, pur eletto ufficialmente dal popolo di Hamas, il cui governo è esercitato con una gestione del potere e dei territori molto “sui generis”.

I NUMERI DELLA GUERRA

E qui inevitabilmente i numeri parlano dei morti, dei rapiti, degli affamati, dei malati, degli sfollati come fossero pendolari sbattuti da una parte all’altra di Gaza a seconda delle attività dei soldati israeliani in quelle aree.

Ma anche dei camion con gli aiuti umanitari, cibo e medicinali, dei chilometri di gallerie scavate sotto Gaza, del numero dei tunnel fatti saltare da Israele…

NON TUTTI I MORTI SONO UGUALI 

Perché un conto è parlare di soldati morti in combattimento, israeliani e palestinesi, un conto sono i morti della popolazione civile deceduti sotto le bombe israeliane che hanno avuto solo la colpa di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. 

Poi ancora i morti più innocenti, quelli che vanno a cercare qualcosa da mangiare che trovano solo la fine. 

Quei bambini palestinesi denutriti, sempre palestinesi, destinati poi a scomparire dalla faccia della terra. 

Scompaiono sotto le bombe israeliane, i giornalisti che tentano di raccontare la loro verità,..

E LE FONTI DEI NUMERI?

E qui il caos regna totale. È chiaro che in una situazione così complicata non può esserci una ricerca e una descrizione all’unità numerica. 

Le fonti sono IDF (esercito israeliano), Hamas con il suo ministero della salute e l’ufficio stampa, Al Jazeera ed altri.

A Gaza, per l’Onu, i morti sono 6000, per Hamas 62000. In questi numeri i bambini morti o feriti sono, su 2,2 milioni di abitanti a Gaza, per il 40% sotto i 14 anni e il 5% sopra i 60 anni. 

In questo totale 18.000 sono i bambini morti, 6000 sono le donne uccise.

Invece 600 sono i camion bloccati da Israele con cibo che non può essere distribuito per contrasti su chi debba esercitare la distribuzione. 

Per Hamas parla il ministero della salute, ma anche l’ufficio stampa, come si diceva. Ma quella è la fonte che viene considerata ufficiale dalla parte palestinese. 

A parte la tragicità dei numeri, La maggior parte di quali si riferisce alle morti sotto le bombe israeliane, quello che è sintomatico è l’irrilevanza prestata alla verità. 

L’abbiamo già detto, è difficile in situazioni come quelle attuali, attribuire certezza ai dati forniti dalle parti in guerra.  

Quello che sembra certo e che i numeri esibiscono una nuova lettura della guerra. 

Hamas ha ammesso candidamente che più morti palestinesi ci sono, più la loro causa nel mondo progredisce. E il resto del mondo partecipa a modo suo e partorisce spesso interpretazioni ufficiali fuorvianti. Nessuno escluso. 

Durante le guerre ci sono morti e atrocità. In tutte. Ma in una guerra è sempre stato così e sempre sarà così. 

La guerra mediatica che forse è la più infame perché gode di impunità e immunità e da sempre favorisce il miglior comunicatore che, quasi sempre, sta dalla parte che viene giudicata vessata.

Nella percezione collettiva, Il debole deve vincere sempre perché nell’immaginario del popolo Davide contro Golia ha sempre la possibilità di vincere. Ma la storia ci racconta una realtà diversa.

Perché contro uno più forte di te non hai scampo se ti metti a guerreggiare. Allora se non puoi rispondere, partecipare attivamente facendo sentire la voce delle tue armi, devi fidarti alla mediazione politica gestita, offerta da terzi super partes.

Allora gridi all’infamia dell’aggressore o difendi per partito preso l’aggredito o rispondi con azioni individuali suggerite dal tuo status e dalla tua presunta capacità di dare risposte alla voglia di incidere, anche da lontano, partecipando ai loro conflitti e prendendo le difese di Israele o di Hamas.

IL MONDO RISPONDE A MODO SUO 

A parte le proposte formulate da mediatori internazionali o dalle organizzazioni sovranazionali, le relazioni tra Israele e il resto del mondo sono spesso considerate un veicolo o da salvaguardare o da contrastare. 

Come inevitabile, a seconda di come consideriamo le vicende ebraiche e lo stato che le rappresenta, Israele, le posizioni sono molto distanti. 

Il mondo arabo non si fa sentire se non con qualche timido assaggio bellico dell’Iran e di qualche gruppo terroristico sostenuto dagli Ayatollah come gli Houthi nello Yemen o altri gruppi della galassia terroristica.

IL SILENZIO DEI FORTI O DEI DEBOLI? 

Per il resto silenzio compiaciuto o attendista.

Noi siamo abituati a pensare che in una guerra come quella farà Israele e Hamas, al di là delle vicende belliche, il mondo debba occuparsi di disinnescare le armi. Salvo poi continuare a fornirle ai contendenti.

Chi pensa che non sia più necessario fornirle, chi pensa sia meglio affidarsi alla politica, chi partendo dal popolo, pensa che ognuno debba fare la propria parte. 

Per cui partono attività di boicottaggio, disinvestimento… Quello che fa ad esempio BDS Italia.

Penso che pochi conoscano BDS Italia, ma il loro sito è chiaro e illuminante. 

Una visita può fornirci qualche spunto di dialogo e critica. Oltre di qualche riflessione seria.

GLI EFFETTI NEGATIVI DEL BOICOTTAGGIO

Pochi però pensano quale possa essere l’effetto negativo che alcune di queste attività di contrasto rispetto al mondo imprenditoriale e produttivo israeliano possono produrre anche nei paesi in cui questi investimenti sono stati realizzati e ora, alla luce di una guerra economico finanziaria strisciante, possono esserci degli effetti fortemente negativi. 

È di questi giorni la notizia che Teva, il produttore di medicinali e dei principi attivi israeliano che ha stabilimenti anche in Italia, ha deciso di ridurre, se non chiudere qualche stabilimento nel nostro paese. Sono 1500 i dipendenti di Teva in Italia ma si prevedono altre riduzioni di personale. 

Un conto è non comperare più frutta esotica prodotta in Israele, un conto è contrastare la produzione industriale realizzata in altri paesi con effetti nefasti sull’occupazione. 

Sono lontani i tempi in cui si chiedeva di non comperare i pompelmi perché prodotti in Israele.

Quello era un boicottaggio simbolico e di bassa lega, ma dove ognuno, esercitando il proprio diritto di scelta, pensava che ci fosse un messaggio chiaro e definitivo nei confronti della politica espansionistica di Israele. 

ERANO ALTRI TEMPI: SOLO PIÙ ROMANTICI?

Niente di più fallace e di meno simbolico. Ma ogni azione allora contava per esprimere la propria contrarietà.

Oggi ci vuole molto di più e non credo che il boicottaggio di Teva e di altre aziende che hanno rapporti con Israele e sono dislocate sul nostro territorio o su quello di altri paesi abbiano significato reale rispetto al Pil del Paese Israele. 

O meglio, sì, quello che si ritorce contro chi l’ha decretato. Se volete una voce in più, magari scomoda, ISREAELE360.com

Vi rimanderà su Facebook e lì potrete leggere un’altra versione. Io lì non ho trovato niente sulla guerra israelo- palestinese, ma sulle azioni conseguenti (partecipazioni ad eventi, cancellazioni di iniziative che coinvolgevano Israele,…).

Collegati a questo pezzo vi sono alcune letture che penso possano essere illuminanti quantomeno per fare dubitare che esista una sola realtà. Fake news a parte. Buona lettura e buone riflessioni.

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Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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