IL NUOVO ECOSISTEMA INFORMATIVO
Viviamo in un’epoca di transizione comunicativa senza precedenti, perché, da quando è nato Internet e si sono sviluppati i social network, il monopolio informativo tradizionale si è frantumato, creando un ecosistema dove milioni di voci possono esprimere analisi.
Tutto come sancito dalle costituzioni democratiche, sfidando narrazioni consolidate e mettendo in discussione le verità dei quotidiani mainstream, cioè quelli che erano oro colato nell’era prima di Internet.
Un tempo, nessuno metteva in discussione Il Corriere della Sera o La Repubblica, se non avvalorando la tesi differenti di un altro quotidiano.
Oggi, invece, accade che si possano mettere in discussione le narrazioni di tutti i quotidiani.
Questa rivoluzione digitale ha generato una reazione che merita un’analisi sociologica approfondita, perché, quando i leader europei parlano di “limitare i social per combattere le fake news”, stanno davvero proteggendo la verità o stanno difendendo il loro controllo sull’informazione?

È vero che tanti sfogano gli istinti da bar sport sulle tastiere del computer, ma ci sono anche analisti strutturati, colti, informati, che trattano gli argomenti con professionalità.
La questione, perciò, è più complessa di quanto appaia in superficie.
L’ANATOMIA DELLA COSTRUZIONE NARRATIVA TRADIZIONALE
Per comprendere la portata di questo cambiamento, dobbiamo prima analizzare come funzionava il sistema informativo pre-digitale.
I media tradizionali operavano secondo un modello verticale e unidirezionale: poche fonti diffondevano informazioni a un pubblico sostanzialmente passivo, che non aveva alcuna possibilità di veicolare il proprio punto di vista.
Questo sistema permetteva un controllo narrativo quasi totale, dove le versioni ufficiali degli eventi raramente venivano contestate, se non in una sorta di campagna elettorale tra i diversi orientamenti politici delle varie testate.
Il processo di costruzione delle narrazioni seguiva schemi precisi, ma non c’era un contraltare al racconto “ufficiale”.
Ma qual era il rischio?
Beh era quello di farsi un’idea sbagliata degli eventi.
Facciamo un esempio lampante che deriva dal nostro tempo. Sulla guerra in Ucraina abbiamo assistito a una serie di affermazioni che si sono rivelate false, prive di ogni fondamento logico.
Il racconto dell’esercito russo equipaggiato solo con “pale” e costretto a smontare “microchip dagli elettrodomestici” rappresenta un caso studio illuminante su come vengono costruite e diffuse certe narrazioni false.
Eppure, basterebbe ricordare quanto investono gli USA in ricerca e sviluppo di tecnologia militare per capire che l’idea di utilizzare microchip ad uso civile per droni e carri armati è fantozziana.
Ma questi racconti non nascono dal nulla, ma seguono precise logiche comunicative.
Prima fase: semplificazione estrema del nemico per renderlo ridicolo e non minaccioso, in modo da smontare chiunque mettesse in discussione la vittoria ucraina.
Seconda fase: creazione di un senso di superiorità nel pubblico domestico, contando su una narrazione quasi a senso unico, veicolata in massa da quotidiani di diversa estrazione.
E, quando è stato necessario giustificare politiche belligeranti e di riarmo, che cozzano con l’idea di Russia economicamente al collasso e senza più uomini da mandare al fronte, ecco il capovolgimento narrativo per giustificare il nuovo mantra, come in “1984” di Orwell.
Perciò, la Russia “armata di pale” è improvvisamente diventata una minaccia esistenziale capace di “raggiungere Lisbona domattina”, in grado di fabbricare missili, munizioni, carri armati e droni a ritmi alieni.
Delle due una: mentivano prima o mentono adesso?

MA COME SI FABBRICA UNA FAKE NEWS?
L’esempio dell’età pensionabile veicolata da La Repubblica offre una lezione magistrale sui meccanismi di manipolazione informativa.
Il dato tecnico è incontrovertibile: dal 2027 serviranno 43 anni e 1 mese di contributi per la pensione, conseguenza diretta degli automatismi introdotti dalla Legge Fornero, durante il governo Monti.
Una legge votata praticamente da quasi tutti i partiti, anche di chi oggi è all’opposizione.
Tuttavia, la presentazione di questa informazione rivela le tecniche sofisticate della propaganda moderna, perché la strategia è stata articolata in diversi passaggi.
È stato isolato il dato dal suo contesto storico e normativo, eliminando ogni riferimento alle origini della misura.
Poi si è applicato quello che potremmo definire “timing tossico”, cioè la notizia è stata lanciata nel momento di massima sensibilità sociale, quando l’opinione pubblica è già provata da difficoltà economiche dovuta ai rincari delle bollette e del caro vita.
Infine, così com’è stata veicolata la notizia, la responsabilità dell’innalzamento dei parametri per andare in pensione è stata data al target politico del momento, ignorando completamente la continuità legislativa mantenuta da tutti i governi che si sono susseguiti da Monti a Meloni e senza ricordare che lo scatto era previsto già dal governo Monti.
Ora, non è questa la sede per giudicare la bontà o meno della Legge Fornero, ma è evidente che se veicoli la notizia come ha fatto “Repubblica”, chi non è informato e non conosce i meccanismi della suddetta legge, si è fatto l’idea che sia stato il governo Meloni a mandare gli italiani in pensione più tardi. Cioè, si è diffusa una fake news.
LA RIVOLUZIONE DIGITALE: DEMOCRATIZZAZIONE O CAOS INFORMATIVO?
I social media hanno stravolto questo equilibrio consolidato.
Perché un tempo, il meccanismo avrebbe funzionato e la propaganda non sarebbe stata messa in discussione, in quanto, chi poteva avere competenza per giudicare i processi e i meccanismi messi in atto, non aveva nessuno spazio per diffondere le proprie considerazioni.
Oggi, invece, chiunque può accedere a fonti multiple, anche di altri paesi, può confrontare versioni diverse degli eventi, verificare informazioni in tempo reale.
Questo processo di democratizzazione informativa rappresenta un cambiamento antropologico profondo, perché l’audience passiva si trasforma in una comunità di utenti attivi, critici, interconnessi.
Le conseguenze sono evidenti.
Le narrazioni precostituite faticano a radicarsi quando milioni di persone possono accedere istantaneamente a fonti alternative, documenti originali, testimonianze dirette, così come la memoria storica offerta dal Web, dove le notizie restano incastrate e a disposizione di tutti, diventa la tomba della credibilità per chi ha diffuso fake news.
Oggi, le testate mainstream non hanno più credibilità non per colpa dei social, ma perché davano la Russia per spacciata a causa del rublo carta igienica e del suo esercito retto solo da ubriaconi raccattati per le strade della Siberia, poiché non c’erano più giovani da mandare al fronte.
Perché ci raccontavano che i giovani che erano stati mandati in Ucraina erano morti o avevano disertato, dopo essere stati costretti a usare le dita come baionette e solo pale dell’800 al posto dei fucili.
Non è colpa di Facebook o di X se le persone non credono più a certi giornalisti, ma della scarsa professionalità di questi stessi giornalisti, che hanno raccontato sciocchezze prive di fondamento per alimentare una narrazione distante anni luce dalla verità e dall’informazione oggettiva.
D’altronde, chi ha raccontato sciocchezze in passato potrà rifarlo ancora, perciò non ci si fida più di loro.
Mentre chi metteva in guardia e veicolava analisi che si sono rivelate vere su Facebook, su Linkedin, su X… oggi ha più credibilità, come è normale che sia.
Nessuno torna in un ristorante in cui ha mangiato male o il servizio era offensivo, no?
Il pubblico, oggi, può seguire eventi in tempo reale, confrontare versioni ufficiali con testimonianze sul campo, smascherare incongruenze narrative e sciocchezze spacciate per verità con il tempo che passa e con la verità dei fatti.
Questo scenario genera inevitabilmente una crisi di controllo per le élite politiche e mediatiche tradizionali, poiché il loro potere si fondava largamente sulla capacità di gestire i flussi informativi, di stabilire l’agenda pubblica, di definire quali questioni meritassero attenzione e in che termini dovessero essere discusse.
I social media hanno frantumato questa capacità di controllo, creando spazi comunicativi che sfuggono alla gestione tradizionale.
Ecco perché qualcuno vorrebbe imporre censure.
IL DIGITAL SERVICES ACT: CENSURA MASCHERATA DA SICUREZZA?
La reazione istituzionale a questa perdita di controllo si manifesta attraverso strumenti normativi sempre più invasivi.
Il Digital Services Act rappresenta il tentativo più ambizioso di ristabilire un controllo centralizzato sui flussi informativi digitali, ma sotto la maschera della “lotta alla disinformazione” e del “contrasto all’hate speech”.
L’analisi del DSA rivela meccanismi preoccupanti. Il seminario del 7 maggio 2025 tra Commissione europea e Big Tech ha mostrato come vengano condotte “esercitazioni” su scenari ipotetici, dove frasi come “Riprendiamoci il nostro paese” vengono classificate come “discorso d’odio”.
Chi stabilisce questi criteri? In base a quale legittimità democratica? Con quali garanzie di trasparenza e controllo?
Le sanzioni previste – multe fino al 6% del fatturato mondiale e sospensione delle operazioni in UE per le piattaforme che non impongono censure – rappresentano un ricatto economico che costringe i giganti dei social ad adeguarsi agli standard europei.
Ma ciò significa che un contenuto censurato a Bruxelles scomparirà automaticamente anche a Tokyo, Dallas, Sydney.
L’Europa, che a parole combatte le dittature, esporta la sua visione del controllo informativo e della libertà d’espressione al mondo intero.

QUANDO LA LIBERTÀ DIVENTA MINACCIA
Il paradosso è evidente: l’Europa, che si presenta come baluardo dei diritti umani e della democrazia, sviluppa strumenti di controllo che ricordano i peggiori regimi autoritari.
Dove una dittatura parla apertamente di censura, l’Europa parla di “moderazione dei contenuti”, dove un regime autoritario ammette il controllo dell’informazione, l’UE parla di “lotta alla disinformazione”, ma, al di là dei nomi, il risultato pratico è identico: la limitazione del dibattito pubblico, la riduzione del pluralismo informativo, la criminalizzazione del dissenso.
In altre parole, si impone una dittatura.
La vicepresidente UE Henna Virkkunen può dichiarare che il DSA è “content-agnostic”, ma la realtà operativa racconta una storia diversa, perché, come osserva il giornalista americano Matt Taibbi, “regolare tutte le forme di comunicazione digitale significa decidere cosa è lecito pensare”.
Di fatto, non si tratta di proteggere la verità, ma di stabilire chi ha l’autorità per definirla e chi può decidere cosa devi pensare.
LE CONSEGUENZE SOCIALI, OLTRE LA POLARIZZAZIONE POLITICA
La censura digitale non colpisce solo “gli altri”, ma rappresenta una minaccia per tutti, perché oggi può essere censurato un meme scomodo, domani una critica alla politica economica, dopodomani un’inchiesta giornalistica su interessi consolidati.
Oggi censuri chi pensa nero, ma domani, con la stessa logica e un cambio del vento, si censurerà chi pensa bianco, verde, rosso…
L’esperienza ci insegna che i meccanismi di controllo, una volta implementati, tendono inevitabilmente ad espandersi e non si tratta di fidarsi o meno dei decisori attuali, ma di riconoscere che nessun “Ministero della Verità” può essere considerato affidabile nel lungo periodo e apolitico.
Inoltre, la storia democratica è piena di esempi di istituzioni nate con nobili propositi che sono diventate strumenti di oppressione nelle mani di successivi dirigenti.
VERSO UNA SOCIETÀ INFORMATA O VERSO IL BAVAGLIO?
La risposta a questa deriva autoritaria non può essere la nostalgia per il monopolio informativo tradizionale, ma lo sviluppo di una cultura critica diffusa.
I social media, in questa prospettiva, non sono il problema, ma lo strumento. Come ogni tecnologia, possono essere utilizzati per scopi costruttivi o distruttivi, per espandere la conoscenza o per diffondere ignoranza, per rafforzare la democrazia o per minarla.
La differenza la fanno le competenze e la consapevolezza degli utenti.
Ma una cosa è certa: chi ha argomentazioni per supportare le proprie tesi non chiederà mai di censurare chi la pensa diversamente, ma chiederà, al contrario, un confronto, perché sa che le sue argomentazioni sono più solide.
Se chiede la censura o rinnega il contraddittorio, significa che le sue argomentazioni non sono in grado di reggere il confronto con l’altra persona. Di fatto, è probabile che la tesi dell’altro sia più vera, più corretta.
È il pubblico, con la propria testa, a doverlo giudicare.
L’AGORÀ DIGITALE: PRESERVARE LO SPAZIO DEMOCRATICO
Il web rappresenta l’equivalente moderno dell’agorà antica, uno spazio pubblico dove idee diverse si confrontano, dove si dibatte liberamente, dove la verità emerge attraverso il confronto dialettico e le argomentazioni, appunto. Non perché un censore stabilisce chi ha ragione e chi torto.
Preservare questo spazio significa riconoscerne il valore democratico fondamentale.
La battaglia attuale sui social media non riguarda solo la gestione dell’informazione, quindi, ma il futuro della democrazia.
Stiamo assistendo a un tentativo di restaurazione del controllo informativo tradizionale, mascherato da preoccupazioni legittime, ma orientato verso obiettivi antidemocratici.
La posta in gioco è enorme.
Se permetteremo che la paura della “disinformazione” giustifichi la limitazione del dibattito pubblico, avremo consegnato alle élite politiche ed economiche uno strumento di controllo sociale senza precedenti nella storia democratica.
La libertà d’informazione non è un lusso né una concessione, ma la precondizione stessa della democrazia, senza la quale, ogni altra libertà diventa revocabile.