PERCHÉ L’ESERCITO EUROPEO È INCONSISTENTE E IL RIARMO RISCHIA DI RENDERLO ANCHE PEGGIORE

Oggi, nessuna narrazione è più pervasiva e, al contempo, più fragile di quell’Europa dipinta come unita e risoluta, pronta a fronteggiare la minaccia russa.

Si tratta di una retorica feroce dai toni da crociata, ma nega l’evidenza.

Infatti, i dati, quelli veri, dipingono un quadro di sconcertante inconsistenza.

Scavando nel Military Balance 2025, si nota che la stragrande maggioranza delle nazioni europee, quelle più veementi nell’esortare al riarmo contro Mosca, non dispone in realtà di forze da combattimento credibili.

Siamo di fronte a un bluff colossale, a un castello di carte costruito sulla presunzione che la deterrenza sia un atto più linguistico che reale.

IL NORD EUROPA, EMBLEMA DI UNA RETORICA ALTA CON NUMERI BASSI

Prendiamo il Nord Europa, spesso dipinto come il baluardo della resistenza contro l’orso russo.

La Finlandia, con i suoi 1.340 km di confine con la Russia, ha scelto di diventare una “cortina di ferro”.

Una scelta comprensibile, guardando alla storia, ma, in sostanza, il suo esercito conta su appena 22.000 soldati in servizio attivo, dei quali 13.000 sono coscritti.

Numeri che diventano irrisori se paragonati alla vastità del suo territorio.

Sono forze insufficienti a presidiare in modo credibile un solo settore critico come quello di Pokrovsk, figuriamoci per una guerra contro Mosca.

La Norvegia, fianco nord della NATO, schiera soli 27.000 militari; la Svezia, una nazione grande una volta e mezza l’Italia, con una tradizione militare secolare, oggi conta su meno di 34.000 soldati in servizio attivo permanente; la Danimarca, tra le più attive nel sostegno a Kiev, ha compiuto un gesto generoso, ma strategicamente avventato, donando tutta la sua artiglieria all’Ucraina.

Oggi il suo esercito conta 22800 militari, di cui sarebbero addestrati a una guerra meno della metà.

Dall’altra parte, la Russia vanta tra 1,3 e 1,5 milioni di soldati, a cui vanno aggiunto oltre 2 milioni di riservisti. Un paragone insostenibile.

Il paradosso raggiunge l’apice con gli Stati Baltici, con l’Estonia, patria della commissaria UE Kaja Kallas, una delle voci più veementi contro il Cremlino, che possiede un esercito di appena 4.200 soldati. Zero carri armati. Zero aerei da combattimento.

Un gattino che vuole sfidare un leone.

Come può la Kallas sbraitare contro Mosca con un esercito così insignificante?

La stessa identica situazione vale per Lettonia e Lituania. La loro sovranità aerea è interamente affidata ai partner NATO, eppure, le loro leadership politiche proferiscono dichiarazioni di una sicurezza e una determinazione assolute che mettono in pericolo l’intera coalizione.

Questo divario tra percezione e realtà è una patologia endemica in Europa e anche in Italia, dove molti italiani sono convinti davvero che si possa fare una guerra contro la Russia. Ma con quali uomini, quali armamenti e quali eserciti, senza USA?

A Washington, Giorgia Meloni ha posto proprio questa domanda a Macron, quando il presidente francese ha paventato ancora l’eventualità di inviare soldati europei in Ucraina per garantirne la sicurezza.

«Quanti dovremmo inviarne, visto che la Russia può contare su 1,3 milioni di soldati?»

Domanda legittima e di buonsenso.

10.000? 30.000? 100.000?

Sarebbero comunque pochi. E se, in caso di un incidente o di una incomprensione, o di un atto terroristico di chi volesse scatenare una guerra mondiale, ucraino o russo che fosse, venisse ucciso un soldato della NATO in Ucraina, scatterebbe l’Art. 5 sull’intervento NATO?

Anche perché, al di là dei paesi baltici, la situazione non migliora altrove.

Nei Balcani, nazioni come Bulgaria, Croazia, Montenegro e Slovenia presentano eserciti esigui, tecnologicamente obsoleti e, in alcuni casi, privi persino di un’aviazione da combattimento degna di questo nome.

Paesi fondatori e ricchi come l’Olanda hanno un esercito di 53.000 uomini che, incredibilmente, è privo di carri armati. Il Belgio può contare su appena 32.000 soldati.

Pare che contando tutti i soldati in servizio attivo in tutta Europa, si possa arrivare a 1,5 milioni di unità, perciò, almeno in linea teorica, potremmo fronteggiare la Russia, che, tra soldati attivi e riservisti, conterebbe circa 3,5 milioni di unità.

Ma a questi, non è detto che la Russia non possa contare sull’aiuto degli alleati più potenti militarmente, come la Corea del Nord e, soprattutto, la Cina.

Senza dimenticare che la società russa è abituata al sacrificio e può svoltare a un’economia di guerra in un batter d’occhio, mentre gli europei vivono in un’altra dimensione, fatta di diritti, di rispetto delle diversità di genere, di ricerca dell’edonismo.

Non tenere conto di queste diversità antropologiche è un errore strategico devastante.

Inoltre, quanto a produzione di mezzi, armi e munizioni, è stato più volte sottolineato da diverse fonti che la Russia produce a velocità superiori rispetto all’Europa, perciò l’idea di una guerra alla Russia, somiglia alle velleità di acquistare una casa del tizio che spera nella vincita alla lotteria.

Ma c’è un’altra questione che non viene affrontata, quella della leadership e della difesa della patria.

La Russia ha una regia e quei 3,5 milioni di soldati e riservisti fanno capo a Mosca e tutti combattono per la loro nazione. Tutti i soldati europei a chi dovrebbero rispondere e per chi combatterebbero?

Con quale spirito un giovane greco, maltrattato e umiliato da Bruxelles, dovrebbe combattere per l’Europa?

Con quale spirito dovrebbero farlo i giovani dei paesi meridionali, sempre additati da Olanda, Danimarca e baltici.

Con quale spirito dovrebbero farlo gli spagnoli, i tedeschi, i francesi…?

AUTONOMIA STRATEGICA O SERVITÙ VOLONTARIA?

I numeri presentano una verità che la retorica non può più nascondere.

La gran parte delle nazioni europee più impegnate a propugnare il riarmo possiede capacità di combattimento irrilevanti, per cui, i loro capricci chiamano necessariamente in causa i grandi paesi, come Germania, Francia e Italia.

Ma i grandi paesi sono anche alle prese con gravi crisi economiche ed esposizioni debitorie sempre più insopportabili.

La deterrenza di chi urla contro Mosca, perciò, è un’illusione.

Questa constatazione spiega, meglio di qualsiasi analisi politica, l’inconsistenza delle loro velleità e la natura delle pressioni che esercitano su Roma, Berlino e Parigi. È una richiesta di delega della propria sicurezza. Anzi, della propria sovranità.

Ma questo deficit di capacità militare si traduce direttamente in un deficit di autonomia geopolitica.

La dipendenza dagli Stati Uniti non è solo operativa, ma è psicologica e politica. Noi, oggi, non possiamo fare guerra a nessuno. Ma, ancor più grave, non potremmo difenderci da soli da nazioni dotate di eserciti ben addestrati e armati di armi all’avanguardia.

La retorica bellicista diventa quindi pericolosa e arrogante.

Parlare di “sconfiggere la Russia”, di aiutare l’Ucraina fino alla vittoria finale contro Mosca”, è un azzardo che fa quasi rima con irresponsabilità.

Anche perché, qualsiasi scenario di sconfitta convenzionale per Mosca riaccenderebbe inevitabilmente il dibattito sull’uso tattico delle armi atomiche. È quando parliamo della potenza nucleare più devastante sul pianeta, si tratta di un calcolo che non si può ignorare, ma che Kallas & Co, spesso dimenticano.

La via d’uscita è una sola.

Da un lato, un rafforzamento serio, coordinato e immediato degli eserciti europei, ma non per brama di guerra, bensì per un elementare istinto di sopravvivenza e per affermare una vera autonomia strategica.

Se gli USA, legittimamente, decidono di orientare le loro risorse altrove, chiudendo i rubinetti per la nostra Difesa, l’Europa deve essere in grado di garantire da sé la propria difesa.

Ma essere autonomi nella difesa significa essere autonomi nelle decisioni politiche e anche più forti a livello geopolitico. Significa smettere di essere vassalli e tornare a essere attori protagonisti della storia.

Tuttavia, il riarmo non può essere finalizzato ad acquistare armi dagli USA per alimentare una guerra contro la Russia, perché ciò non aumenta la nostra capacità di difesa e dissangua gli europei.

Non serve un riarmo, ma una logica di difesa comune orientata ad avere una deterrenza in grado da farci rispettare da Cina, Russia e USA, altrimenti l’Europa sarà sempre quella da informare a cose fatte, o quella a cui applicare dazi a doppia cifra, per poi darle un contentino.

Ma riarmarsi solo per spaventare la Russia servirebbe solo a costringere Mosca a investire ancora di più nelle armi, proprio come accadde tra ‘800 e ‘900, quando la Germania investì ingenti somme per aumentare la potenza della sua flotta navale e la Gran Bretagna aumentò a sua volta le spese per la sua flotta, in modo da non perdere la leadership.

Gli investimenti di entrambi, spinsero anche la Francia e altri stati a riarmarsi, così l’Europa si ritrovò piena di armi e bastò davvero poco per scatenare la Grande Guerra.

L’Europa ha bisogno di un sistema di difesa comune, ma prima di costruire anche un esercito ingente e addestrato fino ai denti, serve costruire un’identità europea, una patria, perché senza patria, non può esservi difesa.

E, oggi, la patria dei tedeschi è la Germania; quella degli italiani è l’Italia, così per gli spagnoli, i greci, i portoghesi…

Non è l’Europa. Soprattutto, non è questa Europa dei burocrati.

Il tempo delle chiacchiere è finito. Sarebbe il caso che finisse anche quello di chi sbraita sciocchezze.

Ora servono i fatti e i leader con competenze e attributi, non quelli che sbraitano e nemmeno quelli da scampagnata a Washington.

E servirebbero il prima possibile, prima che la storia ci presenti il conto.

FONTI: INFO DATA; EURONEWS; CORRIERE MILITARI; OSSERVATORIO UNIV. CATTOLICA; EURISPES;

Pubblicato da Dott. Pasquale Di Matteo, Analista di Geopolitica | Critico d'arte internazionale | Vicedirettore di Tamago-Zine

Professionista multidisciplinare con background in critica d’arte, e comunicazione interculturale, geopolitica e relazioni internazionali, organizzazione e gestione di team multiculturali. Giornalista freelance, scrittore, esperto di Politiche Internazionali ed Economia, Comunicazione e Critica d’arte. Laureato in Scienze della Comunicazione, con un Master in Politiche internazionali ed Economia, rappresenta in Italia la società culturale giapponese Reijinsha.Co.

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