Era il 30 di dicembre 2024, cioè meno di quattro mesi fa, quando ci si accorgeva improvvisamente che stava cambiando tutto nel settore della moda.
Un giro di valzer di direttori creativi delle grandi maison con sostituzioni impensabili fino a qualche mese prima e tutto alla vigilia di importanti e imminenti sfilate.
Cambi non solo per designer, ma anche nelle posizioni apicali. Non è un fenomeno da sottovalutare.
Nel 2024 è cambiata una decina di creativi dopo anni di lavoro passati nello stesso brand. Maison Margiela, Bottega Veneta, Carven, Valentino, Moschino, Jil Sander, Blumarine, Céline, Tom Ford hanno cambiato direzione come fosse un gioco da tavolo e a risentirne è certamente lo stato di salute complessivo della moda.
E sono stati spesso cambi dell’ultimo minuto. È una instabilità dovuta alla fine degli anni verdi dove anche questo comparto ora deve fare i conti con una società capitalistica per cui il consumo sregolato non è più così presente, anche se queste maison fanno comunque sempre incassi da capogiro.
Qual è il motivo per cui il mondo della moda è diventato così incerto?
Essenzialmente, pesa la crisi finanziaria che ha colpito la Cina, che era il primo paese a trascinare il lusso insieme a Giappone e Corea del Sud. E, ovviamente, tutto questo comporta una rivoluzione anche nel campo del lusso.
Ad esempio, non si parla ormai più di “direttore creativo”, ma di “direttore artistico”. E questo si evince nelle ultime sfilate, dove la spettacolarizzazione supera i tradizionali confini ingabbiati in location usuali.

Ormai si preferisce la strada, il capannone, l’inusuale contesto operativo. Cioè più marketing e meno creatività; in ogni caso, sempre con un occhio attento a quello che succede nel mercato di riferimento, dove le imitazioni al consumo di chi si può permettere acquisti a più zeri lasciano il posto ad una più evidente normalità, pur con le frange di produzione che richiamano le presentazioni dei leader del mondo fashion, così diverse e, appunto, fashinose.
Il consumo folle che trasferisce il breve termine nei consumi deve fare i conti con le disponibilità economiche attuali.
E le imitazioni perpetrate dal fast fashion europeo nulla hanno a che fare con le grandi maison che determinano le tendenze. Se il comparto globalmente fa comunque girare conti con molti zeri è anche altrettanto vero che questi numeri si confrontano, spesso spaventosamente, con i dati sociali ed occupazionali macroeconomici.
In questo contesto preoccupante, secondo una recente analisi di Infocamere su dati INPS, la moda italiana ha perso 28.500 addetti in meno di 10 anni ed è la filiera del manifatturiero che figura in cima alla lista dei settori che hanno perso più occupati.
Poi ci sono anche elementi di forte compressione dovuti al green effect.
Preoccupa ad esempio l’impronta idrica del comparto. Secondo alcuni studi, occorrono quasi 724000 litri di acqua per produrre, rifinire, tingere o stampare i capi di vestiario mediamente presenti nell’armadio dell’italiano medio.
In Europa, l’Italia è seconda solo al Portogallo. Ciò nonostante, secondo una stima del Centro Studi Confindustria, l’Italia è tra le nazioni con una produzione più sostenibile nel G20 e nell’UE.
Secondo questi studi, il 71,5% delle emissioni della intera manifattura italiana proviene da quattro settori. In ordine di responsabilità, vi sono minerali non metalliferi, derivati del petrolio, prodotti chimici, metallurgia.
Anche il tessile in questa graduatoria è responsabile per la sua parte per il 4,5%.
Poi ci sono le incertezze del lusso europeo che è in calo con l’incognita e le preoccupazioni dei dazi USA previsti e applicabili dal 2 aprile.
Vedremo a breve quali decisioni reciproche, in ambito europeo e mondiale, verranno adottate.
È chiaro che il comparto non sta a guardare, ma reagisce con cambi al vertice, acquisizioni, cambi di strategia, etc…
Chi, ad esempio, come Loro Piana, sembra aver scelto una strada interna con Frederic Arnault, rampollo di famiglia, ai vertici. Chi prova intese: il dialogo fra Prada e Versace ne è un chiaro esempio e gli advisor hanno dato tempo fino al 10 aprile.
In questo quadro, gli azionariati che si muovono come fosse un global economic game, le partecipazioni sono molto incrociate e molto intrecciate e potrebbero prevedere cambi di proprietà e cessioni veramente importanti.
Jimmy Choo, ad esempio, potrebbe far parte di questi cambi. Ma forse la parte che ha fatto più rumore è l’abbandono di Sabato De Sarno, che ha lasciato (o ha dovuto lasciare) Gucci proprio alla vigilia della Milano fashion week 2025.
Certo, De Sarno non ha prodotto gli effetti sperati, portando una perdita del 12% alla maison più importante del gruppo francese Kering, proprietarie del brand Gucci, appunto. Ma la MFW è già passata ed è recentissima la nomina di Demna come nuovo direttore creativo di Gucci, proveniente da Balenciaga, di cui è proprietaria la stessa Kering.
Ma la Borsa non ci crede. Certo nel settore moda c’è anche chi dichiara brillanti risultati.
Mango, ad esempio, denuncia un utile netto 2024 del 27% e non è l’unico. Ma Mango non è certo Gucci. Anche Miu Miu ha brillato come pochi nel 2024, salvando gli utili del gruppo a cui appartiene.
Altri, come Ferragamo, archivia il 2024 con una perdita di 68 milioni dopo un precedente utile di 26. Anche qui si attende la nomina del nuovo CEO. Ma qui una parola utile potrebbe essere spesa nel raccontare le discendenze dirette dei proprietari del lusso.
Sembra esserci una autarchia imperante ed una autocelebrazione incentrata sul dogma: Io sono l’icona e quindi fidatevi di me, seguitemi e non cercate altre vie. Perché non ce ne sono.
Un po’ come nelle famiglie dei grandi imprenditori d’altri tempi quando per i ricambi generazionali a dirigere le aziende venivano sempre escluse le discendenze femminili.
Ma il lusso sembra chiuso su se stesso (con poche eccezioni) e ha le sue regole di ferro che, visto che i cambiamenti sono sempre più rapidi, sembrano sempre più anacronistici e protettivi solo dei sistemi familiari.
Questo accade in tutti i campi e non solo nella moda, diventando sempre meno comprensibile. Potrebbe essere l’inizio della fine o l’inizio di un nuovo ciclo obbligatorio, ma magari ancora poco visibile e comprensibile?
Le cronache, rimanendo in Italia, sembrano confuse ma non dobbiamo confondere i brand con le proprietà, dove i fondi internazionali vanno sempre alla ricerca di opportunità pronti a virare dove c’è il miglior guadagno. È nella loro natura. Il mondo degli affari è questo.
Togliamoci dalla testa che sia anche romantico.
È tutto da scrivere e da reinventare: ora per ora perché il business non aspetta.
Se si vede all’orizzonte una nuova opportunità di guadagno. Pronti, via! Si parte. C’è un brand del lusso da comperare, c’è una partecipazione da condividere, se c’è un mercato già pronto da conquistare, se c’è qualcuno da sistemare nella propria famiglia.
Meglio se esistono milioni di consumatori a cui sottoporre poco democraticamente le proprie scelte estetiche ed economiche. Perché tutto fa trend, spettacolo, mercato, business.
Insomma nel lusso non ci si annoia. Quasi mai.