ISRAELE IN RIVOLTA. LA PIAZZA SFIDA NETANYAHU PERCHÉ IL PREZZO DEL SANGUE DIVENTA INSOSTENIBILE

LA PARALISI DEL CONSENSO: MIGLIAIA IN STRADA CONTRO NETANYAHU

Migliaia di manifestanti bloccano autostrade, paralizzano aeroporti, assediano la residenza del primo ministro, e non sono pacifisti di professione o attivisti per i diritti umani.

Sono famiglie disperate che chiedono una cosa semplice, una cosa che il governo israeliano non è riuscito a fare, scegliendo l’odio anziché la diplomazia: riportare a casa i loro cari ancora prigionieri di Hamas.

Quando le élite politiche perdono il controllo della narrazione, la strada diventa l’ultimo tribunale del popolo e Netanyahu, dopo quasi due anni di crimini di guerra, pur senza vittorie decisive, sta scoprendo che anche la società israeliana ha i suoi limiti di sopportazione.

IL CALCOLO CINICO DELLA POLITICA: OSTAGGI COME PEDINE

L’accusa dei manifestanti non potrebbe essere più diretta: Netanyahu ha sacrificato la vita dei prigionieri per ragioni politiche, per tenere in vita una coalizione traballante.

D’altro canto, sono settimane che il presidente israeliano sostiene che, anche nel caso di liberazione degli ostaggi, l’avanzata dell’esercito non si placherebbe, dimostrando che a Netanyahu non è mai interessato liberare gli ostaggi, ma li ha semplicemente usati per i suoi scopi politici e di conquista.

Sono almeno vent’anni che pontifica di aggredire Gaza, così come sulla bomba atomica dell’Iran.

Unendo i “puntini” emerge sempre più la necessità di scavare a fondo nella vicenda del 7 ottobre, ancora satura di ombre e di non detti, per scoprire il ruolo dell’attuale governo israeliano nell’attentato.

Perché è poco credibile che il Mossad, uno dei migliori servizi d’intelligence al mondo, capace di orchestrare persino delitti mirati in paesi sovrani, sia arrivato a conoscere cosa aveva in mente Hamas solo a cose fatte, dopo altre agenzie e perfino dopo qualche giornalista.

Ma torniamo a oggi.

I numeri parlano chiaro e sono impietosi.

Duecentocinquanta rapiti il 7 ottobre 2023. Centoquaranta liberati tramite negoziati, otto salvati militarmente, cinquantasette corpi recuperati.

Restano una ventina di ostaggi vivi e almeno ventotto cadaveri nelle mani di Hamas. Ogni cifra rappresenta una famiglia distrutta, una speranza che si spegne, un governo che ha fallito nel suo dovere primario di proteggere i cittadini.

Ma i numeri parlano anche di oltre 62000 civili uccisi, di cui almeno 18000 sarebbero bambini e tra i quali ci sono anche centinaia di giornalisti.

L’ARTE DELL’EQUILIBRISMO POLITICO: TRA PIAZZA E KNESSET

Netanyahu si trova schiacciato in una morsa: da una parte la piazza che urla “basta”, dall’altra i partiti di estrema destra pronti a far cadere il governo se firmerà qualsiasi accordo con Hamas.

È il classico dilemma dei dittatori: mantenere il potere o servire il popolo?

La pressione internazionale si intensifica.

Emmanuel Macron scrive lettere diplomatiche che suonano come ultimatum, Qatar, Stati Uniti ed Egitto aspettano risposte che non arrivano, anche se sembrano teatrini messi in scena per soddisfare l’indignazione dei popoli e non certo azioni diplomatiche degne di nota.

Hamas ha accettato la proposta di cessate il fuoco, ma Israele tentenna, dimostrando il paradosso geopolitico per cui i “terroristi” sembrano più ragionevoli del governo da noi definito “democratico”.

LA STRATEGIA DEL DOPPIO BINARIO: GUERRA E NEGOZIATI

Mentre le famiglie manifestano, l’esercito israeliano riceve ordini per accelerare l’offensiva terrestre su Gaza City, nel più classico dei doppi binari, per cui si negozia con una mano e si bombarda con l’altra.

Strategia che funziona nei manuali militari, meno nella realtà dove ogni bomba uccide la possibilità di un accordo.

IL GENOCIDIO DEI TESTIMONI. QUANDO I GIORNALISTI DIVENTANO BERSAGLI

L’eliminazione sistematica dei giornalisti a Gaza è un altro elemento che rende i crimini di Netanyahu ben altra cosa rispetto alla guerra in Ucraina.

Oltre 240 morti dall’inizio del conflitto. Alcune fonti parlano di oltre 300. Più che in tutte le guerre del Novecento messe insieme.

Definire questi atti figli di un Paese democratico è illogico.

L’ultimo massacro all’ospedale Nasser, dove cinque giornalisti sono stati uccisi mentre documentavano la verità, i fatti, la realtà, ciò che certi colleghi italiani tentano di celare, revisionare, perfino negare.

Hussam al-Masri stava trasmettendo in diretta quando è stato bombardato dall’esercito israeliano.

LA LETTERA DI MARIAM: QUANDO LA VERITÀ COSTA LA VITA

Mariam Abu Daqqa, una dei cinque giornalisti ammazzati l’altro giorno dall’esercito israeliano, aveva scritto una lettera testamento al figlio dodicenne, sapendo di avere un mirino puntato alla testa, visto che il mondo restava in silenzio di fronte alle atrocità commesse dal governo Netanyahu.

“Ghaith, cuore e anima di tua madre, sei tu. Ti chiedo di non piangere per me, ma di pregare per me così che io possa restare serena.
Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio. Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te.
Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me.
Tu sei il mio amore, il mio cuore, il mio sostegno, la mia anima e mio figlio. Colui che mi fa alzare la testa con orgoglio.
Sii sempre felice e conserva una buona reputazione. Ti prego, Ghith: la tua preghiera, poi ancora la tua preghiera, e poi ancora la tua preghiera.”.

Mariam Abu Daqqa – uccisa dall’esercito israeliano

Parole che squarciano il velo dell’indifferenza.

Leggendole, viene da chiedersi se l’amore di questa madre per suo figlio non fosse identico a quello delle mamme di Auschwitz, in fila verso le camere a gas.

Mariam Abu Daqqa sapeva che raccontare la verità su Gaza equivaleva a una condanna a morte, ma a continuato comunque.

Questo è giornalismo, raccontare la verità anche a rischio della tua vita. Il resto è propaganda.

Le scuse dell’esercito israeliano sono patetiche: “danni collaterali”, “obiettivi non intenzionali”.

Fosse stato un caso isolato, come accaduto, per esempio, in Ucraina, e dove pure si è inveito contro la Russia, sarebbe credibile, ma Israele ha raso al suolo diversi ospedali e ha preso di mira più volte ambulanze e auto mediche, dichiarando che lo fa perché lì si nascondono i terroristi.

Un po’ come se, dopo le stragi del ’92, l’esercito italiano avesse bombardato i quartieri di Palermo perché era lì che si nascondevano i mafiosi.

Bombardare ospedali resta un crimine di guerra, anche quando lo si fa “per sbaglio” o perché si usano i civili come scudi umani. E, soprattutto, quando lo “sbaglio” si ripete 240 volte, diventa sistema. Diventa scelta strategica.

Diventa crimine contro l’umanità, senza se e senza ma.

L’ANATOMIA DEL CONSENSO IN CRISI: ANALISI SOCIOLOGICA

Dal punto di vista sociologico, assistiamo alla classica erosione del consenso che precede le grandi crisi politiche. Il contratto sociale israeliano si basava sull’assunto di sicurezza in cambio di libertà.

Ma quando la sicurezza non viene garantita e la libertà si trasforma in licenza di uccidere, il patto si rompe.

Le manifestazioni israeliane non sono episodi isolati, ma rappresentano la punta dell’iceberg di una società che inizia a interrogarsi su ciò che fino a ieri era narrazione intoccabile.

Sebbene io non escluda che qualche “genio” di casa nostra possa parlare di antisemitismo anche in questo caso.

LA SINDROME DEL BUNKER: NETANYAHU E L’ISOLAMENTO DEL POTERE

Netanyahu mostra tutti i sintomi della “sindrome del bunker”: isolamento crescente, percezione distorta della realtà, incapacità di leggere i segnali sociali, odio e arroganza.

Classico degli autocrati che confondono il silenzio del terrore con il consenso popolare.

La coalizione israeliana si regge su equilibri sempre più precari.

I partiti religiosi e di estrema destra ricattano quotidianamente il premier, minacciando la caduta del governo a ogni accenno di compromesso, cosa che dimostra in maniera inequivocabile quanto la democrazia sia ostaggio degli estremisti.

LA COMPLICITÀ INTERNAZIONALE: L’OCCIDENTE VEDE SOLO LA RUSSIA.

Ma il vero scandalo è la complicità internazionale.

Stati Uniti ed Europa continuano a fornire armi agli aggressori israeliani mentre fingono di chiedere moderazione e mentre sanzionano la Russia e forniscono armi all’Ucraina.

Ipocrisia geopolitica allo stato puro: si deplora pubblicamente quello che si finanzia privatamente in Medio Oriente, ma si fa l’esatto contrario in Ucraina.

Francesca Albanese, relatrice Onu, implora sanzioni ed embargo militare, ma resta una voce che grida nel deserto di una diplomazia sorda e complice e, addirittura, viene sanzionata con minacce e ripicche che ricordano metodi mafiosi, per essersi permessa di denunciare crimini, colpevoli e complici.

Perché ammettere il genocidio significherebbe ammettere la propria complicità. Cosa che, tuttavia, è evidente a chiunque abbia ancora un briciolo di dignità umana.

I NUMERI DELL’ORRORE: 62MILA MORTI NON SONO STATISTICA

Oltre 62mila morti a Gaza, l’83% civili, secondo i dati dell’esercito israeliano pubblicati dal Guardian.

Cifre che sfuggono alla comprensione umana.

Stalin diceva che una morte è una tragedia, un milione è statistica. A Gaza siamo oltre la statistica, siamo nell’abisso morale a cui i nostri leader europei partecipano con un silenzio complice.

VERSO LA “SOLUZIONE FINALE”: LE PAROLE DI SMOTRICH

Bezalel Smotrich, ministro israeliano, ha detto ai vertici militari: “Potete assediarli, non permettete a nessuno di restare. Senza acqua, senza elettricità, possono morire di fame o arrendersi”.

Parole che riecheggiano fantasmi nazisti che l’Europa pensava di aver sepolto per sempre.

Parole che sono criminali, ma che qualche giornalista di casa nostra riporta come “democratiche” e da contestualizzare, in quel mondo dispotico, in stile orwelliano, in cui stiamo scivolando sempre più.

La “soluzione finale” per Gaza è iniziata: deportazione verso sud, segregazione in campi di concentramento a cielo aperto.

Il linguaggio conta, le parole feriscono, la Storia giudica, ma i nostri leader sembrano incapaci – o del tutto consapevoli, ma, allora, complici – di accorgersi che il nazismo è tornato in tutta la sua drammatica evidenza.

IL PREZZO DELLA VERITÀ IN TEMPO DI GUERRA

Le proteste israeliane rappresentano molto più di una rivolta contro Netanyahu. Sono il sintomo di una società che inizia a fare i conti con l’inaccettabile, con la verità celata per troppo tempo dalla menzogna.

Quando i cittadini scendono in piazza per chiedere la pace, significa che la propaganda di guerra ha fallito.

Ma la vera battaglia si combatte tra chi vuole documentare la verità e chi preferisce eliminarla insieme ai testimoni.

A Gaza, impugnare una telecamera è diventato più pericoloso che imbracciare un fucile. Perché le immagini uccidono più delle bombe: distruggono narrazioni, smascherano menzogne, rivelano la barbarie sotto la patina della civiltà.

E smontano la narrazione dello Stato democratico e dell’antisemitismo.

Questo è nazismo. Punto.

La lettera di Mariam Abu Daqqa al figlio Ghaith resterà nella Storia come testimonianza di un’epoca che ha scelto il silenzio di fronte al nazismo, anziché combatterlo.

Mentre in Occidente ci indigniamo per i giornalisti arrestati in Russia, a Gaza gli israeliani li uccidono direttamente, ma, al di là di qualche post indignato, nessuna sanzione, nessun ammonimento, nessuna arma agli aggrediti. Anzi, le armi continuiamo a venderle agli aggressori.

Almeno Putin ha il pudore di usare le manette, e noi sanzioniamo, ma Israele usa le bombe e noi non facciamo nulla.

Il consenso di Netanyahu si sgretola, la piazza israeliana si ribella, l’Occidente finge di non vedere ed etichetta chiunque apra gli occhi come antisemita.

Ma la Storia vede tutto, registra ogni crimine, giudica ogni complicità. E quando il sipario calerà su questa tragedia senza fine, nessuno potrà dire “non sapevo”.

Non un leader, non un cittadino comune.

Non un giornalista.

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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